[...] il sogno di avere mano libera in fabbrica, sull’organizzazione del lavoro come sulle retribuzioni, senza avere il problema di subire scioperi come reazione. Il sogno di ottenere tutto questo non più con l’aiuto della polizia o dell’esercito, come si faceva nell’800, ma con la firma delle organizzazioni dei lavoratori. Formalmente non con una imposizione, dunque, ma offrendo una possibilità di scelta. [...]
[...] La Fiom ribadisce il suo no ad uno stravolgimento delle leggi e del contratto nazionale, ma lancia una proposta alla Fiat per salvare lo stabilimento di Pomigliano e gli investimenti promossi dal Lingotto sul sito campano. Con l’utilizzo dei 18 turni e delle flessibilità necessarie è possibile, rilancia il segretario generale dei metalmeccanici della Cgil, Maurizio Landini, «garantire una produzione annua superiore alle 280 mila Panda» indicate come obiettivo dall’azienda, con un 18mo turno strutturale, e senza lo straordinario.
È questa la proposta che arriva dalla Fiom al termine del Comitato centrale, convocato dalle tute blu per dare una risposta alla Fiat in vista della nuova convocazione dei sindacati per domani. Un tavolo a cui la Fiom non è stata chiamata ma che vedrà comunque un suo osservatore al tavolo [...]
LA CUCINA BERLUSCONIANA E LE RANE IN PENTOLA
LA TEOLOGIA POLITICA DELLA "SOVRANITA’ PRIVATA" DELL’IMPRENDITORE E LA COSTITUZIONE.
L’ANALISI
Mano libera in fabbrica
di CARLO CLERICETTI (la Repubblica, 14.10.2010)
"Ho fatto un sogno". Nessun imprenditore italiano ha ripetuto la frase dello storico discorso di Martin Luther King sulla fine della discriminazione razziale, ma si può star certi che la maggior parte l’ha pensata. Ed è un sogno molto diverso da quello: il sogno di avere mano libera in fabbrica, sull’organizzazione del lavoro come sulle retribuzioni, senza avere il problema di subire scioperi come reazione. Il sogno di ottenere tutto questo non più con l’aiuto della polizia o dell’esercito, come si faceva nell’800, ma con la firma delle organizzazioni dei lavoratori. Formalmente non con una imposizione, dunque, ma offrendo una possibilità di scelta.
Certo, nel caso di Pomigliano l’alternativa è un po’ asimmetrica: o si accettano le condizioni poste dall’azienda o la fabbrica chiude. Chiedersi se si proponga veramente una scelta sarebbe una domanda retorica. Ed è altamente probabile che anche il referendum tra i lavoratori, se si farà, scelga di mangiare quella minestra piuttosto che buttarsi dalla finestra.
Quella minestra, però, contiene ingredienti indigeribili. Non si tratta della fine della concezione del sindacato come "antagonista", come chiosa il candido segretario della Uil Luigi Angeletti. Tra quegli ingredienti c’è di fatto l’addio al contratto nazionale (già derogabile in base all’accordo sulle nuove relazioni sindacali, che la Cgil non ha firmato) e una rinuncia al diritto di sciopero, che la Costituzione garantisce addirittura come diritto individuale. C’è, in altre parole, tutto ciò che serve a far diventare irrilevante il sindacato, a guidarlo verso un sicuro declino, ancora una volta sul modello degli Stati Uniti, dove ormai meno del 10% dei lavoratori è iscritto a un sindacato.
Sono in molti a ritenere che questo non sia un problema, ma un obiettivo desiderabile. Ma a dire che sbagliano non è qualche sorpassata ideologia, ma la stessa storia dello sviluppo. Se si allunga lo sguardo a tutta la prospettiva dello sviluppo economico non si può non ammettere che è cresciuto di pari passo con il miglioramento delle condizioni dei lavoratori. E piuttosto che avanzare il dilemma dell’uovo e della gallina bisognerebbe chiedersi se l’allargamento del benessere sociale non sia un qualcosa che è appunto necessario al buon funzionamento dell’economia, se un maggiore equilibrio nella distribuzione del reddito non sia una condizione che permette una crescita equilibrata, magari con meno accelerazioni, ma anche senza crisi drammatiche come quella degli anni ’30 e come quella tuttora in atto.
Fino agli anni ’70 del secolo scorso il "mega-trend" è stato di una maggiore diffusione del benessere, dagli anni ’80 è invece iniziata una tendenza alla polarizzazione che con la globalizzazione si è accentuata, perché non è la prima volta, e non sarà l’ultima, che viene posta l’alternativa su cui si deve decidere a Pomigliano. Ma dagli anni ’80 le crisi - non solo finanziarie - si sono succedute a ritmo sempre più accelerato, fino a questa che ha coinvolto tutto il mondo. Per ognuna di queste crisi, presa singolarmente, si possono trovare spiegazioni specifiche, ma, se appunto si allunga lo sguardo, non è insensato chiedersi se non ci sia alla base uno stesso problema di fondo.
Secondo la "teoria del caos" un qualsiasi avvenimento, per quanto apparentemente insignificante, può provocare una serie di reazioni concatenate che possono sfociare in eventi di livello planetario. Non c’è bisogno che per il caso Pomigliano si paventi qualcosa del genere. Ma di certo può essere un altro passo che magari fa bene all’impresa nel breve periodo, ma male all’economia nel lungo termine.
Pomigliano, la Fiom non firma
La Cgil: rischio violazione legge
E la Fiat convocati i sindacati *
NAPOLI La Fiom ribadisce il suo no ad uno stravolgimento delle leggi e del contratto nazionale, ma lancia una proposta alla Fiat per salvare lo stabilimento di Pomigliano e gli investimenti promossi dal Lingotto sul sito campano. Con l’utilizzo dei 18 turni e delle flessibilità necessarie è possibile, rilancia il segretario generale dei metalmeccanici della Cgil, Maurizio Landini, «garantire una produzione annua superiore alle 280 mila Panda» indicate come obiettivo dall’azienda, con un 18mo turno strutturale, e senza lo straordinario.
È questa la proposta che arriva dalla Fiom al termine del Comitato centrale, convocato dalle tute blu per dare una risposta alla Fiat in vista della nuova convocazione dei sindacati per domani. Un tavolo a cui la Fiom non è stata chiamata ma che vedrà comunque un suo osservatore al tavolo.
«Se la Fiat sceglie di applicare in tal modo il Ccnl e le leggi, la Fiom ne prende atto senza alcuna opposizione, disponibili ovviamente a una applicazione anche delle parti più rigorose e severe» chiarisce il "parlamentino" della Fiom nel documento finale approvato all’unanimità. «Non accedere a questa soluzione renderebbe evidente che per la Fiat l’obiettivo non è nè quello della produzione nè quello della flessibilità o compatibilità produttiva, ma come evidenziato dalle dichiarazioni dei ministri Sacconi e Tremonti l’obiettivo diventerebbe quello di voler affermare il superamento del contratto e dello Statuto dei lavoratori».
Una strada che per la Fiom resta impercorribile, nonostante le pressioni, arrivate da più parti, non ultima da quella della confederazione. Oggi la neo segreteria della Cgil ha infatti affrontato il nodo Pomigliano, ribadendo la posizione già espressa dal segretario generale, Guglielmo Epifani: per la Cgil «il lavoro e l’occupazione» restano la priorità da seguire anche se non si può nascondere il rischio che «la proposta di accordo possa violare leggi e Costituzione». Per la Cgil, comunque, «tocca alla categoria dei metalmeccanici promuovere la discussione, innanzitutto coinvolgendo gli iscritti»: una questione, questa del referendum, respinta dalla Fiom: «è impossibile sottoporre al voto» accordi che violano i contratti e la Costituzione, ripete infatti Landini.
«Dire di no a un investimento di 700 milioni è cecità enorme. Anche se la Fiom poco fa ha detto di non accettare la proposta della Fiat, mi auguro sia una ennesima provocazione e una normale tattica di negoziazione. Ma credo non ci sia più spazio di negoziazione» commenta la presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia mentre un nuovo appello alla Cgil arriva dal ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi. «Faccio appello ai vertici della Cgil affinchè una valutazione più generale induca la stessa categoria ad accettare, pur con le riserve manifestate, un’intesa utile a salvaguardare il futuro di Pomigliano e della Fiat in Italia» dice il Ministro che si rivolge però anche all’azienda affinchè «voglia considerare il clima di larga condivisione che si è già prodotto in azienda e nell’intero Paese sull’ipotesi di accordo».
Un giudizio positivo sulla posizione espressa dalla Cgil arriva infine dalla Cisl: «Sono molto soddisfatto del fatto che ritroviamo l’unità sindacale su uno dei punti salienti per la vita del Paese» afferma il segretario generale, Raffaele Bonanni. Per la Uil, dice il segretario Luigi Angeletti Pomigliano è lo «spartiacque nel sistema delle relazioni sindacali, destinato, qualunque sia l’epilogo, ad un cambiamento definitivo. L’era dell’antagonismo - sostiene - è finita».
* la Stampa, 14/06/2010
Sul tema, e sulla questione generale, si cfr.:
LA CUCINA BERLUSCONIANA E LE RANE IN PENTOLA
LA TEOLOGIA POLITICA DELLA "SOVRANITA’ PRIVATA" DELL’IMPRENDITORE E LA COSTITUZIONE.
Pomigliano, respinto il ricorso della Fiat. Landini: "E’ la buona notizia di Ferragosto" *
Roma - (Adnkronos) - Il Lingotto puntava alla sospensione della sentenza dello scorso 21 giugno, chiedendo il rinvio fino al termine dell’appello dell’obbligo di assunzione di 145 lavoratori della Fiom. L’azienda: ’’Solo una decisione tecnica: il 9 ottobre la decisione nel merito’’
Roma, 13 ago. - (Adnkronos) - Il Tribunale di Roma ha respinto come "non ammissibile" il ricorso della Fiat che chiedeva la sospensione dell’esecutività dell’obbligo di assumere 145 lavoratori Fiom nello stabilimento di Pomigliano come previsto dalla sentenza del 21 giugno scorso che aveva condannato il Lingotto per discriminazione.
Il Lingotto, spiegano dalla Fiom, aveva infatti richiesto, in un ricorso presentato in aggiunta a quello contro la sentenza, la "non immediata esecutività dei provvedimenti" chiedendo che fossero rinviati alla sentenza di appello. Ma il tribunale, al termine di due udienze, ha bocciato la richiesta. "E’ una buona notizia di Ferragosto", ha commentato il leader Fiom, Maurizio Landini.
Si tratta di una ’’decisione semplicemente tecnica’’, commenta il Lingotto, sottolineando che nel merito la sentenza di appello resta in programma per il 9 ottobre prossimo. La Corte ha ritenuto, dice l’azienda, che, ’’in assenza di atti concreti da parte della Fiom, volti ad ottenere l’esecuzione della pronuncia del Tribunale di Roma, non vi fosse alcuna necessità di un provvedimento che ne sospendesse l’efficacia’’. L’appuntamento è a ottobre, insiste Fiat, quando "la Corte di Roma deciderà sull’inusitata pronuncia con cui il Tribunale di Roma ha imposto alla Società di assumere 145 operai solo perche’ iscritti alla Fiom".
* ADNKRONOS, ultimo aggiornamento: 13 agosto 2012, ore 18:24
Il lavoro spogliato dei diritti
Liberare le imprese dagli impegni presi e dai contratti nazionali firmati con i sindacati non significa innovare
Non si può uscire da una crisi globale rompendo il patto con i lavoratori
di Furio Colombo (il Fatto, 12.09.2010)
“Se non c’è la fabbrica non ci sono i diritti” è la frase più ripetuta del momento. Vuol dire: “Lasciate fare all’impresa, che sa cosa è bene e che cosa è male”. Ecco dunque la frase che molti, anche nel Pd (un partito che dovrebbe essere “del lavoro” più di tutti gli altri rappresentanti in Parlamento) considerano “innovazione”. È “innovazione” perché libera l’impresa dalla “rigidità” (altra parola in voga per dire il nemico dell’innovazione) e dal dovere di mantenere impegni presi, con contratti debitamente firmati da tutti, verso i lavoratori. A proposito, avete mai notato che l’opinione pubblica e politica non viene mai coinvolta in un dibattito sulle imprese (come vanno, dove vanno), ma sempre, solo sul lavoro e gli operai come unica ragione di conflitto, crisi, delocalizzazione, chiusura?
Le regole buttate al macero
LA STORIA del mondo industriale democratico non ci dà nessuna notizia di aziende affondate a causa del costo del lavoro. Ma la proposta adesso è “innovazione” perché non solo vuole tagliare liberamente i costi. Intende cancellare ogni patto precedentemente stipulato tra impresa e lavoro. Ora, dopo una violentissima crisi economica che ha scosso, con la furia di un ciclone, un’Europa senza economisti e senza idee e un’Italia senza governo, la proposta è di uscire da una crisi grande come il ‘29 (parola di esperti) facendo esattamente l’opposto dell’America del New Deal.
Che cosa vuol dire New Deal? Vuol dire nuovo patto. Vuol dire futuro, fiducia (non fiducia astratta, ma fiducia gli uni negli altri) e comunità (siamo insieme, o tutti o nessuno, il Paese sono le sue fabbriche e ogni fabbrica è il Paese, Costituzione, leggi, regole concordate). Che cosa accade adesso in Italia? Non solo non ci sarà un New Deal, ma non ci sarà niente. Anzi, facciamo una cosa. Per evitare equivoci, cancelliamo ogni patto che c’era prima. Via i contratti nazionali. Via le regole discusse e negoziate da una parte e dall’altra, a volte per anni e con confronti anche duri, ma - ovviamente - con l’intento umano e civile di proteggere la parte più debole, che non può ogni volta presentarsi in fabbrica con una batteria di avvocati.
Così inizia il monologo delle aziende
IL NUOVO SLOGAN è “basta con la lotta di classe”. Nel caso della fabbrica, “fine della lotta di classe” (che per fortuna non c’era; c’erano, come dicono i codici, parti e controparti, con molti interessi diversi e uno grande in comune: il lavoro) vuol dire che una parte tace e l’altra è libera di iniziare il grande monologo. Vanno bene 10 minuti per la pausa mensa? Va bene andare in bagno due volte invece di tre? Va bene fare straordinari la notte e il sabato senza retribuzione? Va bene fare o non fare, o interrompere le ferie, sempre a titolo di donazione del prestatore d’opera alla fabbrica? Non devi rispondere. Se lo fai, disturbi la produzione e potresti essere accusato di sabotaggio. La pena è il licenziamento. E se il giudice - restato indietro con le leggi ancora non abrogate della Repubblica - ti reintegra nel posto di lavoro, questo fastidioso dettaglio alla controparte che conduce il monologo non interessa. La controparte è avanti, è nel futuro, è con l’innovazione, confortata dal fatto che anche la ex sinistra chiama innovazione la cancellazione dei diritti. Dunque, giudice o non giudice, vi possiamo buttare la busta paga sulla porta, ma dovete restare fuori.
La nuova versione di “O la borsa o la vita”
PER BUONA MISURA interviene, nell’umiliante caso di Melfi (tutta la Fiat contro tre operai) il settimanale Panorama (9 settembre 2010) con la più spregevole copertina mai apparsa nel giornalismo italiano. La forza di un periodico da milioni di copie viene gettata contro tre operai da 1.000 euro al mese (quando non sono - e lo sono spessissimo - in cassa integrazione), messi alla gogna in copertina con la loro fotografia e il titolo Gli eroi bugiardi; l’accusa (sempre in copertina) di sabotaggio, dunque di un reato, che dà dello stupido (e anche del comunista) al giudice che li ha reintegrati nel loro posto di lavoro. È una nobile iniziativa che assicura a quegli operai che non saranno mai più accettati in alcun posto di lavoro in Italia. Ma tutto trova la sua giustificazione nel nuovo motto da issare sui cancelli: “Se non c’è la fabbrica, non ci sono i diritti”. La prima reazione, che avrebbe dovuto dare una scossa a tanti silenzi ed evitare qualche lode fuori posto, è che la frase corrisponde in modo quasi letterale al celebre grido dei vecchi racconti polizieschi: “O la borsa o la vita”. Il messaggio è chiaro: o cedi o finisci sulla copertina di Panorama.
Ma c’è l’altro aspetto inquietante. La frase resta intatta se formulata a ovescio: “La fabbrica c’è se non ci sono i diritti”. D’ora in poi la fabbrica è extraterritoriale. Si fa secondo le regole che vigono nel territorio in cui vuoi essere accettato perché un po’ ti pagano. Se non ti va bene, ti accompagnano subito alla frontiera. Ora ditemi se tutto un mondo di persone, che un tempo chiamavamo lavoratori, deve rassegnarsi a vivere senza un sindacato (l’immagine della Fiom è peggiore di quella di Vallanzasca), senza un partito (vedi la cauta distanza del Pd dalla questione), con la sola opzione di obbedire. E il rischio di un linciaggio pubblico nello sciagurato caso di una protesta.
Tutta colpa degli operai
Marchionne insiste: se la fabbrica non cambia come dico io la Fiat non investe. E per Tremonti cambiamento è: meno sicurezza sul lavoro
di Furio Colombo (il Fatto, 27.08.2010)
Daniele Capezzone, portavoce del Pdl, deve avere visto le immagini televisive dei tre operai Fiat, Barozzino, Lamorte, Pignatelli che fanno passare le ore sul piazzale assolato e vuoto della fabbrica proibita, ci ha pensato, e ha detto: “C’è da augurarsi che la politica italiana non lasci solo il capo del Lingotto”. Evidentemente Capezzone era scosso dalla risposta immediata e chiara del capo dello Stato sul reclamo di dignità dei tre operai che non possono rientrare in fabbrica nonostante una sentenza. Era turbato dalla ferma solidarietà dei vescovi, che non dovrebbero immischiarsi in beghe sindacali. Certo, un po’ lo avranno consolato le parole di Emma Marcegaglia che, con Cesare Geronzi al suo fianco (dunque il meglio del meglio dell’Italia) ha detto ai fervidi ragazzi di Comunione e Liberazione di Rimini: “Oggi bastano due persone per fermare un’intera produzione. Serve un cambiamento forte o sarà il declino”. Gli autori del declino erano sempre là, a Melfi, con le magliette blu dell’uniforme. Tre uomini spinti fuori, sotto il sole, per otto ore al giorno. La preghiera di Capezzone però non è restata inascoltata. Si è fatta avanti Mariastella Gelmini e ha detto “Marchionne è il più bravo di tutti”.
Probabile che Marchionne comparirà, vita e opere, nelle tracce dei temi di maturità del prossimo anno. Dopo un po’ di esitazione si è fatta avanti la sinistra. Prima Chiamparino che, da sindaco di Torino e da candidato del centrodestra del Pd - fa il tifo per Marchionne (strano, però; lo fa, quando la Fiat va in Serbia e lo fa mentre gli operai torinesi sono rimasti cauti, zitti e umiliati a Mirafiori). Poi Pietro Ichino, per spiegare che Napolitano, in realtà, è dalla parte di Marchionne, non dei tre operai in maglietta blu, soli sul piazzale vuoto. Sentite: “Prendere posizione sulla questione del piano Fiat è ciò che il messaggio del capo dello Stato sottolinea: rispetto degli standard dell’occidente industrializzato”. Gli risponde sullo stesso giornale, lo stesso giorno (Il Corriere della Sera, 26 agosto) il vice direttore Massimo Mucchetti: “I lavoratori tedeschi partecipano alle decisioni strategiche; negli Usa i sindacati sono entrati nel Board per tutelare le azioni ricevute”. Ma “per fortuna Marchionne c’è”.
A Rimini, fra ciellini giovani e festanti, dice queste frasi nette e incoerenti: “Accetto l’invito di Napolitano. Non si possono difendere atti di sabotaggio. La dignità non è esclusiva di tre persone”. Non sarà esclusiva, ma i tre in maglietta blu restano ad aspettare nel piazzale vuoto di Melfi. Il saggio ministro Tremonti offre loro il pensiero del giorno: “Se tutti vogliono diritti perfetti nella fabbrica ideale, si rischia che la fabbrica ideale va da un’altra parte”. Giusto. Il mondo è pieno di schiavi.
IL COMMENTO
Sergio "paladino del domani"
ma pesano le illusioni del passato
Così l’ad cerca di ricucire con il Paese
di GAD LERNER *
SAPIENTE e immaginifica, la sequenza delle diapositive che scorrono dietro alla polo nera di Sergio Marchionne sul palco riminese, ne esalta il profilo avveniristico, extraitaliano, ma non ne stempera la tensione. Orme sulla sabbia dirette verso l’ignoto quando racconta la sua emigrazione in Canada a 14 anni, e poi la catena spezzata di una palla al piede da cui non riesce ancora a liberarsi. Messaggi subliminali, niente foto di operai o di scocche alla catena di montaggio.
E’ offeso Marchionne, non solo affaticato, e vuole darlo a vedere. Descrive con brutalità inedita "il grande male della Fiat" cui approdò nel 2004, rinunciataria al confronto col resto del mondo, chiusa in se stessa, come la penisola che adesso non saprebbe rendergli il giusto merito per i risultati conseguiti. Poco gli importa se già prima di lui, a partire dal 1980, altre generazioni di manager avevano ottenuto la flessibilità del lavoro che oggi invoca, e l’abbattimento delle ore di sciopero, senza però che la Fiat ne abbia tratto vantaggio rispetto ai concorrenti. Forte del suo indubbio fascino, è come se tutto potesse ricominciare da lui, incarnazione della metamorfosi dal locale al globale, in uno sforzo titanico ma incompreso.
"Sfortunatamente ho l’impressione che in Italia non ci siano interesse o fiducia", lamenta, verso una Fiat trasformata nell’intreccio salvifico con Chrysler. Cita subito l’incidente di Melfi come episodio meschino, trascurabile, che però lo costringe a sorvolare sui veri temi sociali, la "violenza della povertà", il suo incontro a Davos con Nelson Mandela. Rivolgendosi alla platea evita di chiamare in causa il presidente Napolitano e i vescovi italiani tra i colpevoli dei "fischi" che bersagliano la Fiat.
Solo più tardi, davanti alle telecamere, scenderà sul terreno della diplomazia riconoscendo la legittimità della lettera inviata dal Quirinale ai licenziati di Melfi, e l’onestà intellettuale di Guglielmo Epifani con cui è pronto a incontrarsi. Parole importanti che lasciano aperta la via del dialogo, ma che non attenuano il suo bisogno di sfidare Giovanni Barozzino, Antonio Lamorte e Marco Pignatelli anche sul terreno dell’etica: "Non credo sia onesto usare il diritto di pochi per piegare il diritto di molti", dice fra gli applausi della folla ciellina, antisciopero per indole genetica.
E’ come se quella sua maglietta stropicciata, non così dissimile dalla blusa celeste indossata dagli operai che lo seguono in diretta dal cancello di Melfi, e la fatica evidente nel suo sguardo di eterno viaggiatore trasandato, così diverso dagli altri damerini dell’establishment nostrano, pretendessero di colmare anche il divario del suo reddito, 435 volte più elevato del loro.
Ma la verità è che la neonata Fabbrica Italia neppure dal palco di Rimini è in grado di delineare un’evoluzione migliorativa della condizione operaia. L’imprenditore aspira a salvare il comparto italiano dell’auto, e non sarebbe poco, ma gli resta precluso un intervento trasformatore del lavoro di fabbrica già tanto sacrificato.
Ricorda "la notte in cui è stata bloccata la produzione in modo illecito" come un torto intollerabile. Fu a Melfi, una notte d’aprile in cui i critici della Fiom Cgil per lo più dormivano, certo non lavoravano in turni a ciclo continuo. Ma questo rimane scontato per tutti, com’è inevitabile, Fiom Cgil compresa.
Meno scontato è il riferimento che Marchionne ha voluto fare, raccogliendone il più caldo dei consensi riminesi: "Non siamo più negli Anni Sessanta. Non è possibile gettare le basi del domani continuando a pensare che ci sia una lotta tra ’capitalE’ e ’lavoro, tra ’padroni’ e ’operai’". Musica per le orecchie del cattolicesimo conservatore italiano. Solo che Marchionne parlava di mezzo secolo fa, di un’epoca conflittuale da cui peraltro trassero benefici sia l’azienda che le sue maestranze.
Gli operai incorsero poi nella sconfitta del 1980, seguita da un trentennio senza lotta di classe. Riesce difficile considerare inedita la pur sensata proposta che Marchionne ne ha fatto derivare, mostrando la diapositiva di un albero, la Fiat, germogliato su radici tricolori: "Quello di cui ora c’è bisogno è un grande sforzo collettivo, una specie di patto sociale per condividere gli impegni, le responsabilità e i sacrifici".
Ieri ad ascoltare in prima fila l’appello alla concordia del manager italo-canadese-statunitense c’era pure Giampaolo Pansa, che nel 1988 celebrò in un libro trionfale, con Cesare Romiti, la fine della lotta di classe alla Fiat. Neppure allora mancò la promessa di un "patto sociale", stipulato sotto l’egida di Ciampi qualche anno dopo, e seguito dalle dimissioni di Bruno Trentin da segretario della Cgil. Ne scaturì un’ulteriore compressione del reddito operaio, senza peraltro riscuotere dagli industriali la contropartita degli investimenti pattuiti. Ciò non invalida la fondatezza della richiesta di Marchionne, ma spiega lo scetticismo che lo indispettisce, radicato in chi dovrebbe accoglierla.
L’amministratore delegato della Fiat ha letto un discorso onesto e chiaro, in cui non gli bastava presentarsi come l’imprenditore capace meglio di chiunque altro di fronteggiare le dinamiche della competizione spietata tra i gruppi automobilistici superstiti. Ha citato Pavese sulla fatica del viaggiare, Hegel sulla fatica della conoscenza, Machiavelli sulla fatica della virtù. Ha rivendicato la sua onestà intellettuale e il suo disinteresse per le schermaglie politiche italiane. Niente a che vedere con le malizie di un Geronzi o di un Tremonti, lui si colloca altrove.
Ma proprio questa sana ingenuità lo ha condotto a riproporre uno schema logico che in Italia ha già subito troppe smentite: "Rifiutare il cambiamento a priori significa rifiutare il futuro. Se non siamo disposti ad adeguarci al mondo che cambia, ci ritroveremo costretti a gestire solo i cocci del nostro passato". Piace sempre, al pubblico consenziente, l’idea che dare addosso agli oppositori ci nobiliti quali paladini del domani. Ma quante volte se lo sono già sentiti ripetere, i lavoratori dipendenti, dalle più diverse campane, che le rinunce odierne avrebbero generato benefici futuri, che la flessibilità concessa sarebbe stata a buon rendere, che i sacrifici sarebbero stati equamente ripartiti?
La crescita delle disuguaglianze e l’arricchimento spropositato dei manager sono rimasti tabù, nel discorso umanistico del laureato in filosofia all’università di Toronto divenuto capo-azienda. Mentre si abbattevano sul padiglione fieristico due affermazioni pesanti come macigni, scandite in quanto verità inconfutabili. La prima: "La verità è che l’unica area del mondo in cui l’insieme del sistema industriale e commerciale del Gruppo Fiat è in perdita è proprio l’Italia". La seconda: "La verità è che la Fiat è l’unica azienda disposta a investire 20 miliardi di euro in Italia, l’unica disposta a intervenire sulla debolezze di un sistema produttivo per trasformarlo in qualcosa che non abbia sempre bisogno di interventi d’emergenza".
Due volte "la verità", per ribadire un concetto ben conosciuto nella storia di questo paese: cioè la pretesa coincidenza fra gli interessi della Fiat e gli interessi della nazione. Il senno di poi ci raccomanda di sottoporre a esame critico tale assunto. Ma i ciellini ieri a Rimini parevano credere davvero che se in Italia la Fiat ha i bilanci in rosso ciò dipende da eccessi di conflittualità sindacale e dalla prepotenza di operai "rossi" come i licenziati di Melfi. Accompagnando Marchionne all’uscita, qualcuno lo incoraggiava a guidare una riscossa ideologica sulle anacronistiche pretese della Cgil: "Sergio, siamo tutti con te!". "Siamo pronti a rifare la marcia dei quarantamila!".
Lui se ne compiace, si ferma a stringere mani, ma è troppo intelligente per cascare in questa tentazione di revival. Conosce meglio di noi i limiti attuali della gamma di modelli Fiat e le vere ragioni che determinano una grave contrazione delle sue vendite, anche in rapporto alla concorrenza. Quanto ai 20 miliardi di investimenti programmati in Italia, non dipendono certo da generosità o vocazione patriottica del Lingotto: il mercato italiano dell’auto vale tuttora il 40% sul totale del fatturato Fiat. Sarebbe irresponsabile rinunciarvi, viste le incognite che si addensano sul futuro.
Ha deciso di "passare per rude", non è certo un arringatore di folle. Marchionne legge nel suo italiano con accento yankee e sembra aver fretta di risalire sull’aereo. Un marziano a Rimini. Avrà pure la tentazione di sottrarsi al groviglio sociale del lavoro italiano, ma ormai ha capito che non gli sarà possibile.
* la Repubblica, 27 agosto 2010
Questo Marchionne pare Silvio
di Giorgio Bocca ( l’espressoonline, 22 luglio 2010)
L’idea che il potere, in un’impresa come in uno Stato, debba avere mano libera sui dipendenti e sui cittadini è di quelle dure a morire. Il manager della Fiat Marchionne in questo è simile al capo del governo Berlusconi, entrambi stupiti e quasi delusi che i lavoratori sottoposti non capiscano, non gradiscano il ricatto del capitalismo globale: o mangiate questa minestra o saltate dalla finestra.
Appartiene alla filosofia del potere la convinzione che la legge del più forte, nel caso del mercato globale, sia anche la più giusta. Ma è un’idea di comodo, cara a chi sta al potere, smentita dalla storia, cioè dalla lotta di classe e dal progresso produttivo e sociale: se l’automazione è arrivata nelle fabbriche rivoluzionando e migliorando il modo di produrre lo si deve anche alla lotta di classe, alle rivendicazioni operaie. Marchionne è certamente un manager intelligente come lo fu prima di lui Cesare Romiti, e magari i toni ricattatori e autoritari possono servire nel tempo breve, ma non alla creazione di una durevole crescita civile.
Non sembra il caso di ricorrere di continuo nei rapporti di lavoro alle superiori, indiscutibili esigenze del mercato globale, cioè della facoltà che il capitale scambia per un suo inalienabile diritto: trasferire la produzione dove più gli comoda. È una pretesa inaccettabile da un paese civile: non si può compiere la prima accumulazione del capitale, la prima crescita produttiva e tecnica usando le risorse umane locali e poi trasferirsi dove al capitale conviene. Soprattutto in paesi come il nostro dove la formazione di una società industriale è avvenuta anche grazie ai privilegi e alle discipline autoritarie, anche grazie ai riarmi e ai bagni di sangue delle guerre mondiali.
Come Cesare Romiti, come altri manager e imprenditori, Marchionne è convinto che la crescita economica di un paese sia la stessa cosa della sua crescita civile e che essa sia possibile solo se si rispettano le regole fondamentali che legano il lavoro al salario e che rifiutano come utopie suicide quelle sessantottesche del più salario e meno lavoro. Ma questo rispetto delle regole non può essere una prerogativa dell’imprenditore razionale da imporre ai dipendenti immaturi che preferiscono la partita della Nazionale di calcio al lavoro, non può essere la richiesta di rinunciare nel nome della produzione ai diritti conquistati con duri sacrifici.
Anche il capitale, anche il potere capitalistico inseguono utopie come quella che sia possibile e augurabile abolire la lotta di classe. Non è così, sia che i padroni siano liberali, sia che siano comunisti come la Cina, dove i grandi balzi produttivi maoisti stanno finendo secondo logica nella ripresa degli scioperi e nelle lotte per i diritti umani.
Ha detto Marchionne: "Stiamo facendo discussioni su principi e ideologie che ormai non hanno più corrispondenza nella realtà. Parliamo di storie vecchie di trenta o quarant’anni, stiamo a parlare del padrone contro il lavoratore. Sono cose che non esistono più". Davvero? Forse il Ceo della Fiat si sbaglia o si illude. I padroni esistono ancora, come i lavoratori che dai padroni dipendono. E per governarli occorre anche modestia, pazienza e sapersi mettere, come usa dire, nei loro panni.
Il dumping di Marchionne
di Luciano Gallino (la Repubblica, 22 luglio 2010)
Quattro anni fa, settembre 2006, Sergio Marchionne dichiarava prima in un discorso all’Unione Industriale di Torino, poi in un’intervista a questo giornale, che «il costo del lavoro rappresenta il 7-8 per cento» «e dunque - aggiungeva - è inutile picchiare su chi sta alla linea di montaggio pensando di risolvere i problemi». Per contro ieri annuncia che, tutto sommato, ritiene necessario picchiare proprio su chi sta alla linea. E le ragioni per farlo sembrano primariamente connesse al costo del lavoro. In questo caso i destinatari diretti del messaggio non sono i lavoratori di Pomigliano, ma quelli di Mirafiori, visto che un nuovo modello di auto che doveva venir prodotto nello stabilimento torinese sarà invece prodotto in Serbia. Una decisione che, se non è un de profundis per Mirafiori, poco ci manca.
In verità l’ad Fiat ha usato parole un po’ diverse. Ha detto che in Italia i sindacati mancano di serietà. L’azienda non può assumere rischi non necessari per realizzare i suoi progetti nel nostro paese. Fiat deve essere in grado di produrre macchine senza incorrere in interruzioni dell’attività. Qualche minuto in rete basta però per venire a sapere che il salario medio dei lavoratori serbi del settore auto si aggira sui 400 euro al mese. Ed è improbabile che tale costo sia accresciuto da consistenti contributi destinati al servizio sanitario e alla pensione, come avviene da noi grazie alle conquiste sociali di due generazioni fa.
Andare in Serbia, piuttosto che restare a Mirafiori, significa quindi giocare il destino di nostri lavoratori la cui prestazione assicurava finora un livello di vita decente a sé stessi ed alla famiglia, anche per il futuro, contro lavoratori di un paese che a quel livello di vita e a quel futuro avrebbero pure loro diritto, ma per il momento se li possono soltanto sognare.
Se questa sorta di grande balzo all’indietro è ciò che Marchionne intende per modernizzazione delle relazioni industriali in Italia, vengono un paio di dubbi. Non diversamente dal 2006, il costo del lavoro in un’industria altamente automatizzata come l’auto rappresenta il 7-8 per cento del costo complessivo di fabbricazione.
Portando la produzione da Mirafiori a Kragijevac, dove il costo del lavoro è meno della metà, la Fiat può quindi pensare di risparmiare al massimo tre o quattro punti sul costo totale. Ma se intende affrontare tutti i problemi sociali, sindacali e politici che dalla sua decisione deriverebbero per conseguire un risparmio così limitato, ciò significa che le sue previsioni di espansione produttiva, di vendite e di bilancio sono assai meno rosee di quelle che lo stesso amministratore delegato ha dato a intendere nei mesi scorsi.
E questo dubbio ne alimenta un altro: che il vero obbiettivo non sia la riduzione del costo del lavoro, sebbene questo appaia evidente, bensì la realizzazione di una fabbrica dove regnano ordine, disciplina, acquiescenza assoluta agli ordini dei capi. Dove, in altre parole, il sindacato non solo assume vesti moderne, ma semplicemente non esiste, o non fiata. Magari ci verrà detto ancora una volta che questo è un obbiettivo che la globalizzazione impone. Può essere, anche se le pretese di quest’ultima cominciano ad apparire esagerate. Quel che è certo è che si tratta di un preoccupante indicatore politico.
Fabbrica Italia guarda al passato
Sorvegliare e punire chi dissente
Licenziamenti e sanzioni contro i lavoratori, Marchionne alza la tensione sociale e il livello dello scontro mentre prepara la divisione tra Fiat Auto e il resto del gruppo. Ci sono sorprese in arrivo?
di Rinaldo Gianola *
L’impiegato Capozzi di Mirafiori, gli operai Barozzino, Lamorte e Pignatelli di Melfi sono le prime vittime della nuova governance della Fiat. Chi pensava che dopo il risultato favorevole, ma certo non plebiscitario, a Pomigliano d’Arco la Fiat potesse aprire una nuova stagione di confronto e collaborazione con i sindacati, tutti i sindacati, e i suoi dipendenti, deve ora riflettere sulle perplessità e le critiche che alcuni, in particolare la Fiom Cgil ma anche diversi osservatori indipendenti, avevano espresso sulle condizioni imposte dal Lingotto per avviare la produzione della Nuova Panda nello stabilimento campano. Le deroghe al contratto di lavoro e all’esercizio del diritto costituzionale allo sciopero, evidenti nel patto di Pomigliano, sono il modello che, nella visione di Sergio Marchionne, dovrà essere implementato in “Fabbrica Italia“, il progetto che con tanta enfasi, e con tante incertezze, è stato lanciato ad aprile per ribadire le radici e la presenza industriale della Fiat in Italia. Ma c’è di più.
L’invito di Marchionne alla cooperazione, all’abbraccio collettivo, le lettere grondanti retorica sul passaggio storico da affrontare insieme,azionisti, manager e lavoratori, sono aria fritta. propaganda a buon mercato, di fronte a licenziamenti punitivi, ad un’azione sistematica che punta esclusivamente al pieno controllo delle fabbriche, anche a costo di alzare la tensione sociale, di irrigidire le posizioni e di scontentare persino i sindacati che avevano firmato di buon grado il diktat di Pomigliano. L’appello paternalista di Marchionne ha un sapore stantio, è roba vecchia, evoca le lettere di alcuni suoi predecessori quando scrivevano alle mogli dei dipendenti della Magneti Marelli implorando comprensione e solidarietà davanti ai prezzi insostenibili pagati dai mariti-operai. “Fabbrica Italia” può raggiungere i suoi ambiziosi obiettivi di produttività ed efficienza se i vertici dell’azienda considerano i lavoratori non solo un fattore di produzione da comprimere e spremere, ma come un soggetto responsabile, portatore di diritti e che merita dignità e rispetto.
Attorno alla Fiat, invece, tira un’aria brutta. Il licenziamento di Capozzi, delegato della Fiom e aderente al pd, perchè ha usato la mail aziendale per diffondere un volantino sindacale, richiama una lontana stagione quando gli operai iscritti alla Cgil o che portavano in tasca l’Unita venivano spediti nei reparti confino, all’Officina Sussidiaria Ricambi soprannominata Officina Stella Rossa dai lavoratori colpiti. Fa tornare alla mente i brutti momenti dello spionaggio e delle schedature dei dipendenti Fiat. E le sanzioni contro i tre operai di Melfi, perchè hanno bloccato un carrello robotizzato durante una protesta contro gli eccessivi carichi di lavoro, sono un segnale allarmante: anche nella fabbrica-modello, anche nel “prato verde” lucano dove la Fiat si era illusa di superare il conflitto capitale-lavoro, anche qui Marchionne ha bisogno delle punizioni per esercitare e affermare il suo comando.
È così, con questi sistemi, che la Fiat vuole realizzare “Fabbrica Italia”? Oppure Marchionne sta alzando volontariamente la tensione, il livello dello scontro perchè il suo progetto non regge se non c’è l’adesione totale di sindacati e lavoratori, se non viene importato e applicato il “modello polacco”, se non trionfa il suo pensiero unico? O, ancora, c’è qualche cosa di nuovo e sconosciuto che bolle in pentola a Torino dove la prossima settimana sarà varata la divisione tra la Fiat Auto e tutto il resto del gruppo? Ci saranno ricadute industriali e occupazionali finora non previste e non comunicate?
Qualche sospetto emerge, soprattutto dopo che ieri la Fiat ha fatto il muso duro non solo con la Fiom, ma anche con i sindacati buoni che avevano accettato senza obiezioni l’”accordo” di Pomigliano. La Fiat ha negato il premio di risultato che dovrebbe essere pagato a fine luglio, e oggi scatterà lo sciopero di Fim, Uilm e Fismic. Agli azionisti Marchionne ha concesso il dividendo per ripagarli dei loro “sacrifici”, per i lavoratori non è rimasto niente, devono solo accettare le condizioni di “Fabbrica Italia” e stare zitti.
In questa situazione fa una certa impressione leggere sui giornali confindustriali ritratti di Marchionne, al limite dell’agiografia, che certo non fanno bene al giornalismo, in lotta contro bavagli di varia natura. Domenica scorsa sul Corriere della Sera l’amministratore delegato della Fiat veniva così descritto: «È inarrivabile. E proprio questo è il suo problema...Marchionne lavora anche 20 ore al giorno. dorme pochissimo, mangia quando capita, fuma almeno due pacchetti di sigarette al giorno e nonostante questo ha un’energia e una capacità di concentrazione che lascia ancora basiti i suoi collaboratori». È vero, c’è proprio da restare basiti
* l’Unità, 15.07.2010
IL COMMENTO
I confini del Lingotto
di LUCIANO GALLINO
A POMIGLIANO prevale il sì all’accordo con la Fiat. Non stravince, come la sua direzione avrebbe gradito. Dobbiamo però augurarci che la Fiat non prenda pretesto dal risultato inferiore alle attese per mandare a monte l’accordo, oppure per imporlo senza modificarne una virgola. Non soltanto nell’interesse dei lavoratori, ma anche della Fiat, e del paese, per le conseguenze sociali e politiche che ciò potrebbe avere. Vediamo perché.
In Italia la Fiat produce 650.000 vetture l’anno con 22.000 dipendenti. In Polonia ne produce 600.000 con 6.100 operai. In Brasile le vetture prodotte sono 730.000 e i dipendenti soltanto 9.400. Inoltre il costo del lavoro in quei due paesi, contributi sociali inclusi, è molto più basso. È vero che in Italia si costruisce un certo numero di vetture di classe più alta che non in Polonia o in Brasile. Pur con questa correzione il rapporto auto prodotte/dipendenti resta nettamente sfavorevole agli stabilimenti Fiat in Italia.
Ne segue che su due punti non vi possono essere dubbi. Le aspre condizioni di lavoro che Fiat intende introdurre a Pomigliano, dopo averle sperimentate con successo all’estero, sono la premessa per introdurle prima o poi in tutti gli stabilimenti italiani, da Mirafiori a Melfi, da Cassino a Termoli. Dopodiché interi settori industriali spingeranno da noi per imitare il modello Fiat. Dagli elettrodomestici al tessile e al made in Italy, sono migliaia le imprese italiane medie e piccole che possono dimostrare, dati alla mano, che in India o nelle Filippine, in Romania o in Cina le loro sussidiarie vantano una produzione pro capite di molto superiore agli impianti di casa. Che tale vantaggio sia stato acquisito con salari assai più bassi, sistemi di protezione sociale minimi o inesistenti, e orari molto più lunghi, non sembra ormai avere alcuna rilevanza. Certo non per il governo, e perfino per gran parte dei sindacati. Con l’applicazione totale del modello Fiat, le imprese si sentirebbero autorizzate a far ritornare una parte della produzione delocalizzata in Italia, alla semplice condizione che essa sia accompagnata da salari e condizioni di lavoro che si approssimano sempre più a quella dei lavoratori dei paesi emergenti.
Si tratta di vedere fino a che punto conviene alla Fiat voler passare testardamente alla storia delle relazioni industriali e della globalizzazione come l’impresa italiana che allo scopo di esportare al meglio i suoi prodotti ha dimostrato che si può apertamente importare il peggio delle condizioni di lavoro, per di più ricevendo il plauso del governo. Così facendo, infatti, la Fiat correrebbe, e farebbe correre al paese, diversi rischi. Il primo, se il suo modello tal quale prendesse piede, è quello di contribuire alla stagnazione della domanda interna, che è stata ed è uno dei maggiori fattori della recessione globale in cui il mondo si sta avvitando. D’accordo che lavoratori sfiniti dalla fatica e con i salari, al netto dell’inflazione, pressoché fermi da oltre un decennio, consumano pur sempre qualcosa in più di un disoccupato. Ma il modello Fiat farebbe tendenza, aprendo nuovi spazi di disuguaglianza di reddito tra gli strati inferiori e medi e il dieci per cento dello strato più alto della piramide sociale; i cui membri, per quanto affluenti, difficilmente compreranno quattro o cinque Panda a testa.
Un secondo rischio è quello di far crescere le tensioni sociali. Se il governo alzasse mai lo sguardo dai sondaggi, e il management Fiat dai diagrammi della produttività e dei costi di produzione, potrebbero rendersi conto che disoccupazione, sotto-occupazione, tagli allo stato sociale e percezione di una corruzione dilagante stanno alimentando per conto loro, nel nostro paese come in altri, diffuse situazioni di insofferenza per la curva all’ingiù che la qualità della vita ha ormai palesemente imboccato, e per le iniquità di cui molti si sentono vittime. Ampliare il numero dei malcontenti moltiplicando i lavoratori che sono perentoriamente costretti a scegliere, come a Pomigliano, tra lavoro degradato e disoccupazione, o assistervi senza fare nulla, è una pessima ricetta politica. Alla quale un’impresa dovrebbe evitare di aggiungere i suoi particolari ingredienti.
Per altro il rischio maggiore che Fiat corre e fa correre a tutti noi risiede nel dare una robusta mano a coloro che intendono demolire la costituzione repubblicana. La proposta ventilata di modificare come nulla fosse l’art. 41 della suprema legge, perché a qualcuno dà fastidio che la legge determini i programmi e i controlli opportuni affinché l’attività economica possa essere indirizzata a fini sociali, come in fondo si dice in tutte le costituzioni, potrebbe venir liquidata come la dabbenaggine che è; ma se il lodo Pomigliano, chiamiamolo così, si affermasse lasciando intatte le sue licenze costituzionali, i nemici di quell’articolo ne trarrebbero un cospicuo vantaggio. Autorizzandoli pure a mettere in discussione, perché no, l’art. 36, secondo il quale il lavoratore ha diritto, nientemeno, a una retribuzione sufficiente in ogni caso ad assicurare a sé ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa, oltre che proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro. E magari altri articoli a seguire, in tutto il Titolo III che riguarda i rapporti economici.
Portare a Pomigliano il grosso dell’organizzazione del lavoro vigente in Polonia sarebbe già un successo per la Fiat. Sul resto, ivi compresa la percentuale dei consensi alle sue proposte, forse le converrebbe, e converrebbe al paese, non esagerare con le richieste trancianti.
* la Repubblica, 23 giugno 2010
FIAT
A Pomigliano non c’è il plebiscito
62,2% di sì, il fronte del no al 36%
Terminato lo scrutinio del referendum tra i lavoratori: i favorevoli sono la maggioranza, ma i numeri non sono quelli auspicati dal Lingotto. Affluenza al 95%. La Fiom non firmerà in ogni caso, "ma siamo pronti alla trattativa". Bonanni: "Ha vinto il buonsenso". Dall’azienda un progetto per "blindare" l’accordo. Bersani: "No al piano C". Sacconi: "Ora il Paese è più moderno" *
POMIGLIANO D’ARCO (Napoli) - Vince ma non sfonda il sì al referendum tra gli operai dello stabilimento Fiat di Pomigliano d’Arco: un voto che è servito ai lavoratori per esprimersi sull’intesa siglata lo scorso 15 giugno tra la Fiat e la sigle sindacali, eccetto la Fiom. I sindacati si dicono soddisfatti del 63% dei consensi circa conquistato dal sì mentre il ministro Sacconi afferma che adesso il paese è più moderno. Ma nella fabbrica campana della Fiat sono tutti consapevoli che a pesare nel prossimo futuro sarà anche il 36% raggiunto dal fronte del no.
Ora è tutto nelle mani della Fiat e qualcuno, come la Fiom, teme che questo risultato possa non bastare al Lingotto e che l’azienda possa giocare sulla percentuale negativa registrata nella consultazione per tirarsi indietro e negare gli investimenti, ovvero i 700 milioni per il progetto nuova Panda a Pomigliano. Poco dopo i primi scrutini, che in verità sembravano profilare una vittoria del sì con oltre il 76%, il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi aveva esortato la Fiat a riconoscere che "vi sono tutte le condizioni per realizzare il promesso investimento in un contesto di pace sociale". Il segretario del Pd, Pierluigi Bersani, aveva ammonito il Lingotto: "Mi aspetto che se c’è un sì, la Fiat manderà avanti senza meno il suo progetto", aveva detto facendo riferimento al paventato "piano C". "Perché se i lavoratori dicono sì", aveva aggiunto, "è un sì a quel che dice la Fiat".
C’è poi l’altro fronte dei sindacati con la Fim e la Uilm in primo luogo, che se da un lato si dicono soddisfatte del successo ottenuto, dall’altro chiedono alla Fiat di ratificare presto l’accordo e, quindi, di tener fede agli impegni. Saranno quindi giorni altrettanto decisivi quelli che seguiranno al referendum di ieri. Il sindacato più critico all’accordo, la Fiom, anche stanotte ha ribadito il suo no all’intesa, ma secondo quanto sottolineato dal segretario della federazione napoletana, Massimo Brancato, "se la Fiat apre una trattativa e si predispone ad una mediazione che rispetti la costituzione, le leggi dello stato e il contratto, ci sediamo a un tavolo e siamo disponibili a fare un negoziato".
E a chiedere di riaprire le trattative, quando il risultato già sembrava offrire ai contrari all’accordo un risultato per così dire affatto deludente, arriva anche la vice segretaria nazionale della Cgil, Susanna Camusso: "la partecipazione al voto era prevedibile come la prevalenza del sì - spiega la sindacalista - Chiediamo a Fiat di avviare l’investimento e la produzione della nuova Panda a Pomigliano e di riaprire la trattativa per una trattativa condivisa da tutti". E se il leader della Cisl, Raffaele Bonanni, subito dopo l’esito del voto sottolinea che in questo referendum "ha vinto il lavoro e il buon senso", il segretario della Uil Campania, Giovanni Sgambati mette in evidenza come "una percentuale così elevata di partecipazione non si era mai registrata in un referendum sulla flessiblità nel settore metalmeccanico". Un buon risultato, avvertono, anche se stasera, all’uscita della fabbrica alcuni lavoratori dello stabilimento, con in mano solo le primissime proiezioni hanno comunque già avvertito: "anche se vince il sì la lotta per i nostri diritti continua".
* la Repubblica, 23 giugno 2010
FIAT
Pomigliano, Fiom "Così non possiamo firmare"
Il 25 giugno sciopero generale metalmeccanici
A Roma il Comitato centrale. Una nota della segreteria Cgil: "Rischio che l’accordo possa violare leggi e Costituzione’’. Marcegaglia: "Riflettano e cambino idea". L’Idv: "Operai ricattati, non sono schiavi" *
ROMA - Per la Fiom è impossibile firmare l’accordo proposto dalla Fiat su Pomigliano d’Arco se la proposta non cambia. Lo ha affermato il segretario generale dei metalmeccanici Cgil Maurizio Landini, al termine del comitato centrale. "Se la Fiat - ha detto Landini - vuole mantenere la posizione del documento presentato l’altro giorno, il comitato centrale all’unanimità non considera possibile che quel testo venga firmato". Landini ha anche annunciato che i metalmeccanici della Fiom Cgil sciopereranno il 25 giugno, giorno dello sciopero generale già indetto dalla Cgil. "Se la Fiat dovesse proseguire sulla propria strada confermando l’ipotesi di accordo presentata ai sindacati con le deroghe al contratto nazionale, la Fiom indirà 8 ore di sciopero per il settore metalmeccanico il 25 giugno", ha detto il segretario. Per i metalmeccanici si tratterebbe, dunque, di altre 4 ore di sciopero a sostegno della vertenza sullo stabilimento di Pomigliano.
Profili di illegittimità. In merito all’accordo, la Fiom ritiene impossibile firmarlo perché "contiene profili di illegittimità", ha detto Landini che, su una convocazione del referendum, aggiunge che per la Fiom "è impossibile sottoporre al voto" accordi che violano i contratti e la Costituzione.
Per raggiungere obiettivi basterebbe applicare il Contratto nazionale. Per raggiungere gli obiettivi del piano di rilancio di Pomigliano d’Arco alla Fiat basterebbe applicare il Contratto nazionale, senza deroghe alla legge. È questa la posizione del Comitato centrale della Fiom-Cgil, che propone al lingotto di "applicare il Contratto di lavoro, perché questo permette all’azienda di produrre le 280mila auto all’anno e le 1.045 al giorno che sono gli obiettivi del piano che Marchionne vuole fare". Se l’azienda applicherà semplicemente il Contratto nazionale, ha detto Landini, "la Fiom non metterà in campo nessuna opposizione". La Fiom, che chiede anche "di applicare le norme in materia di malattia e assenteismo" aggiunge: "Non comprendiamo il fatto che Fiat per fare investimenti voglia cancellare i contratti e le leggi del nostro Paese. In ogni caso - annuncia il segretario della Fiom - noi domani saremo al tavolo delle trattative anche se alla Fiom è arrivato solo un invito per conoscenza. Ci presenteremo al tavolo perché su queste basi è possibile un’intesa".
Lavoro e occupazione primo punto di responsabilità. Per la Cgil "il lavoro e l’occupazione sono il primo punto di responsabilità" per un giudizio sul futuro di Pomigliano. Lo afferma la segreteria dell’organizzazione, che dice "sì alla difesa dell’occupazione e alla necessità di rendere pienamente produttivo il futuro investimento". La Cgil sottolinea tuttavia il rischio che "la proposta di accordo possa violare leggi e Costituzione". Per la Cgil, comunque, "tocca alla categoria dei metalmeccanici promuovere la discussione, innanzitutto coinvolgendo gli iscritti".
Il ’no’ di Fiom. ’’Il comitato delle Rsu della Fiom e gli iscritti al sindacato propendono per il no all’accordo con la Fiat su Pomigliano’’, aveva spiegato già stamattina il segretario provinciale della Fiom-Cgil, Andrea Amendola, al termine di un attivo con le rappresentanze sindacali, gli iscritti ed i simpatizzanti dello stabilimento Fiat di Pomigliano d’Arco (Napoli). ’’Abbiamo delineato le cose da fare - ha detto Amendola - e adesso mi recherò a Roma per il comitato centrale per portare anche la posizione dei lavoratori iscritti al sindacato, che propendono per un no all’accordo con l’azienda. Naturalmente sarà poi il comitato centrale a prendere la decisione finale’’.
Amendola ha annunciato che nei prossimi giorni il sindacato intraprenderà una serie di iniziative ’’per far conoscere a tutti i lavoratori ed ai cittadini anche dei Comuni limitrofi le richieste avanzate dalla Fiat’’. I lavoratori attendono la decisione finale per poter conoscere il proprio futuro occupazionale, temendo per la chiusura dello stabilimento che, molti ricordano, è stato aperto nel ’72 come Alfasud, e poi venduto alla Fiat nella seconda metà degli anni Ottanta.
Fini: "I diritti non si toccano". Il presidente della Camera, Gianfranco Fini, rivolge, a modo suo, un appello alla Cgil e alla Fiom affinché firmino l’accordo con la Fiat sullo stabilimento di Pomigliano d’Arco. Da Benevento la terza carica dello Stato ha riassunto la posizione dell’amministratore delegato Sergio Marchionne e ha aggiunto: "se fosse stato detto ’rinunciate ai propri diritti’, io avrei detto no. I diritti acquisiti - ha aggiunto Fini - non si toccano. Ma non è stato così". Fini ha poi proseguito affermando: "riecheggia quell’appello alla concordia tra capitale e lavoro che fa parte del pensiero politico del secolo scorso, della dottrina sociale della chiesta e delle dottrine politiche di un pensiero nazionale". Fini ha infatti ricordato che lo stabilimento alle porte di Napoli rappresenta "una delle pagine del mondo del lavoro e del mondo sindacale" che sarebbe messa a rischio da un no del sindacato di Epifani.
L’appello di Marcegaglia. La presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, durante l’assemblea annuale di Assolombarda, ha lanciato un appello alla Fiom. ’’Auspico che la Fiom rifletta e cambi idea su Pomigliano D’Arco’’, ha detto. ’’Come si fa a bloccare un investimento di 700 milioni di euro per tutelare gli assenteisti, bisogna guardare avanti e non far finta di non vedere, bisogna guardare al futuro di 5 mila lavoratori più altri 10 mila dell’indotto’’.
’’Nessuno vuole cancellare i diritti dei lavoratori - ha proseguito la presidente di Confindustria - ma dobbiamo lavorare come parti sociali per aprire un tavolo sulla produttività e sui contrasti per poter pagare meglio anche i nostri dipendenti’’. Una necessità che giunge proprio in un momento in cui ’’dopo tanti anni durante i quali non si è mai trovata la forza di cambiare sostanzialmente le regole per aumentare la competitività e ora siamo con le spalle al muro’’. Nel caso di Pomigliano d’Arco, poi, Marcegaglia ha sottolineato come ’’per la prima volta avviene qualcosa in controtendenza e una grande azienda come la Fiat è disposta a spostare produzioni dalla Polonia per portarle in Italia; per questo auspichiamo che la Fiom rifletta per non bloccare un investimento da 700 milioni di Euro per tutelare falsi malati e assenteisti. Bisogna guardare avanti - ha proseguito - e non far finta di non vedere quello che succede, non è accettabile che si dica no e che ci si nasconda senza guardare al futuro di 5 mila lavoratori dell’impianto e di 10 mila lavoratori dell’indotto’’.
Angeletti (Uil): "L’accordo uno spartiacque". ’’L’accordo di Pomigliano costituisce una vicenda spartiacque nel sistema delle relazioni sindacali, destinato, qualunque sia l’epilogo, ad un cambiamento definitivo. L’era dell’antagonismo è finita’’. E’ quanto si legge in una nota del segretario della Uil, Luigi Angeletti, secondo il quale ’’questo accordo dimostra che, in Italia e in Europa, può ancora vivere un forte apparato industriale: senza un sistema di relazioni sindacali antagoniste, la globalizzazione potrà non esser più sinonimo di deindustrializzazione’’.
D’Antoni (Pd): "Una buona intesa". ’’L’intesa su Pomigliano D’Arco siglata dal Lingotto con la grande maggioranza del mondo del lavoro va salutata con ottimismo e soddisfazione. La riduzione della presenza Fiat in Italia, e in particolare nelle aree deboli rappresenta un rischio da scongiurare ad ogni costo’’. Lo afferma Sergio D’Antoni, deputato Pd e vicepresidente della commissione Finanze della Camera. ’’Salvare Pomigliano significa pertanto non solo salvare una realtà industriale indispensabile al Mezzogiorno, ma dare una prospettiva a tutto il paese. Questa consapevolezza rappresenta un esempio per chi, come la Fiom, si attarda ancora su posizioni estremiste e inconcludenti, non comprendendo che le proprie azioni forniscono un alibi formidabile a chi, nel governo, non aspetta altro per giustificare la propria azione antisociale e antisindacale’’.
L’Idv: "Un ricatto". Sulla vicenda l’Italia dei Valori ha diffuso una dura nota. ’’I lavoratori della Fiat di Pomigliano sono sottoposti a un vero e proprio ricatto: o accettano di ridurre tutti i loro diritti, peggiorando le loro condizioni di libertà fino a non poter esercitare un diritto costituzionale quale lo sciopero oppure vengono licenziati. Subiscono una prepotenza inaccettabile da parte della Fiat. Il tutto si svolge con la totale e criminogena assenza del governo. Non è accettabile che gli operai vengano trasformati in schiavi’’.
* la Repubblica, 14 giugno 2010
«Si rispettino le regole, l’Italia non è il Burundi»
Un’associazione privata come il sindacato non può convalidare atti costituzionalmente illegittimi dei datori di lavoro come l’art. 14 dell’intesa
-di Luigi Mariucci, Diritto del lavoro a Ca’ Foscari (l’Unità, 15.06.2010)
Il documento Fiat su Pomigliano assomiglia, per usare un eufemismo, più a una dichiarazione unilaterale che a una proposta contrattuale. Il testo contiene molte rilevanti modifiche della condizione di lavoro e del sistema di relazioni contrattuali. Sul primo piano basti vedere le misure previste in tema di orario di lavoro: 24 ore di produzione continua, 18 turni settimanali, compreso il sabato notte, lavoro straordinario direttamente esigibile dall’azienda, deroghe al regime delle pause. Colpiscono, in particolare, clausole siffatte: «Le soluzioni ergonomiche (...) permettono sulle linee a trazione meccanizzata con scocche in movimento continuo, un regime di tre pause per 10 minuti ciascuna (...) che sostituiscono le attuali due pause di 20 minuti». E lo chiamano postfordismo! Vi sono poi norme c.d. anti-assenteismo che prevedono la mancata retribuzione dei giorni di malattia se le assenze superano una certa media, colpendo, per così dire, nel mucchio. Infine è prevista una «clausola di responsabilità» molto pesante a carico dei sindacati, in caso di comportamenti difformi dalle regole sopra definite, in termini di sanzioni riferite ai contributi e ai permessi sindacali.
Dicono che questo diktat, anzi, si perdoni il lapsus, questo accordo è necessario per assicurare la prospettiva produttiva di Pomigliano e che questo è reso necessario dalla competizione globalizzata. E sia. Fin qui si può fare, nella consapevolezza che tutto ciò comporta duri sacrifici e costrizioni per i lavoratori e una assunzione molto forte di responsabilità per i sindacati. Purché di questo non si faccia la bandiera di un «nuovo sol dell’avvenire», come predica l’attuale ed ex-socialista ministro del lavoro in carica. Ciò che non si può fare è invece pretendere di modificare, con un c.d. contratto collettivo, addirittura la Costituzione. Ciò è quanto si verifica, in particolare, nel punto 14 del testo, che merita di essere citato per intero: «Le clausole indicate integrano la regolamentazione dei contratti individuali di lavoro al cui interno sono da considerarsi correlate ed inscindibili, sicché la violazione da parte del singolo lavoratore di una di esse costituisce infrazione disciplinare di cui (...) agli articoli contrattuali relativi ai provvedimenti disciplinari conservativi e ai licenziamenti(...)».
Questa clausola è due volte illegittima: perché qualifica arbitrariamente come parte normativa del contratto impegni di parte obbligatoria, riferite ai sindacati stipulanti; e perché pretende addirittura di trasformare in illecito, passibile di licenziamento, l’esercizio del diritto individuale di sciopero, sancito dalla Costituzione. La firma già apposta da qualche sindacato a questa clausola non è semplicemente invalida: è inefficace, inesistente, tamquant non esset, dicevano gli antichi. Una associazione privata, qual è il sindacato, non può infatti convalidare atti costituzionalmente illegittimi dei datori di lavoro. Non si modifica per contratto la costituzione: questo è l’abc dell’alfabeto costituzionale. Forse questo si può fare in Cina, negli Usa o nel Burundi, ma non in Italia. Perciò a mio giudizio la Fiom-Cgil farebbe bene a siglare con riserva quel testo, con una assunzione straordinaria di responsabilità, limitando gli effetti giuridici della sua firma alle parti del testo riferite a materie di competenza contrattuale e dichiarandone l’ovvia irrilevanza per le parti relative a discipline inderogabili di legge.
OCCUPAZIONE
Fiat: firmato accordo separato, Fiom resta sul ’no’
Il monito di Schifani : "No ai veti su Pomigliano"
Fim, Uilm, Fismic e Ugl hanno firmato il nuovo documento presentato dal Lingotto. Referendum il 22 giugno. Tremonti: "È rivincita dei riformisti". Il presidente del Senato commenta la difficile trattativa sul futuro dello stabilimento napoletano *
ROMA - Accordo separato sullo stabilimento Fiat di Pomigliano d’Arco. Fim, Uilm, Fismic e Ugl hanno firmato il nuovo documento, integrato, presentato dal Lingotto. La Fiom ha confermato il suo no. I sindacati dei metalmeccanici firmatari dell’accordo hanno promosso un referendum tra i lavoratori che si terrà il prossimo martedì 22 giugno. La Fiat ha sottoposto ai sindacati dei metalmeccanici un nuovo documento in cui viene aggiunto il 16mo punto relativo alla istituzione di una commissione paritetica di raffreddamento sulle sanzioni, come era stato richiesto dalle organizzazioni che venerdì scorso avevano già dato un primo ok.
’’L’accordo di oggi non sblocca gli investimenti’’ pari a 700 milioni di euro circa della Fiat per lo stabilimento di Pomigliano ’’che sono legati all’esito del referendum tra i lavoratori’’. Lo ha detto il segretario generale della Uilm, Rocco Palombella, al termine dell’incontro che si è concluso con un accordo separato. ’’La Fiat ci ha detto - ha spiegato - che bloccherà gli investimenti quando la stragrande maggioranza dei lavoratori dirà sì all’intesa’’. I lavoratori ’’devono capire - ha sottolineato - che la posta in gioco è molto alta’’.
Rivincita dei riformisti. "È la rivincita dei riformisti su tutti gli altri". Così il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, ha commentato la firma dell’accordo.
Brunetta: "Inaccettabile riferimento di Fiom a Costituzione". Il riferimento alla Costituzione da parte della Fiom è ’’inaccettabile’’ e rappresenta ’’un uso improprio’’ della Carta fondamentale. È quanto sostiene il ministro della Pubblica Amministrazione, Renato Brunetta, parlando della posizione del sindacato dei metalmeccanici sull’accordo con Fiat per lo stabilimento di Pomigliano. Brunetta, nel corso del suo intervento a un convegno organizzato dalla fondazione Magna Carta, commentando le argomentazioni della Fiom, ha affermato: ’’Mi sembra si faccia un uso improprio della Costituzione, tutti hanno i loro diritti però questo mi pare eccessivo’’.
"Pomigliano è un banco di prova per tutti. Non può e non deve prevalere la logica dei veti incrociati. Non è più il tempo del no o della fuga. Per salvare l’occupazione e la dignità del lavoro serve uno sforzo comune ed un sano realismo. Pomigliano non deve chiudere". Lo afferma il presidente del Senato Renato Schifani nel suo intervento presso la sala capitolare del palazzo della Minerva, in occasione del rapporto Cisf 2009 su ’Il costo dei figli’. Parole dirette alla Fiom, unico sindacato ad non essere d’accordo con l’intesa proposta della Fiat.
Schifani poi ha parlato della crisi e della manovra economica varata dal governo. Definendola "un passaggio necessario ed urgente". "Non inganniamoci e non inganniamo: serve contenere per tempo e stabilmente la spesa pubblica. Il tempo delle cicale è finito" afferma il presidente del Senato, Renato. Che invita "maggioranza ed opposizione al confronto vero, perchè serve il contributo di tutti per preservare la coesione sociale e nazionale".
E anche il presidente della Camera, Gianfranco Fini, nel corso del suo intervento alla presentazione della relazione annuale dell’Antitrust, ha puntato il dito contro alcuni "nodi strutturali che se non risolti possono spingere il Paese lungo una fase di pericoloso declino. Serve quindi un efficace strategia di crescita che affiancata a quella della stabilità possa garantire alla comunità nazionale il pieno recupero di competitività sulla scena internazionale". Una strategia di crescita che passa anche per l’intervemto pubblico. "Questo non significa partecipazioni statali, ma capacita’ di verificare i comportamenti dei privati e la loro riconducibilita’ a regole necessarie per garantire correttezza e trasparenza’’ dice Fini.
Schifani, inoltre, ha assicurato che le due Camere taglieranno i loro costi: "Spese superflue e privilegi sono oggi un’arroganza insopportabile. Il Senato e la Camera daranno segnali chiari ed inequivocabili di sobrietà ed equità".
* la Repubblica, 15 giugno 2010