[...] Ho notato con mio sommo rammarico che a sinistra la narrazione dell’immigrazione è spesso speculare a quello dei giornali della Lega e del centrodestra. C’è poca riflessione su questi temi. Certo c’è la Carta di Roma, Il Protocollo deontologico concernente richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e migranti, ma quanti la applicano? Un’altra narrazione dell’immigrazione è non solo possibile, ma necessaria per una sinistra che si proclama europea e democratica [...]
Le parole sono importanti
di Igiaba Scego (l’Unità, 9 marzo 2011)
Il vocabolario Treccani Online alla voce assalto riporta: 1. Azione di attacco violento e per lo più armato contro persone o luoghi, come episodio di un combattimento o come atto di aggressione (a scopo di rapina, di uccisione, di ferimento, ecc.). Assalto è una parola che crea sgomento. Una parola che spinge chi ascolta a difendersi con tutte le armi a disposizione.
Ed è questa parola che campeggia sulla copertina dell’ultimo numero dell’ Espresso: Assalto all’Europa. Questa copertina mi ha sconcertato non poco. Sembrava l’annuncio di una guerra.
Ricordava da vicino le parole tuonanti che si lanciavano i giornalisti da un capo all’altro dell’Europa durante l’ultimo conflitto mondiale. Ma qui non si tratta di nazisti o alleati, qui si parla di migranti anzi per essere più corretti di possibili richiedenti asilo che scappano dai bombardamenti di Gheddafi o dalla fame creata dall’attuale nulla istituzionale tunisino. La copertina mi ha sconcertato perché non veniva dalla Padania o da Libero, ma da una rivista di area progressista.
Ahimè devo dire che nei giornali e nelle riviste vicine alla sinistra parole come assalto, orda, clandestini, invasione sono all’ordine del giorno.
Ho notato con mio sommo rammarico che a sinistra la narrazione dell’immigrazione è spesso speculare a quello dei giornali della Lega e del centrodestra. C’è poca riflessione su questi temi.
Certo c’è la Carta di Roma, Il Protocollo deontologico concernente richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e migranti, ma quanti la applicano? Un’altra narrazione dell’immigrazione è non solo possibile, ma necessaria per una sinistra che si proclama europea e democratica.
Un’altra narrazione potrebbe cambiare il paese in meglio e sarebbe premiata in fase elettorale. Su questi titoli si gioca il futuro del paese. Ne siamo consapevoli o no?
Sul tema, nel sito, si cfr.:
«Clandestini invasori»
Quando le stesse parole diventano razzismo
Il linguaggio usato dai media per raccontare l’esodo dei migranti trasuda di stereotipi.
La prospettiva della narrazione è sempre dalla parte del paese d’arrivo. Mai di partenza
di Iglaba Sciego (l’Unità, 10.04.2011)
Emergenza, orda, valanga, invasione, assalto, paura. Queste alcune delle parole usate nei media questi giorni per descrivere la situazione nell’isola siciliana di Lampedusa. Tutta la vicenda è stata raccontata sempre da una sola prospettiva quella del paese di arrivo. Ho notato infatti che nella narrazione è sempre assente la voce dei migranti o dei media non ufficiali.
Il discorso mediatico è sempre diretto da un “Noi” che racconta un “Loro”. Il “Loro” è considerato dal “Noi” un problema da eliminare ad ogni costo. Conosciamo questo “Loro” attraverso immagini sempre uguali a se stesse: li vediamo sui barconi, in fila sotto lo sguardo vigile di un poliziotto con la mascherina (mascherina che ci rimanda a possibili malattie) o mentre manifestano per un tozzo di pane e un po’ di acqua. Siamo abituati ormai ai primi piani stretti che deformano questi volti stanchi e frustrati. I migranti sono equiparati nei servizi Tv ad animali: puzzano, ringhiano, si agitano. I giovani tunisini si trasformano davanti a nostri occhi in non persone. Non hanno un nome, una età o un sentimento.
Questa disumanizzazione che parte dalle immagini culmina nell’uso della parola “clandestino”. Questa parola disumanizza, non ci fa tener conto delle mille storie individuali, della situazione di partenza da cui il migrante arriva. Cancella tutto e ci fa venire il dubbio che questo qualcuno che arriva forse è un delinquente. Il clandestino è un non essere, non ha emozioni, non ha voce, non pensa e in definitiva anche se respira non vive. È diverso dal “Noi” e deve essere relegato dove non può fare danni. La figura del clandestino ricorda molto da vicino la categoria degli atavici di Lombrosiana memoria, ossia quelle persone che il determinismo scientifico (e razzista) del XIX secolo considerava assassini nati.
I media inoltre hanno creato ad arte la distinzione tra migranti buoni e migranti cattivi, da una parte queste non persone, i clandestini e dall’altra i poveri cristi dei rifugiati che scappano dalle guerre. Purtroppo molta sinistra è caduta nella trappola di questa cattiva pratica ideata dal centrodestra e quasi tutti, in buona fede, hanno cominciato a dividere i buoni dai cattivi, i clandestini dai rifugiati. Certi i somali, gli eritrei, gli etiopi sono profughi, provengono da un Corno D’Africa infiammato dai conflitti e hanno davvero bisogno di aiuto.
Ma anche i tunisini hanno davvero bisogno d’aiuto. Dobbiamo ricordare che il Nord Africa sta vivendo un momento molto delicato della sua storia e che le dittature che hanno esasperato queste popolazioni sono state appoggiate (e rimpinguate) dall’Occidente intero. Non è un caso che Bettino Craxi sia sepolto proprio in Tunisia. Ben Alì ha purtroppo potuto soffocare la sua gente per anni anche con il nostro aiuto. Servirebbe un piano Marshall per creare lavoro in Tunisia dare una spinta al turismo e trovare una soluzione comune. Questo fermerebbe la fuga dei giovani. Ma nessuno per ora ci sta pensando. Ma queste colpe “europee” (e italiane in particolare) non sono illuminate a sufficienza dai media né tantomeno dalla politica. Non creano opinione. Non portano a provvedimenti.
Inoltre, a mio parere, i media non hanno messo in luce nemmeno il parallelismo che c’è tra i giovani tunisini e i giovani italiani. Mi è capitato di pensarci rileggendo giorni fa Vivo Altrove di Claudia Cucchiarato, giovane giornalista italiana residente in Spagna Claudia ha raccolto le storie di alcuni tra le decine di migliaia di giovani che negli ultimi anni hanno deciso di abbandonare l’Italia. Giovani stanchi del precariato, stanchi di non trovare lavoro, stanchi di non vedersi valorizzati. Noretta, Angela, Marco, Roberto, Claudia Cucchiarato stessa hanno trovato altrove la loro vita e ora sono felici di aver riacchiappato il proprio futuro all’estero.
Ora questo succede se si ha un passaporto europeo o del cosiddetto primo mondo. Se disgraziatamente non si hanno questi requisiti le cose vanno diversamente. Mi sono chiesta in questi giorni quale sia la differenza tra un Marco, cittadino italiano, e un Ahmed, cittadino tunisino, per esempio. Entrambi hanno 20 anni, entrambi hanno sudato sui libri, entrambi amano il rap e Eminem. Perché per alcuni, la gente di Marco, il diritto al viaggio è un diritto acquisito che non si discute e per altri questo diritto non è contemplato? Perché Marco può prendere un aereo, viaggiare pulito e tranquillo, mentre Ahmed deve prendere un barcone fatiscente e rischiare la vita? Hanno la stessa età, gli stessi sogni, la stessa voglia di futuro. Purtroppo hanno geografie diverse.
Dobbiamo a sinistra riflettere anche su questo... perché qui si decide che paese vogliamo costruire nel futuro, se uno basato sui diritti umani o uno basato sui privilegi per pochi noti.
Ambulanti all’italiana
di Igiaba Scego (l’Unità, 30 marzo 2011)
Negli anni ’90 esisteva una parola che odiavo (lo stesso odio che riservo oggi alla parola clandestino). La parola in questione era “vu cumprà”, il termine, altamente dispregiativo, indicava i venditori ambulanti di origine straniera. Gli ambulanti venivano anche designati con il termine generico “marocchino”, anche se molti di loro erano di origine senegalese.
Forse questa storia è nota ai più di voi, ma mi chiedo quanti di voi sanno che in Europa oltre a esportare cervelli gli italiani esportano anche ambulanti? Durante il boom dell’emigrazione anni ’50 molti italiani hanno cercato di sbarcare il lunario vendendo di tutto. Ma credevo che questo non succedesse più agli italiani di oggi, invece a Manchester e in generale nel Nord dell’Inghilterra ci sono molti italiani che girano per le strade a vendere orologi. Questo me l’hanno raccontato membri della comunità somala inglese.
Infatti sono i somali i più ricercati dagli ambulanti italiani, soprattutto se il somalo ha più di 50 anni. Gli italiani sanno che il somalo è il pollo... ops.... il cliente perfetto a cui rifilare orologi. Sanno che i somali della diaspora over50 sanno tutti parlare italiano, sanno che i somali provano una strana “nostalgia” per o sole e o mare nonostante l’Italia non li abbia accolti e non gli abbia dato uno stato da ex paese colonizzato con i privilegi del caso (privilegi dovuti dopo anni di distruzione e apartheid inflitti).
Il somalo si illumina a sentire la lingua di Dante e si ferma sempre. In molti ti dicono «Ci fermiamo anche perché ci fanno pena questi italiani. Poveretti costretti all’emigrazione come noi che viviamo una guerra civile e con quel Berlusconi che li rende tutti poveri».
L’Italia sarà salvata da due milioni d’immigrati
di Vladimiro Polchi (la Repubblica, 11 marzo 2011)
L’Italia ha bisogno di nuovi immigrati? Certo: «Nel periodo 2011-2015 il fabbisogno medio annuo dovrebbe essere pari a circa 100mila, mentre nel periodo 2016-2020 dovrebbe portarsi a 260mila». Tradotto: nei prossimi dieci anni avremo bisogno di "importare" un milione e 800mila lavoratori. A metterlo nero su bianco non è un sindacato, né un’associazione di categoria, bensì il ministero del Lavoro, diretto da Maurizio Sacconi.
E così mentre dal Viminale si lancia l’allarme contro «l’esodo biblico» pronto a scatenarsi dalle coste del Nord Africa, i tecnici incaricati dal ministero del Welfare lavorano concretamente alle «previsioni del fabbisogno di manodopera». In un dettagliato rapporto del 23 febbraio scorso, la Direzione generale dell’immigrazione ragiona, infatti, sul numero di lavoratori stranieri necessari a reggere il "sistema Italia". La stima è cauta e si basa su diverse variabili.
«Il fabbisogno di manodopera è legato contemporaneamente alla domanda e all’offerta di lavoro - si legge nel Rapporto "L’immigrazione per lavoro in Italia" - dal lato dell’offerta si prevede tra il 2010 e il 2020 una diminuzione della popolazione in età attiva (occupati più disoccupati) tra il 5,5% e il 7,9%: dai 24 milioni e 970mila del 2010 si scenderebbe a un valore compreso tra i 23 milioni e 593mila e i 23 milioni circa nel 2020. Dal lato della domanda, gli occupati crescerebbero in 10 anni a un tasso compreso tra lo 0,2% e lo 0,9%, arrivando nel 2020 a quota 23 milioni e 257mila nel primo caso e a 24 milioni e 902mila nel secondo». Ciò detto, qual è il numero di immigrati di cui l’Italia avrà bisogno? «Nel periodo 2011-2015 il fabbisogno medio annuo dovrebbe essere pari a circa 100mila, mentre nel periodo 2016-2020 dovrebbe portarsi a circa 260mila». Insomma da qui a dieci anni il nostro Paese dovrà aprirsi a poco meno di due milioni di lavoratori stranieri.
«Questi dati smascherano la demagogia di chi continua a ripetere che gli immigrati sono una minaccia - commenta Andrea Olivero, presidente nazionale Acli - senza di loro il Paese imploderebbe e accoglierli civilmente non è solo atto umanitario, ma intelligente strategia per il futuro. Per questo è giusto chiedere che cambi la politica dei flussi, andando al più presto a prendere atto di chi già oggi lavora utilmente nel Paese e ancorando le cifre dei nuovi permessi alle reali necessità. Ci fa piacere che il ministero del Lavoro guardi ai dati con realismo, perché soltanto in questo modo sarà possibile avviare finalmente quel governo del fenomeno immigrazione che è mancato in questi anni, dominati da un’ottusa logica di mero contenimento, che peraltro è fallita. Nessuno, la Lega si metta il cuore in pace, può fermare un flusso che ha ragioni così forti sia nei Paesi di provenienza, sia nel nostro, come ci dicono i dati. Perciò l’integrazione è la scelta insieme più civile e più realistica».