Editoriale

La politica come sfida culturale: del superamento delle logiche del mercato

sabato 15 ottobre 2011.
 

Settembre, caldo. Settembre caldo. E’ il 28 del 2011, a salvarne il ricordo. Dentro il palazzo l’ennesimo teatro. La Camera vota la sfiducia al ministro Saverio Romano, indagato per associazione mafiosa, con richiesta di rinvio a processo. Su Internet va la diretta web. I deputati della maggioranza s’appellano alle "guarantigie costituzionali", si dichiarano vittime di persecuzione nel mirino di magistrati, stampa, opposizioni e movimenti; tutti a giudizio. Ora i pm sono dei parlamentari: leghisti e pidiellini trasformano il caso di Romano nella guerra dell’antipolitica alle istituzioni.

Non c’è più limite alla menzogna. Forse non c’è mai stato. Il ministro Gelmini ha fatto passare la sua riforma scolastica come indispensabile. Col pretesto del merito, della verifica dei docenti e degli sprechi, ha tagliato migliaia di posti di lavoro. In un attimo, fregandosene del livello e delle sorti dell’istruzione pubblica.

Nel pomeriggio del 28 settembre 2011, in piazza Montecitorio non più di venti persone, tra cui il sottoscritto, tentano una catena umana per la pulizia nelle istituzioni. Da troppi mesi, Camera e Senato decidono su richieste d’arresto di loro membri, piuttosto che sulle urgenze del Paese.

Stavolta, l’iniziativa, legata alla vicenda del ministro Romano, vuole superare le logiche della contrapposizione e le semplificazioni: sinistra contro destra, piazza contro palazzo, antipolitica contro politica. Tra di noi, non tutti comprendono che bisogna seguire una linea, la quale non può favorire il clamore mediatico, vuoto per definizione. Se usi un linguaggio d’attacco e costruisci l’avversario, poi addebbitandogli lo sfacelo, ottieni plausi e visibilità. Ma questo non giova affatto alla causa comune: non risponde alla disoccupazione, alla precarietà, alla compressione dei diritti, all’ingiustizia, allo scadimento dell’istruzione pubblica, alla condizione d’agonia di ricerca e Stato sociale.

L’Italia sta morendo con le sue bellezze e ricchezze. Il trionfo dell’ignoranza, la repressione sistematica, la sfiducia dilagante, la mancanza di lavoro e di spazi politici rendono sempre più difficile la vita e scoraggiano l’impegno.

In piazza, mi intervista una giornalista di Rainews24. Spiego ragioni e obiettivi della nostra presenza, riassunti in un manifesto programmatico, ma mi leva presto la parola. Infatti, non demonizzo qualcuno e non faccio gossip politico. Mi chiede se sopravvive ancora il Popolo viola, le rispondo che non appartengo a quel movimento; fra i promotori con altri che cito. Quindi, aggiungo che siamo sotto la Camera per pretendere, uniti, il rispetto delle regole. Il che prescinde da appartenenze e dialettiche politiche. Non c’è ciccia per il suo collegamento in diretta: niente scontri, invettive, corpi contundenti. Sicché la collega punta sull’esiguo numero dei partecipanti: vuole svelare il presunto mistero dei Viola, se si sono divisi e, all’occorrenza, con chi stanno.

I deputati della maggioranza salvano la poltrona di Romano, ma questo non urta la stampa: è un risultato come tanti, l’industria dello scandalo ha vinto ancora.

Sempre a Roma, la sera ci ritroviamo, e meno del pomeriggio, in piazza Santi Apostoli. Dovremmo parlare d’un percorso per la legalità, da intraprendere con le forze politiche e sociali. Due ragazzi in gamba, Adriana Stazio e Ivan Pipicelli, sono arrivati da Avellino. Stendono uno striscione che richiama l’eredità di Paolo Borsellino.

A Palermo, il 19 luglio scorso, per la memoria della strage di via D’Amelio eravamo una sessantina, nonostante le testimonianze, l’esempio e gli sforzi di Salvatore Borsellino, fratello del giudice Paolo.

Con noi, in piazza Santi Apostoli a Roma, il senatore del Pd Beppe Lumia, membro della commissione parlamentare Antimafia. C’è Orfeo Notaristefano, scrittore di denuncia e giornalista serio. Ci sono giovani dell’Italia dei Valori. Solo Antonio Di Pietro, fra tutti i segretari di partito invitati con lettera personale, ha appoggiato l’iniziativa. Muti i sindaci coinvolti. Serenetta Monti e Beatrice Andolina, delle Agende rosse, parlano della trattativa fra Stato e mafia. Tutti gli interventi - molto coraggiosi, vista la piazza vuota - mi suggeriscono delle riflessioni, che di seguito cerco di articolare.

Le tv del presidente del Consiglio indottrinano l’ultima generazione e offrono a chiunque svago, compagnia e desideri. Troppi giornali producono ideologie, si alimentano della finzione e dell’apparenza vendute per Internet. Spesso usano titoli da blog, che orientano in partenza il lettore. Lavorano per un fronte. Fanno opinione, formano pensieri, istinti collettivi.

Si chiama «mercato» questo «fronte»: stampa e cultura reggono, in Italia, finché impacchettano verità al ribasso. Con un euro e spiccioli o al prezzo d’un libro, ci illudiamo di conoscere i fatti e di sapere come muoverci.

I media, Chomsky insegna, sono molto convincenti. Da un lato c’è il nemico, il cui nome è Berlusconi. Dall’altro esiste il bene, che ha un’identità ideale e cangiante: una volta si chiama «società civile», poi «movimentismo», «popolo», «lista civica» et coetera. Nel grande giuoco delle parti, scompare la responsabilità individuale, sostituita dalla posizione in battaglia. Tre gli schieramenti consueti: pro Berlusconi, contro Berlusconi e nemici della «Casta».

Lo schema esclude qualsiasi altra visione della realtà. Chi ha un orizzonte politico aperto può scrivere le sue memorie e affidare al vento analisi e profezie.

Non si tratta d’una rinuncia: credo che la politica, sia nei partiti che fuori, sta perdendo forza e credibilità. Non solo per la Questione morale, ridotta a carichi pendenti e casellario giudiziale.

La politica è fatta di prospettive e speranze. Gli operai della Fiat di Termini Imerese o i lavoratori di Irisbus vivono ogni giorno il dramma della disoccupazione. Sanno che il mercato globale, lo stesso per cui opera certa informazione, non li vuole.

La vita è subordinata al principio del profitto, che annulla l’umanità degli individui. Le lobby decidono che cosa produrre e con quali risorse. I mezzi dello spettacolo mediatico realizzano l’inganno. Le loro luci, immagini, modelli, distrazioni e falsità servono a persuaderci che il Pil deve crescere e che il futuro dipende dalla competitività delle aziende.

In tv appaiono sempre i sostenitori di questo dogma. Non importa se sono obbligati a difendere le scelte del potere, al cui sistema appartengono per un qualche baratto. Di favori, consensi o piaceri della carne. Questa categoria di complici ha imparato toni e argomenti fuorvianti: urla, aggressioni verbali, accuse personali.

Berlusconi controlla una grossa fetta dell’editoria, l’altra è in mano a De Benedetti e analoghi. L’elemento comune è l’interesse in politica. In genere non ci sono filantropi, nella giungla del capitalismo.

I metalmeccanici, i precari, gli studenti, i disabili e gli scaricati dalle istituzioni non possono occuparsi della rivoluzione. Non hanno fondi e forse nemmeno le giuste chiavi interpretative.

Due questioni italiane mi paiono connesse:

1) la disgregazione, emersa con chiarezza nelle ultime manifestazioni di piazza;

2) l’oscuramento - da parte dei media - e la criminalizzazione - soprattutto in rete - di chi si sforza di unire le varie voci e anime della società, per risolvere i problemi più impellenti.

Meditare in profondità sui due punti non è, a mio avviso, tempo perduto. Atteso che ogni forza sociale deve:

1) indicare il proprio orizzonte politico, di là dal teatro mediatico degli scontri;

2) promuovere il coraggio, l’intelligenza, la volontà;

3) sostituire il valore dell’apparenza con la cultura della partecipazione critica, dell’integrazione delle differenze e la cultura del progetto comune.

Carmine Gazzanni


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