Addio al generale Giap
Muore la leggenda del Vietnam, che creò l’esercito di liberazione del suo Paese
Vo Nguyen aveva 102 anni ed era alto solo un metro e mezzo. Eppure fu un grande: riuscì prima a scrollarsi di dosso l’occupazione coloniale francese e poi a costringere alla fuga gli americani
di Gabriel Bertinetto (l’Unità, 05.10.2013)
AVEVA CON SÉ 33 COMPAGNI VO NGUYEN GIAP IN QUEL GIORNO DI DICEMBRE DEL 1944, IN CUI NEL CUORE DELLA JUNGLA GIURÒ SOLENNEMENTE DI COMBATTERE FINO ALLA MORTE PER SOTTRARRE LA PATRIA AL DOMINIO STRANIERO. Di quel drappello di fieri nazionalisti, armati di inesauribile entusiasmo, due pistole, diciassette mitra e una mitragliatrice, Giap era il capo. A lui il leader del Partito comunista indocinese Ho Chi Minh aveva affidato il compito di costruire dal nulla l’esercito di liberazione del Vietnam.
Giap è morto ieri all’età di 102 anni in un ospedale di Hanoi dove era ricoverato da tempo. È anche grazie alle sue straordinarie doti di stratega, se il Vietnam riuscì prima a scrollarsi di dosso l’occupazione coloniale francese e poi a costringere alla fuga gli americani che avevano tentato di tenere in vita un regime amico nel sud del Paese.
Per i connazionali Giap è una leggenda, tanto che per consacrarne il mito nel 2012 gli è stato dedicato un museo, come si fa di solito con gli eroi scomparsi. Di fatto Giap era fuori gioco da molto tempo. Abilissimo a vincere i nemici sul campo di battaglia, non è stato altrettanto bravo o fortunato a scontrarsi con i rivali nell’arena politica. La sua progressiva emarginazione inizia, per così dire, quello stesso 30 aprile 1975, in cui l’ultimo elicottero si alza in cielo dal recinto dell’ambasciata Usa a Saigon, stracarico di americani e vietnamiti anticomunisti in fuga. Da quel momento in poi Giap come guida militare e dirigente di partito diventa ingombrante. Alla causa della riunificazione e della ricostruzione una venerabile icona serve molto di più che un individuo che non nasconde le riserve critiche verso l’operato dei compagni di partito.
A poco a poco gli incarichi ufficiali perdono di peso. Nel 1976 gli tolgono il comando delle forze armate. Quattro anni dopo decade da ministro della Difesa. Nel 1982 esce dal Politburò. Compare alle manifestazioni pubbliche per le grandi feste nazionali, ma i suoi discorsi vengono censurati. Durante un dibattito del Comitato centrale gli strappano il microfono di mano per tappargli la bocca. Nel 1996 viene estromesso dal Comitato centrale e perde la carica di viceministro dell’Economia. Ma è troppo popolare e troppo noto a livello internazionale per essere eliminato del tutto dalla scena. Anche perché Giap resta un convinto sostenitore del sistema, pur schierandosi dalla parte di coloro che vorrebbero spingere sul tasto delle riforme. L’ultima presa di posizione anticonformista nel 2009 ha per bersaglio progetti di sviluppo ecologicamente disastrosi riguardanti lo sfruttamento dei giacimenti di bauxite.
Era altro un metro e mezzo. Chi l’ha conosciuto da vicino lo descrive come «un vulcano nascosto sotto una coltre di neve». L’espressione vietnamita è molto più concisa: Nui Lua. Freddo e arrogante in superficie, ma dotato di una formidabile energia, capace di paurose esplosioni di collera. Mostrava attitudine al comando già ai tempi della scuola e dell’insegnamento in un liceo di Hanoi.
Lo chiamavano «Napoleone», non a caso, perché del generale corso era un grande ammiratore. Come combattente della causa anti-imperialista, Giap non poteva apprezzarne il disegno politico di conquista. Ma ne aveva studiato attentamente le tecniche di conduzione bellica, soprattutto il ricorso frequente all’«effetto sorpresa». Ed è ispirandosi a quel criterio d’azione che Giap gestì le due cruciali campagne del 1954 contro i francesi e del 1975 contro gli americani. Nel primo caso resistette alle pressioni dei cinesi (allora alleati) per attaccare a Dien Bien Phu già nel gennaio, ritirò le truppe e mosse al contrattacco solo quando fu sicuro che i francesi erano certi di avere sgominato il nemico. Nel 1975 finse di colpire a Danang dove erano asserragliati i sudvietnamiti e puntò invece dritto su Saigon.
Figlio di contadini, brillante negli studi. Aveva quindici anni nel 1926 quando gli capitò fra le mani l’opuscolo di un illustre connazionale, dal titolo ambiziosamente problematico: «Colonialismo alla prova». E come raccontò più volte in seguito, il suo destino fu da quel momento segnato. Quel connazionale si chiamava Ho Chi Minh che in seguito nel 1937 lo convinse a iscriversi al partito comunista. Con lui nel 1940 passò in Cina in cerca di aiuti per organizzare la rivoluzione in patria.
Quando tornò in Vietnam cercò invano la moglie sposata nel 1939, dalla quale gli era nata una bambina. Seppe solo molti anni dopo che la polizia francese l’aveva arrestata e rinchiusa nel carcere che con macabra ironia veniva chiamato Hanoi Hilton. Ancora non si sa se morì sotto tortura o suicida.
Il Napoleone vietnamita nemico n° 1 di Francia e Usa
Il generale Giap muore a 102 anni
In sodalizio con Ho chi min combattè i giapponesi, cacciò i francesi, sconfisse gli americani
L’intero Paese è in lutto
di Stefano Citati (il Fatto, 05.10.2013)
Ha ricacciato gli invasori giapponesi, francesi, americani, divenendo un simbolo vivente del Vietnam, quasi immortale. Incarnò il destino di una “rivoluzione permanente” contro gli aggressori non solo occidentali. Ma a 102 anni, il leggendario generale Vo Nguyen Giap si è arreso: il “Napoleone rosso” - come lo definì la rivista Time - si è spento nel Vietnam che lui contribuì a riunificare. Era l’ultimo erede della vecchia guardia rivoluzionaria, lo stratega militare che sconfisse i colonizzatori francesi a Dien Bien Phu, secondo solo al padre della patria Ho Chi Minh (lo ‘zio Ho’) nel cuore dei vietnamiti.
Giap è morto ieri sera nell’ospedale militare dove era ricoverato da 4 anni, indebolendosi progressivamente. La notizia, ancor prima di essere annunciata ufficialmente dal Partito comunista di Hanoi, ha fatto il giro dei social network - divenuta nel frattempo una nuova “Tigre asiatica”, aperta agli investimenti stranieri e meta alternativa alla Cina - anche in Vietnam, dando il via a un fiume di commenti di cordoglio.
AGITATORE anti-francese già durante gli studi di giurisprudenza e poi come insegnante di storia (con una passione per Robespierre), Giap incontrò Ho Chi Minh in Cina nel 1940: fu l’inizio di un sodalizio durato tre decenni.
Sebbene privo di formazione militare formale (“Mi sono diplomato all’accademia della giungla”), Giap fu incaricato dal leader rivoluzionario di guidare la resistenza agli invasori giapponesi durante la II guerra mondiale. Con la fine del conflitto e il ritorno dei francesi, gli scalcagnati ma determinati guerriglieri Vietminh iniziarono a logorare ai fianchi le truppe di Parigi. La progressiva escalation culminò nel 1954 con l’assedio di Dien Bien Phu.
I francesi lo consideravano un fortino inespugnabile e il perno da dove schiacciare la guerriglia. Ma Giap, meticoloso e irruente genio della logistica soprannominato “vulcano coperto di neve”, lo assediò per 56 giorni, facendo capitolare i colonialisti, che lasciarono il Paese da lì a breve.
Con un Vietnam diviso in due dagli Accordi di Ginevra, e l’arrivo degli americani a sostegno del Sud, Giap guidò l’esercito del Nord per tutto il conflitto contro il gigante Usa, che sapeva di non poter vincere in modo convenzionale. “Volevamo rompere la volontà del governo di Washington di continuare la guerra”, dichiarò poi.
Ci riuscì, fiaccando un nemico dall’enorme superiorità militare con una guerriglia tenace e trovate logistiche come il “sentiero di Ho Chi Minh” tra Laos e Cambogia per i rifornimenti verso il Sud. L’offensiva del Tet, scatenata dalle truppe nord-vietnamite e guerriglieri Vietcong alla fine di gennaio del 1968, fu l’ultimo momento di gloria sul campo.
Ma dopo la scomparsa di ‘zio Ho’ nel ’69, anche per l’incompatibilità col successore Le Duan, Giap fu gradualmente emarginato dai vertici militari e poi politici: uscendo definitivamente nel 1982 dal Politburo di un regime sempre più mummificato nel socialismo reale. La sua aura non fu compromessa: ritiratosi nella lussuosa residenza di Hanoi, dove riceveva leader mondiali, rimase un simbolo di memoria storica e ispirazione morale di un Paese uscito a pezzi da decenni di conflitti, con prese di posizione anticonformiste che lo resero ancora più caro alla popolazione.
Quando incontrai il piccolo uomo senza pantofole
di Ettore Mo (Corriere della Sera, 05.10.2013)
Quando lo incontrai la prima e unica volta nel febbraio del 1998 il generale Vo Nguyên Giap stava per compiere 87 anni: non avrei mai pensato allora, benché fosse in ottima forma, che avrebbe raggiunto la seconda decade del Duemila. Uomo odiato e venerato, resta comunque uno dei massimi protagonisti e dei miti della storia del Vietnam.
Devo a Milena Gabanelli, che era riuscita a instaurare un rapporto privilegiato con la moglie del comandante - Bich Ha - se, dopo tanti rifiuti, mi venne concessa un’intervista: che ebbe luogo nella sua bella casa coloniale al centro di Hanoi.
Per una volta, la mia modestissima statura non mi creava problemi, dal momento che l’eroe di Dien Bien Phu e di tante altre epiche battaglie non superava l’uno e sessanta.
Aveva trascorso parte della sua vita: nella giungla, in trincea e nelle caverne. «Non sono mai riuscita a fargli infilare le pantofole - si rammaricava la moglie -. Ma anche quando non era al fronte, dedicava il suo tempo ai problemi del Paese, politici, economici, sociali. Da giovane ha fatto anche il giornalista, ma la sua penna era un’arma micidiale».
«Sono stato rivoluzionario fin da bambino - raccontava -. Nel piccolo villaggio di An Xa, dove abitavamo, mio padre mi leggeva i poemi eroici e mia madre mi parlava delle lotte contro i francesi che il nonno aveva combattuto. Poi, a 14 anni, mi spedirono a Hué, al liceo franco-vietnamita, che era una fucina di teste calde. Finii in prigione nel ’30, ero poco più di un ragazzo». Quindi, le tragedie familiari: la prima moglie che finisce in carcere, mentre la sorella maggiore di quest’ultima viene processata e fucilata dai francesi.
Alla fine un ricordo particolarmente doloroso nell’Odissea di Giap: suo padre arrestato e condannato all’ergastolo finirà i suoi giorni dietro le sbarre. La convivenza coi francesi era ormai diventata intollerabile.
Il giovane Va Nguyên Giap era affascinato come tanti suoi coetanei dai saggi di Ho Chi Minh che aveva analizzato la struttura del sistema comunista in Europa, a Mosca, a Pechino.
«Il Vietnam ha subito molte occupazioni durante il millennio - spiegava il generale durante le lezioni di Storia, aggiornandole al presente - ma questa volta la guerra per l’indipendenza assume caratteristiche nuove, particolari, perché Ho Chi Minh è riuscito a creare un’alleanza tra nazionalismo e movimento operaio e contadino. Dal ’40 in poi questa è una guerra diretta dal popolo e per il popolo e non più dalle teste coronate e dall’aristocrazia del denaro».
Non sono pochi gli esperti militari che hanno cercato di ridimensionare la leggenda Giap, rimproverandogli gli 8 mila morti di Dien Bien Phu e i 10 mila di Khe Sanh, pur di assicurarsi la vittoria sul campo. Ma il suo nome resta indissolubilmente legato all’offensiva del Tet quando «posizionò» migliaia di uomini a Sud del 18esimo parallelo per un attacco simultaneo (riuscitissimo) su 35 grossi centri urbani. Purtroppo, dopo tanti successi militari lo sviluppo economico sociale, lamentava il generale, «è stato frenato da una burocrazia viziata e bisogna combattere la concussione e la corruzione che dilagano ovunque». Alla fine, la più grande aspirazione dell’eroe di Dien Bien Phu era quella di essere ricordato come «generale di pace».
Addio al generale Giap il genio della guerra che piegò l’Occidente
Vietnam, muore a 102 anni lo stratega di Dien Bien Phu
di Bernardo Valli (la Repubblica, 05.10.2013)
PARIGI. MA QUELL’uomo di non imponente statura, un po’ impacciato, esitante nell’avviare un discorso quasi fosse timido, appassionato di storia, senza la minima frequentazione di un’accademia militare o di una scuola di guerra, nei capitoli di storia, non solo militare, già dedicatigli, supera quei celebri capi di guerra, poiché vi figura come il solo generale che ha sconfitto separatamente due potenze occidentali: la Francia e gli Stati Uniti. Per quel che riguarda questi ultimi è una vittoria senza precedenti. Nessuno li aveva battuti prima di lui. Nessun esercito di quel che chiamavamo terzo mondo aveva mai battuto due eserciti occidentali moderni (a parte la remota vicenda italiana di Adua).
La prima, la Francia, Giap l’ha battuta a Dien Bien Phu nel maggio ’54. I secondi, gli Stati Uniti, li ha costretti ad abbandonare militarmente il Vietnam del Sud, e tre anni dopo, nel ’75, ha sbaragliato il regime che si erano lasciati alle spalle. Costringendo l’ambasciatore americano a fuggire in elicottero con la bandiera stellata sotto il braccio. Se si valutano le conseguenze politiche delle guerre vinte da Giap ci si accorge che ilfiglio di un modesto mandarino del Vietnam centrale è stato uno dei principali personaggi delle seconda metà del XX secolo.
Ha sconfitto l’Armée della Quarta repubblica a Dien Bien Phu avviando il successivo crollo dell’impero coloniale francese, sulle cui rovine, quattro anni dopo, nel 1958, durante la guerra d’ Algeria, sarebbe nata la Quinta repubblica fondata dal generale de Gaulle, richiamato d’urgenza al potere. In quanto all’America, vittoriosa in due guerre mondiali, ha sentito l’umiliazione della sconfitta inflittale da un esercito di contadini. Ma è durante quella guerra, vinta da Giap, che si è consumata la rottura tra Unione Sovietica e Cina, i due grandi sostenitori del Vietnam comunista. Rottura che ha accelerato, ha contribuito all’implosione dell’Urss nel decennio successivo.
È morto dunque, a centodue anni, nel suo Vietnam, non più coloniale come alla sua nascita, non più diviso come nei decenni delle sue guerre, meno comunista di come forse lo voleva, ma saldamente riunificato e indipendente, un personaggio che ha lasciato un segno profondo nel secolo alle nostre spalle.
Nato nell’ Annam rurale, popolato oltre che da contadini da una classe di intellettuali nazionalisti, funzionari riluttanti dell’amministrazione coloniale francese, il giovane Giap ha frequentato il liceo e ha divorato la storia dei tenaci strateghi vietnamiti per secoli in lotta contro gli invasori cinesi. Si è appassionato anche delle spedizioni napoleoniche in Europa, ampiamente raccontate nei testi universitari, studiati quando ha poi frequentato, saltando da una all’altra, le facoltà di storia, di legge e di economia.
Quando il capo nazional-comunista Ho ChiMinh l’ha incontrato si è trovato davanti un giovane dallo sguardo spiritato, più incline a parlare di guerriglia che di leggi e di economia. Il comunismo li univa in quanto unica ideologia, secondo loro, in grado di combattere il colonialismo. La disciplina e la prospettiva di un mondo migliore per i contadini condannati al lavoro nelle risaie avrebbero favorito l’organizzazione clandestina e la mobilitazione politica.
Così quel giovane appassionato di storia ha cominciato, sotto l’ala di Ho Chi Minh, a preparare l’esercito che avrebbe sconfitto i generali educati a Saint Cyr e a West Point. L’avvento di Mao al potere in Cina ha trasformato negli anni Cinquanta la guerra che i francesi avevano provocato nel tentativo di conservare l’impero coloniale. Il quale, nei loro intenti, doveva rianimare la grandeur perduta dalla Francia durante l’occupazione nazista nella seconda guerra mondiale. Grazie all’artiglieria fornita dai cinesi, Giap tentò di intrappolare le truppe francesi. Quest’ultime, secondo il generale Navarre, il loro comandante, installandosi nella conca di Dien Bien Phu avrebbero creato un imprendibile campo trincerato contro il quale Giap avrebbe consumato tutte le sue forze.
I principi di Giap erano semplici. Il primo era che bisogna sempre sorprendere il nemico. Un’altra sua convinzione era che dove passa una capra può passare un uomo, e dove passa un uomo può passare un battaglione.
Per la battaglia di Dien Bien Phu ha mobilitato 250 mila portatori, più di ventimila biciclette, diecimila zattere, mezzo migliaio di camion e altrettanti cavalli, e ha fatto passare tutto attraverso una fitta foresta, in apparenza impraticabile. Cosi ha sorpreso l’avversario: garantendo il rifornimento di riso, armi e munizioni, agli uomini che assediavano Dien Bien Phu. Il generale Navarre riteneva che fosse impossibile. A causa del cattivo tempo la guarnigione francese si è dovuta difendere senza l’appoggio aereo, e, nonostante il coraggio alla fine si è dovuta arrendere, stremata e decimata.
Giap ha vinto le guerre ma non tutte le battaglie. La creazione del suo esercito è cominciata con la distribuzione di fucili presi ai giapponesi che occupavano la penisola indocinese durante il conflitto mondiale, e di vecchi arnesi rubati nei museo. I combattenti indossavano l’abito nero dei contadini nelle risaie. E ancora nel ’54, a Dien Bien Phu, avevano sandali con la suola fatta di copertoni usati. Quel che ha contato è stata la «guerra psicologica»: la conquista della gente con l’indottrinamento, la disciplina, la minaccia, la solidarietà, l’aiuto.
Giap aveva carisma, aveva la fama di un duro, e lo era, ma era giudicato anche un giusto. Era semplice e inflessibile come i soldati che aveva ammirato da ragazzo nei libri di storia. Col partito non è sempre andato d’accordo. Non perché fosse meno comunista, ma perché poco politico.
Fu allontanato per anni dal comando dell’esercito e dal governo, durante la guerra americana, ma fu richiamato in vista dell’offensiva finale. Quella del ’75, contro l’esercito del Sud che ha lanciato all’improvviso, vincendola senza difficoltà. Come molti generali celebri aveva un lato sentimentale. Scriveva poesie. La sua vita familiare è stata severa. Ha conosciuto la prima moglie in prigione, e lei, dopo avergli dato una figlia, è morta in seguito alle torture subite dalla polizia francese.
Incontro con la storia
Giap mi disse “Nelle guerre coi giganti vincono i deboli”
di Furio Colombo (il Fatto, 08.10.2013)
Avevamo passato tutto il giorno nelle caverne, durante il bombardamento di Haiphong. Ci sono donne, bambini, operai, camionette in riparazione, macchine utensili per costruire e riparare, lungo camminamenti, scale, gradini e camere da letto a cui mancava una parete. Avevano portato il letto, a volte in legno scolpito, con coperte arrotolate come cuscini e trapunte colorate, e una o due sedie per la famiglia, mentre il soldato combatte e l’operaio lavora. Uomini e donne, ragazzi e ragazzine, in tutte le cose da fare possibili. Per i piccoli c’era la classe, persino i banchi e la cattedra, dove la caverna si allargava di più. Lampadine pendevano da ogni sporgenza delle grotte, una illuminazione forte, da festa, che ti costringeva a buttarti indumenti sulla testa quando era il turno del sonno. Non sapevo che quel giorno (era dicembre del 1972) avrei visto Giap, il generale, il capo, il comandante, il vincitore, il mito.
La luce bellissima della sera e il sentiero nella giungla
L’abitudine di chi ci scortava (Antonello Trombadori e io) era di non rispondere mai. Non a me, che venivo dall’America, ma neanche a Trombadori che, a quel tempo, era deputato e dirigente del Partito comunista italiano. Trombadori, che andava ogni volta che poteva ad Hanoi non solo per solidarietà politica, ma per la sua cieca fiducia nell’agopuntura e nella medicina delle erbe, mi ha detto che, dopo il lungo viaggio nella caverna (eravamo lì dentro dalla notte prima, anche per stare al sicuro nel ventre della montagna) mi avrebbe fatto conoscere il suo medico che, come tutti i leader Vietcong, era uno che aveva studiato e lavorato a Parigi. La luce della sera, in Vietnam, specialmente nel Nord, specialmente vicino al mare, è come una luce di scena. Impossibile che la luce della natura sia così bella. Intorno avevamo le montagne a pan di zucchero, verdi, scoscese, salgono e scendono ripide, addolcite dal verde fitto. Su una jeep americana catturata chissà dove, l’autista, una scorta e noi siamo partiti con uno scatto violento, direzione foresta. Nella foresta c’è sempre una strada, che non è una strada, ma è libera da ostacoli e sbocca, dopo un’ora, ai bordi uno spiazzo polveroso: A sinistra un tempietto e uno di quei piccoli cimiteri di tombe basse e eguali che annunciano la presenza di un villaggio. Ma la scena è chiusa da una roccia ripida e nuda. Davanti alla roccia una piccola casa che sembra finta se non fosse una casa povera, la porta ammaccata, un vetro rotto, in alto. Solo la scorta è venuta e bussa alla porta.
Apre lui, Vo Gguyen Giap, in divisa impeccabile, la giacca dal taglio perfetto, la figura un po’ allargata dalle spalline lucide e rigide ma resa più elegante, benché non alto, dalle gambe lunghe, in proporzione. Il viso è scolpito con cura, elegante e borghese di un professionista e o di un insegnante di buon livello. La stanza, si vede benissimo, è messa in ordine solo per questo incontro, un tavolo quadrato con centrino che forse è inamidato, un gran vaso di fiori che sono stati appena portati, quattro sedie che non sono del tavolo e una teiera. Giap non ha ancora parlato, ha gesti brevi, eleganti. È gentile e diffidente nel senso che sa benissimo che stiamo interpretando una scena e in quella scena non giocherà alcun ruolo se non, con prudenza, se stesso. Dice subito: “Parliamo francese”, con pronuncia chiara e colta. Quando stiamo seduti, lui ascolta, come un professore in una sessione d’esami, la mia spiegazione, la mia ragione (un giornalista italiano che vive a New York) di essere nel Vietnam del Nord, fra Hanoi e Haiphong, proprio mentre sono ripresi i bombardamenti. Mi aspetto un commento che non c’è, per esempio accusare Kissinger. E io continuo, come per produrre una giustificazione: “Ero venuto con l’intenzione di filmare il primo giorno di pace, e invece continua la guerra...”.
Il generale Giap ha uno sguardo sereno che non guarda proprio me, ma un po’ più lontano, dietro gli occhiali leggeri, puliti bene (ma una stanghetta è legata con fil di ferro). Come un medico gentile precisa i caratteri del male di cui si occupa. “L’imperialismo pensa di vincere perché è più forte. La guerra continua ancora un po’, e poi vinciamo noi. Nelle guerre con i giganti vincono i deboli, sempre”. Ha le due mani sul tavolo, mani più giovani della sua età, mani di chi legge e di chi scrive, non di chi combatte. Noto in quel momento che le maniche della giacca impeccabile, dove c’è il risvolto segnato dal filo d’oro del suo grado, sono sfilacciate, quasi tagliuzzate dall’uso. Anche i pantaloni, stirati al punto da suggerire un po’ di amido, finiscono male, logori e non più riparabili, sulle caviglie senza calze e i piedi magri, eleganti, in scarpe lucidissime che quasi non stanno insieme.
Elegante nella sua divisa, la voce pacata, la stretta di mano da politico
C’è forse civetteria in questa esibizione combinata di potere, eleganza e povertà, che ho incontrato spesso nel Vietnam del Nord, mai in modo così perfetto. Parla con voce uguale e pacata, come in una breve lezione in cui nulla è fuori posto, logico, fattuale, preciso, con un ricordo nitido di luoghi e date, comprese citazioni e attribuzioni di frasi di personaggi del mondo. Parla poco. Ascolta domande politiche e le evita. Considera il suo lavoro un progetto a cui - da esperto - sta lavorando con cura. Intanto ha servito il tè, da una teiera forse d’argento, splendente nella stanza che sul fondo è buia, perché non basta la luce dell’unica lampadina. Va via la luce ma non è un bombardamento, ci avverte, è il generatore. Quando torna la luce lui è in piedi, la sua divisa sembra di nuovo perfetta. Sa come concludere. Non con una frase comunista, ma con una esortazione patriottica, un inno (senza cambiare il tono della voce) a un’unica patria, del Sud e del Nord, La stretta di mano non è né forte né debole. È netta, politica, la giusta dose di protocollo e di diffidenza. È notte e i bagliori di fuoco a distanza, in direzione del porto, sono i bombardamenti. Non senti le esplosioni perché sei assordato dal rumore dei B-52 che volano basso.