La "debolezza del "pensiero forte" e la "forza" del "pensiero debole"!!!

Cristianesimo e conflitti culturali in Europa. Un’analisi (2006) di Gianni Vattimo - selezione di Federico La Sala

martedì 3 aprile 2007.
 
[...] il compito a cui si trova di fronte oggi il mondo cristiano, e cioè l’Occidente, è quello di ricuperare la propria funzione universalistica senza implicazioni coloniali, imperialistiche, eurocentriche. E’ difficile pensare che possa adempiere a questo compito accentuando la propria specificità dogmatica, etica, disciplinare. Una tale accentuazione, si può ragionevolmente sostenere, non corrisponde nemmeno all’essenza della dottrina cristiana, ma dipende piuttosto da una certa inerzia storica delle chiese come organizzazioni mondane. L’altra via che si apre per il cristianesimo è quella di ricuperare la propria funzione universalistica accentuando la sua vocazione missionaria come ospitalità e come fondazione religiosa (paradossale quanto si vuole) della laicità (delle istituzioni, della società civile, della stessa vita religiosa individuale) [...]

Cristianesimo e conflitti culturali in Europa

di Gianni Vattimo *

Da molti segni, sembra che il rapporto del cristianesimo con i conflitti culturali - o la possibilità che essi si accentuino o si inaspriscano - non sia concepito come un rapporto tranquillizzante. Voglio dire che difficilmente oggi il titolo di questo dibattito Cristianesimo e conflitti culturali in Europa sarebbe inteso da qualcuno, a tutta prima, come riferito al cristianesimo in quanto fonte di pacificazione, attenuazione, ecc. dei conflitti culturali. Almeno in prima approssimazione, ciò a cui subito si pensa è che il rapporto si configuri piuttosto nel senso che il cristianesimo - se non come specifica sorgente di conflitto - per lo meno appaia come uno dei termini che entrano in conflitto. In altre parole: l’esistenza di una tradizione cristiana come sottofondo costante, anche se vago e di senso non univoco - nel mondo occidentale, non che essere un elemento di appianamento dei conflitti è (o è diventata) un aspetto costitutivo di essi, se non addirittura un fatto che li promuove e rischia di esasperarli.

Accade qui un po’ come accade per l’interpretazione del rapporto religione-politica: come è capitato di constatare in un dibattito tenutosi di recente a Torino, è quasi “naturale” che la relazione tra religione e politica venga sentita come un rischio per l’autonomia della politica, e di rado , o quasi mai, come l’eventualità che la religione contribuisca positivamente ad arricchire e a migliorare la politica. Mi sembra ovvio che qui siamo di fronte a esiti di esperienze storiche determinate: nel caso del binomio religione-politica, alla base del modo “difensivo’ di intenderlo, sta probabilmente l’esperienza italiana (ma forse non solo, seppure con fisionomie diverse) di una lunga stagione di “ingerenza” della religione, o meglio della Chiesa cattolica, nella scelte elettorali degli italiani.

Quanto al rapporto cristianesimo-conflitti culturali, l’idea del rischio che la tradizione cristiana faccia parte del conflitto, o addirittura contribuisca a promuoverlo, nasce probabilmente con la fine dell’eurocentrìsmo: non pensiamo più che la civiltà europea rappresenti lo sviluppo naturale e normale di tutte le culture umane , che essa sarebbe legittimata a unificare sotto di sè; e così anche il cristianesimo non ci appare più come la rivelazione della verità che illumina le tenebre delle culture “altre”, liberandole dai loro errori o dalle loro parzialità; è una religione e una cultura che si confronta con culture e tradizioni diverse, e dunque è uno dei termini in gioco nel conflitto tra culture e non, almeno non così ovviamente, la sua soluzione.

Del resto neanche all’interno del mondo occidentale cristiano il cristianesimo sembra più funzionare come elemento unificante. E’ qui, anche, la radice un po’ più remota e meno evidente della diffidenza della politica verso la religione: anche dentro al mondo occidentale la religione cristiana è piuttosto un termine del conflitto che un fattore ovvio di unificazione e pacificazione. . Il modo in cui le società occidentali hanno cercato di risolvere il problema di un cristianesimo diventato, da elemento di coesione, fattore di conflitto - una trasformazione che coincide con l’inizio della stessa modernità europea, Riforma protestante, guerre di religione, ma che prosegue fino ai giorni nostri - è stato quello della “evacuazione” della tematica religiosa dall’ambito laico. Il liberalismo ha significato la riduzione della religione alla sfera del privato, al massimo all’ambito della società civile (del libero associarsi di cittadini per scopi “opzionali” ecc. - riv. Dilthey).

Escluse dall’area delle lotte per il potere politico e per la distribuzione delle risorse economiche , la scelta e l’appartenenza religiosa non sono più apparse come una minaccia per la pace sociale. Nel momento in cui il conflitto culturale vede però coinvolti nuovi soggetti religiosi, e cioè le culture altre che nel frattempo si sono stabilite fra noi, questa soluzione liberale del problema funziona ancora? Si può assumerla a modello per il trattamento dei conflitti interculturali? La risposta può difficilmente essere affermativa. La situazione sembra piuttosto essere la seguente: lo spazio laico della politica che sembrava essersi stabilito abbastanza solidamente dentro le società liberali dell’Occidente, non riesce con la stessa sicurezza a includere pacificamente al proprio interno le culture (o almeno alcune culture) “altre” che oggi sono presenti nella nostra società; esse tendono a vedere la stessa laicità dello spazio politico come una minaccia alla loro autenticità, e dunque ad assumerla non come una condizione positiva di libertà, ma come un limite negativo da rifiutare.

Credo si possa ricordare, come esempio emblematico , la storia del divieto del chador nelle scuole pubbliche francesi. Per stabilire una condizione laica nella quale deve essere garantita la libertà religiosa (o irreligiosa) di chiunque, si vieta l’uso (troppo) visibile di uniformi, segni distintivi, ecc. , che potrebbero dar luogo a conflitti proprio in quanto affermazioni troppo marcate di una identità culturale. Ma, come è facile vedere, qui l’identità culturale che sarebbe troppo esplicitamente affermata è una identità altra, minoritaria, relativamente estranea a una più radicata tradizione locale. Se si paragona il divieto del chador con la quasi generale accettazione della presenza di simboli cristiani nelle scuole europee (il Crocifisso alla parete della scuola non viene per lo più contestato, salvo casi che per ora sono in numero limitato), ci si può render conto di quelli che mi sembrano i tratti salienti della nostra situazione . La società europea è, mediamente, laica e secolarizzata, ma sulla base di una abbastanza esplicita eredità cristiana; e ciò diviene evidente quando ci si misura con persone o gruppi radicati in tradizioni diverse, che avvertono la nostra laicità come profondamente marcata da una origine religiosa specifica. Il liberalismo ha creduto di mettere da parte la religione, riservandone lo spazio del privato, del sentimento, delle fede che non “interferisce” con le scelte politiche e con la normale dialettica del potere. Ma questa separazione è riuscita solo perché si è realizzata sulla base solida, anche se non riconosciuta, di una comune appartenenza religiosa.

Lo spazio laico in cui la religione ha cessato di essere un fattore conflittuale si è realizzato nell’Occidente moderno entro un più ampio, e meno riconosciuto, spazio religioso di origine cristiana, o ebraico-cristiana o biblica. Si può esprimere tutto ciò in tanti modi diversi: per esempio, con la boutade (che io continuo a trovare estremamente significativa) di chi dice “grazie a Dio sono ateo”. O, in termini meno paradossali, con il riconoscimento che la secolarizzazione che caratterizza la modernità (come la razionalizzazione capitalistica collegata da Weber all’etica protestante e al monoteismo biblico) è un fenomeno tipico del mondo cristiano . O ancora, prendendo atto che, con un altro paradosso, l’idea stessa del pluralismo delle culture esiste e si è sviluppata dentro una specifica cultura, quella dell’Occidente.

E’ vero che la forma classica in cui l’idea della pluralità delle culture umane si è sviluppata nell’Occidente moderno è quella eurocentrica che oggi non ci appare più sostenibile. Essa collocava le culture altre su una linea evolutiva il cui punto più alto era la civiltà cristiana dell’Occidente. I popoli pagani dovevano essere convertiti al cristianesimo, e le società” primitive” dovevano diventare società moderne, e cioè modellate su quelle occidentali; caratterizzate anche in senso laico, liberale, democratico. Questa visione evoluzionistica della storia umana diretta dall’ideale di emancipazione come occidentalizzazione, modernizzazione, cristianizzazione, è andata in crisi non solo o anzituttto per motivi teorici; è stata la caduta del colonialismo e di molte forme di imperialismo a rendere insostenibile una simile immagine del senso della storia universale.

Se oggi constatiamo che il cristianesimo non si presenta più, o almeno non è più considerato ovviamente quanto prima, come un fattore di superamento dei conflitti interculturali, è anche e soprattutto perché è caduta la sicurezza universalistica della ragione occidentale moderna , che, anche se inconsapevolmente, era una traduzione secolanizzata della fede ebraico-cristiana nel piano divino di salvezza. Quella parte del pensiero cristiano che ha sempre considerato questa traduzione in termini secolari come un tradimento e un abbandono della verità, si compiace oggi del naufragio del "razionalismo” occidentale. Ma tale naufragio ha come sua conseguenza il fatto che il cristianesimo tende oggi a presentarsi come un termine del conflitto culturale, piuttosto che come un fattore di superamento e di conciliazione. La questione che così si pone è tanto più urgente in quanto, parlando di cristianesimo, continuiamo anche a parlare di società liberale, di occidente, di democrazia moderna.

E’ vero che la civiltà cristiana ha avanzato le sue pretese universalistiche lasciando che si intorbidissero e si mescolassero con i piani del colonialismo e dell’imperialismo. Ma con il colonialismo e l’eurocentrismo deve anche necessariamente finire ogni forma di universalismo della ragione e ogni sogno di una civiltà umana universale”? La tesi che intendo sostenere è che:

a) oggi ci sono segni evidenti del fatto che in molte comunità cristiane (nelle diverse chiese e confessioni) dilaga la tentazione di opporre all’universalismo compromesso con l’eurocentrismo del pensiero e della politica occidentale moderna, forme di chiusura che vanno dai vari tipi di comunitanismo (con il risvolto di una certa apartheid delle culture) al vero e proprio fondamentalismo non di rado aperto a esiti violenti;

b) credendo di sottrarsi con questo ai perversi esiti del razionalismo moderno, della secolarizzazione ecc. , il cristianesimo in realtà rinuncia alla sua missione di civilizzazione; che può ricuperare solo ritrovando, in forme certo non più evoluzionistiche e imperialistiche, la propria profonda solidarietà con il destino della modernizzazione.

E’ come se l’alternativa davanti a cui si trova oggi il cristianesimo (e certo sono consapevole che si tratta di un termine generico: la Chiesa cattolica? Le chiese cristiane? Il pensiero dei credenti. Tutto un po’ fosse o caricarsi del destino della modernità (e della sua crisi, del suo passaggio al post-moderno) o, all’opposto, rivendicare la propria estraneità ad essa; ma se scegliesse questa seconda via - e ci sono segni che una tale tentazione c’è rinuncerebbe a essere un mondo e una civiltà, per ridiventare quello che forse era alle origini, una setta tra altre sette e un obiettivo fattore di disgregazione sociale fra altri.

Caricarsi del destino della modernità, del destino dell’Occidente, significa anche, anzitutto, riconoscere il significato profondamente cristiano della secolarizzazione. Torniamo a ciò che si è osservato poco fa: lo spazio laico del liberalismo moderno è più religioso di quanto il liberalismo stesso e il pensiero cristiano sono disposti a riconoscere. Una immediata conseguenza di questa osservazione è che non ha senso, per il cristianesimo, collocarsi nel nuovo spazio dei conflitti interculturali cercando di costituirsi come identità forte. La sua vocazione è piuttosto quella di approfondire la propria fisionomia di sorgente e condizione di possibilità della laicità.

Ciò che - sia pure faticosamente, data la natura niente affatto lineare del problema - sto cercando di sostenere è che la dissoluzione post-moderna dei metaracconti (secondo l’espressione di Lyotard), e cioè la caduta in discredito dell’universalismo della ragione caratteristico della modernità, conduce anche il cristianesimo a sentirsi puro e semplice termine interno di una conflitto tra culture, religioni, visioni del mondo. Comunitarismo di ispirazione religiosa, e fondamentalismi di vario tipo (compreso quello che traspare talvolta anche nell’insegnamento ufficiale della chiesa cattolica), mi sembrano corrispondere a questo nuovo atteggiamento, che si sente tranquillamente legittimato dal fatto di aver chiuso i conti con le implicazione imperialistiche e colonialistiche dell’universalismo e del razionalismo di stampo illuministico.

Ora, è ben vero che, come insegna l’ermeneutica contemporanea di derivazione esistenzialistica (da Heidegger a Gadamer a Pareyson) , la condizione per qualunque dialogo autentico è che ciascuno degli interlocutori assuma esplicitamente la propria condizione di parte coinvolta, si renda conto e renda conto all’altro interlocutore dei propri pregiudizi o, più in generale, della propria identità, senza sentirsi fin da principio colui che sa di più e che può guidare il dialogo verso esiti previsti, già saputi come “veri” (è questo per esempio un motivo della diffidenza dei filosofi ermeneutici per una certa concezione del dialogo psicoanalitico, nel quale si suppone che non ci sia perfetta simmetria tra i due interlocutori). Ma il pensiero cristiano, collocandosi verso le altre culture come un interlocutore con uguali diritti, non dovrebbe dimenticare che fra i tratti costitutivi della sua identità c e appunto anche, e anzitutto, l’eredità dell’universalismo, o se si vuole, la consapevolezza della pluralità delle culture e l’idea di uno spazio laico entro cui esse si possono confrontare. Per collocarsi in modo autentico come interlocutore del dialogo, il cristianesimo non può mettere da parte proprio questo aspetto essenziale della sua eredità e della sua identità.

Per rispettare la sua specifica autenticità, diventa importante che, entrando nel dialogo interculturale, il cristianesimo si presenti come il portatore dell’idea della laicità; che è l’idea stessa dell’universalismo della ragione spogliata delle sue accidentali anche se molto radicate e pesanti - complicità con gli ideali del colonialismo e dell’imperialismo moderni. Ciò significa però che, invece di “identificarsi” come una religione fra le altre, rafforzando i propri caratteri distintivi - sia sul piano dogmatico, sia sul piano della predicazione morale e della coesione disciplinare - il cristianesimo dovrebbe sviluppare la sua vocazione laica -quella che si è già manifestata nel rendere possibile e nel favorire la nascita dell’idea di laicità nella modernità europea. Si tratta qui di riconoscere un aspetto essenziale del cristianesimo come tale, non una sua accidentale caratteristica secolarizzata: a differenza di altre religioni, il cristianesimo ha avuto fin dall’inizio una fortissima componente missionaria, molto esplicita nella predicazione di Gesù, che invia gli apostoli a predicare il Vangelo a tutte le creature.

La forma che l’ideale missionario ha preso nella modernità è stata, certo, quella dell’alleanza, spesso non solo subita come una triste necessità, con l’imperialismo europeo. Ma nello stesso tempo, l’universalismo cristiano dava anche luogo, sulla base delle terribili esperienze delle guerre di religione in Europa, alla scoperta dell’idea di tolleranza e all’invenzione di uno spazio “laico” di libero incontro delle diverse posizioni religiose o areligiose che si erano intanto delineate nella società moderna. Si trattava e si tratta ancora oggi di cogliere nell’annuncio cristiano non tanto e non esclusivamente la liquidazione di tutti gli (altri) dei falsi e bugiardi, ma - anche a partire dal famoso detto di Gesù “date a Cesare. . ”, e da quell’altro: “il mio regno non è di questo mondo. . ” - di garantire uno spazio di legittimità a esperienze religiose diverse. Del resto non è raro, anche presso pensatori che si professano cristiani senza riserve, trovare che l’incarnazione di Cristo è interpretata anche come legittimazione di tutti i simboli naturali della divinità: se Dio si incarna in Gesù, significa che non è così radicalmente lontano dal mondo naturale e umano, e dunque che c’è una possibile verità anche nell’idolatria di tante religioni pagane.

Il cristianesimo si libera della sua complicità con gli ideali imperialistici della modernità europea in seguito a una dura esperienza storica, quella della rivolta dei popoli ex-coloniali che si ribellano ai loro dominatori “cristiani” anche in nome di una più autentica interpretazione del messaggio evangelico. Anche il ritrovamento della propria vocazione “laica” - quella di presentarsi anzitutto come il promotore di spazi di libertà per il dialogo tra religioni, visioni del mondo, orientamenti ideali e culture diverse -e imposto” al cristianesimo dall’incontro della sua vocazione missionaria con esperienze storiche nuove e inedite. Nelle nuove condizioni dei rapporti tra popoli e culture diverse, nel mondo post¬coloniale - il cristianesimo non può pensare di adempiere alla propria costitutiva vocazione missionaria accentuando la propria specificità dottrinale, morale, disciplinare.

All’opposto, esso può sperare di partecipare al dialogo-conflitto, o confronto, tra le culture e le religioni solo facendo leva sul proprio specifico (giacché non lo si trova così marcato nelle altre religioni) orientamento alla laicità. Si potrebbe sintetizzare questa proposta in una specie di slogan: dall’universalismo all’ospitalità. Del resto, il diffondersi di posizioni fondamentalistiche o di forme di apartheid comunitanistìca, mostra chiaramente, secondo me, che nel mondo babelico del pluralismo, le identità culturali e specialmente religiose sono destinate a finire nel fanatismo a meno che non accettino di viversi in uno spinto esplicitamente debole. L’ospitalità - mi richiamo qui a una bella conferenza di Jacques Dernida del gennaio scorso - non si realizza se non come un mettersi nelle mani del proprio ospite, come un affidarsi a lui, accettando dunque l’eventualità, nel caso del dialogo interculturale o interreligioso, che sia lui ad aver ragione. L’identità del cristiano nel dialogo interculturale e interreligioso, se - applicando il precetto della carità - si vuole concretare nella forma dell’ospitalità, non può che ridursi quasi completamente al dare ascolto e al lasciar la parola agli ospiti.

Mi rendo conto che ciò che propongo qui è una tesi densa di conseguenze e molto discutibile. Ma il compito a cui si trova di fronte oggi il mondo cristiano, e cioè l’Occidente, è quello di ricuperare la propria funzione universalistica senza implicazioni coloniali, imperialistiche, eurocentriche. E’ difficile pensare che possa adempiere a questo compito accentuando la propria specificità dogmatica, etica, disciplinare. Una tale accentuazione, si può ragionevolmente sostenere, non corrisponde nemmeno all’essenza della dottrina cristiana, ma dipende piuttosto da una certa inerzia storica delle chiese come organizzazioni mondane. L’altra via che si apre per il cristianesimo è quella di ricuperare la propria funzione universalistica accentuando la sua vocazione missionaria come ospitalità e come fondazione religiosa (paradossale quanto si vuole) della laicità (delle istituzioni, della società civile, della stessa vita religiosa individuale).Così, per tornare all’esempio a cui mi sono riferito poco fa, i cristiani non possono nello stesso tempo rivendicare il diritto di esporre il Crocifisso nelle scuole pubbliche e assumerlo come segno di una religione particolare intensamente dogmatica

O ancora: si può continuare a celebrare il Natale come una festa di tutti, nelle società occidentali, ma non ha poi senso lamentarsi che è divenuta una festa troppo laica, mondana, priva del suo più autentico significato originario. In fondo, il divieto del chador nelle scuole pubbliche francesi può esser giustificato proprio solo dal fatto che lì tratta di una affermazione di identità forte, una sorta di professione di fondamentalismo. Il Crocifisso è invece diventato, nella nostra società, un segno quasi ovvio, a cui si presta meno attenzione, che lascia sussistere la laicità, segnalandone soltanto un’origine religiosa sviluppatasi nel senso della secolarizzazione. E’ proprio in questo suo significato, generico ma anche “aprente” e possibilizzante, che esso può rivendicare il diritto di essere accettato come Simbolo universale in una società laica. Se le religioni, e anzitutto il cristianesimo, vogliono davvero presentarsi come identità forti, allora sarà fatale che la società liberale manifesti la sua laicità solo con una progressiva riduzione della visibilità di ogni simbolo religioso nella vita civile - per non suscitare la reazione di questa o quella minoranza o comunque di religioni e culture “altre”. In tal modo, tra l’altro, finiremmo per dover chiudere gran parte dei musei d’Occidente, e rinunciare alla stessa tradizione culturale occidentale che è così densa di simboli religiosi e inseparabile da essi.

Bisogna semmai favorire una compresenza libera e intensa -certo, anche assumendo come modello di democrazia simbolica proprio il museo, con il suo accostamento di stili, gusti, culture diverse -di molteplici universi simbolici, secondo uno spirito di ospitalità che esprimerebbe bene sia la natura laica della cultura occidentale, sia la sua profonda origine cristiana. Ma per arrivare a questo punto, occorre che le religioni, e il cristianesimo in primo luogo, vivano se stesse non più nella forma dogmatica e tendenzialmente fondamentalista che le ha fin qui caratterizzate. Anche in questo senso, si può dire che, contrariamente ad ogni aspettativa angustamente laicista, il rinnovamento della nostra vita civile in Occidente nell’epoca del multiculturalismo è anzitutto un problema di rinnovamento della vita religiosa.

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Testo tratto dalla mailing list di alcuni aderenti a Noi Siamo Chiesa Italia - postato nel sito della Voce il 5.06.2006.





Sul tema, nel sito, si cfr.:

-  INDIETRO NON SI TORNA: GIOVANNI PAOLO II, L’ULTIMO PAPA. PER IL DIALOGO A TUTTI I LIVELLI: UT UNUM SINT. Un omaggio a WOJTYLA: UN CAMPIONE "OLIMPIONICO" - GRANDISSIMO. W o ITALY !!!

-  "CHI SIAMO NOI, IN REALTA’?"(Nietzsche). La "questione antropologica" costringe ad aprire il cerchio del naturalismo (e a smetterla con il "platonismo per il popolo", sia da parte fideistica sia da parte scientistica). Un intervento del cardinale Ruini, e la riproposizione ratzingeriana di un’apertura ... ancora senza uscita "dallo stato di minorità"!!!

-  "MATEMATICA E MISTERO". GALILEO GALILEI E’ GALILEO GALILEI ... E LA TRASCENDENZA CRISTIANA NON E’ LA TRASCENDENZA "DELL’ENTE ...CATTOLICO-ROMANO", DEL VATICANO!!! Cerchiamo di "non dare i numeri": il "Logos" non è un "Logo", e la "Charitas" non è la "caritas"!!!



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