LE DUE CHIESE
di Piero Sansonetti
La Chiesa dice che l’embrione è persona, e dunque deve avere titolarietà giuridica. La Chiesa dice che l’aborto è un crimine. La Chiesa chiede che la ricerca scientifica abbia dei limiti, e che questi limiti siano dettati dalla dottrina. La Chiesa dice che la fame e la sete sono un flagello, ma che solo Dio potrà liberarcene. La Chiesa dice che la carità, la solidarietà, sono cosa buona, ma esistono solo in quanto “ancelle” della fede, cioè spettano solo ai cristiani. La Chiesa dice che il problema delle migrazioni va affrontato non dal punto di vista degli “ospitanti” (cioè di noi occidentali) ma dal punto di vista dei migranti, dice che sono loro le persone alle quali la politica deve rispondere, e dice che i Cpt voluti da Napolitano, da Turco, da Fini da Bossi, sono pessime risposte, perché sono carceri e violano i diritti dell’uomo. Come ci districhiamo da questa ragnatela? Vedete, le prime affermazioni sono tutte in linea e ci spingono a dire: opponiamoci alla Chiesa e al suo pensiero fondamentalista, che punta a mettere Dio e un modello patriarcale di società innanzi a tutto, sacrificando i diritti della donna, della scienza, della collettività umana. L’ultima affermazione è assolutamente diversa: è figlia della miglior dottrina sociale cristiana, delle parti più moderne, innovative ed esaltanti del pensiero di Cristo: sfida senza timidezza il senso comune, gli egoismi, le paure dei partiti e la loro tendenza ad essere comunque conservatori, pigri, arroganti, subalterni al senso comune.
Non credo che ci sia un modo per districarsi. La Chiesa è grande e complessa e racchiude al suo interno l’immensità del pensiero del suo fondatore - e quindi una pulsione altamente rivoluzionaria e tollerante - e l’eredità della propria storia e vocazione temporalistica (e cioè la la burocrazia della sua dottrina e l’aspirazione a imporla agli infedeli), che è un sistema di potere conservatore e tendezialmente totalitario. Nella Chiesa convivono Francesco D’Assisi e il suo papa-re. Si alternano leadership oscurantiste come quella di Pio XII, e guide illuminate e avanzatissime come quella del successore Giovanni XXIII. Oggi la Chiesa è guidata da un intellettuale tedesco dal passato e dal presente assai contraddittori, che tende comunque a opporsi a qualunque entità o potenza che gli sia estranea. E quindi al pensiero moderno relativista - o peggio ancora di sinistra, o addrittura marxista - ma anche al potere liberale e liberista. Questo papa, mentre impegna tutte le sue forze per la restaurazione di un modello fondametalista di cattolicesimo, non stravolge la dottrina sociale e si spinge fino a contrapporsi apertamente, su questo terreno, agli Stati e ai governi.
Il problema - per noi che non siamo cristiani, credenti - non è quello di censurare l’atteggiamento del papa o del Vaticano. Il problema è che lo Stato, i partiti laici, sembrano ossequienti e attenti alla Chiesa nella sua pretesa fondamentalista e temporalista, e invece la ignorano, fingono persino di non sentirla, quando essa presenta il suo volto “sociale”. E’ lì che bisogna dare battaglia. Dicono: “decidete, o con il Vaticano o contro, altrimenti vi contraddicete”. Non è vero. La contraddizione è nella Chiesa, e questa contraddizione è la grande questione Cristiana del terzo millennio.
(www.liberazione.it, 17.06.2006)
La politica e la fede
di Furio Colombo (l’Unità, 1 novembre 2004)
Deve la fede, intesa come verità, prevalere non solo nel contesto di ciascuna vita di credente ma anche nella vita dei non credenti, nelle decisioni politiche che riguardano tutti? Se la fede prevale, non si forma una sorta di imposizione in nome della verità religiosa che si trasforma in legge?
Queste domande nascono da un titolo di questo giornale (8 ottobre) che, dando notizia della conclusione della Settimana Sociale dei cattolici, riassumeva con la frase: "Appello del Papa ai cattolici: entrare in politica per imporre la fede". Il titolo era motivato da alcuni passaggi letti, a conclusione dell’evento cattolico, dal Card. Ruini. Il passaggio chiave era quello che attribuiva al laicismo la colpa di coltivare il relativismo (ovvero il riconoscimento di altre verità diverse dalla propria) definendolo "rischio e minaccia per la democrazia". La democrazia - secondo il testo letto da Ruini - sarebbe stata garantita solo se "fondata sulla verità". Perché "senza il radicamento nella verità l’uomo e la società rimangono esposti alla violenza delle passioni e a condizionamenti occulti". Una lettrice, la signora Anna Maria Stua, aveva scritto per dire, da credente, che "la fede non si può imporre perché appartiene alla inviolabile libertà della coscienza". L’ipotesi dell’autrice della lettera era che l’Unità, con quel titolo, aveva deformato i fatti e forzato il senso delle cose dette nella Settimana Sociale dei cattolici. La lettera della signora Stua e la mia risposta sulle pagine de l’Unità sono state seguite da numerose lettere e-mail che rendono utile tornare sull’argomento.
IL 23 ottobre avevo risposto alla lettera della signora Stua (pag. 1 e pag. 24 de l’Unità) notando due aspetti del problema: il primo è che vi è certo un’aspirazione a imporre la fede quando si chiede che essa si trasformi in legge per tutti. La seconda per notare che, per fortuna, un clima di intelligente e rispettosa convivenza esiste in Italia, accanto, e nonostante l’integralismo di molti. E usavo come testimonianza una frase di Mons. Vincenzo Paglia, Vescovo di Terni, che in occasione di un dibattito con non credenti ha detto (questa era la mia citazione a memoria): "Ciascuno di noi possiede solo una piccola parte della verità. Perciò possiamo vivere accanto, ciascuno rispettoso dell’altro". Si trattava di un dialogo fra Mons. Paglia e Arrigo Levi, che per fortuna è riflessa in modo molto più completo in due libri che citerò secondo la data di pubblicazione: "Lettera a un amico che non crede" di Mons. Vincenzo Paglia, Rizzoli, 1998, e "Dialoghi sulla fede" di Arrigo Levi, Il Mulino, 2000.
Di Vincenzo Paglia ricorderò questa frase essenziale: "Ai laici e ai credenti è chiesto di inventare nuove "vie di mezzo", di interrogarsi sulle vie della salvezza, sui modi per combattere la superstizione e allontanare l’idolatria, sulle strategie per difendersi dai sincretismi ingannatori e ostacolare i fondamentalismi, su come praticare la vita interiore e difendere la pace e saper ascoltare il grido di tanti popoli" (pag. 27). Come si vede è una affermazione coraggiosa, una finestra aperta su un vasto paesaggio di comprensione reciproca fra ispirazioni diverse che corrisponde alla frase "ciascuno di noi possiede una piccola parte di verità..." che gli avevo attribuito nel mio articolo.
Il libro di Arrigo Levi che ho appena citato è notoriamente un diario in pubblico sul "dialogo delle fedi", ovvero sul come sentimenti e culture diverse convivono. Stiamo parlando di un’Italia profondamente civile che precede l’epoca sboccata dei finti credenti (si pensi alla invocazione delle radici cristiane da parte della Lega e di An)e di eventi come "il caso Buttiglione" destinato a segnare tristemente la storia della nuova Europa. Qui, nell’Italia del rispetto che stiamo citando, ogni parola ha un peso, e non è il "politicamente corretto" delle parole che conta, ma l’elaborazione attenta e misurata di passaggi difficili, da parte di persone che non si accontentano delle buone maniere e cercano, nella diversità, veri punti di contatto sia umani che culturali.
A pag. 55 del suo libro, Levi cita il Card. Martini che dice: "Le religioni sono l’esprimersi storico, dottrinale, sociale della fede e in questo esprimersi storico possono entrare valori e disvalori etnici, politici, nazionali che diventano motivo di conflitto". A questo punto Levi chiede al card. Martini: "Non vi è illogicità nel dialogo fra credenti, ciascuno dei quali ha una sua verità rivelata?". "No - replica il Cardinale - perché la verità rivelata non è una verità matematica. Verità è una parola che uso malvolentieri perché è una parola troppo grande, è una apertura su un mistero più grande, e io non riesco se non a intuire qualcosa, a balbettare qualcosa di questo mistero più grande di noi. Perciò è possibile dialogare con altri che, come me, non si accontentano delle cose che hanno davanti, se no non dialogherebbero. Citando Bobbio, l’importante è essere pensanti: non ci domandiamo se siamo credenti o non credenti, ma pensanti o non pensanti".
Queste parole del Card. Martini ad Arrigo Levi, che Levi riporta nel suo libro, corrispondono nitidamente alla citazione di Mons. Paglia da me riportata, sia pure a memoria. E ci indicano un modo di parlare di fede in un tempo e in un luogo (questa Italia) in cui la religione viene usata come strumento di intimidazione e di governo nel tentativo di isolare i miscredenti, vuoi islamici (la invocazione ripetuta alla guerra santa), vuoi "comunisti" (ovvero tutti coloro che si oppongono). Ci parla della preoccupazione morale e culturale di impedire uno scontro come conseguenza del non riconoscersi. È una testimonianza di civiltà. E per questo, in un momento difficile e torbido della vita italiana, è sembrato importante, rispondendo alla lettera della signora Stua e poi alle molte e-mail ricevute, parlarne ancora in queste pagine.