di Gad Lerner (la Repubblica, 01.09.2008)
Il falso mito patriottico secondo cui converrebbe salvaguardare sempre e comunque l’italianità delle nostre compagnie di trasporto, telecomunicazioni, autostrade, televisioni, assicurazioni, miete consensi politici trasversali. Viene assunto come un dogma da cui dipende il consenso popolare, dunque criticabile solo da economisti "apolidi" e irresponsabili.
Nella vicenda Alitalia è tale luogo comune - la difesa dell’italianità - che garantisce a Berlusconi l’aureola di difensore dell’interesse nazionale. Guai a chi si oppone. Ma se si dà per scontato che la sopravvivenza della compagnia di bandiera rappresenti una priorità vitale della nostra economia, ne consegue che le alterazioni delle regole di mercato e gli esborsi di denaro pubblico siano tollerabili come male minore, necessario al perseguimento di una non meglio precisata "strategia-Paese". In fondo anche stavolta pagheremo senza accorgercene...
L’argomento vincente è che tutti i grandi paesi hanno una compagnia di bandiera (falso) e dunque per non venir colonizzati dobbiamo avercela pure noi (perché?). Se si prova a chiedere una motivazione meno generica, la risposta è che siamo una nazione a forte vocazione turistica. Come se dipendesse da Alitalia il calo delle presenze straniere nel Bel Paese. O ancora si sostiene che l’industria del Nord necessita di collegamenti migliori. Vero, ma il piano Fenice non può certo garantirli, e perciò mira a concentrare i suoi profitti sulle tratte locali.
L’accordo con Air France tentato dal governo Prodi fu bocciato come svendita del patrimonio nazionale. Il fallimento di Alitalia viene respinto all’unanimità come ipotesi catastrofica. Ma si può star certi che se a varare un piano come quello di Intesa Sanpaolo fosse stato il governo Prodi, la destra lo avrebbe bollato di comunismo. Sospensione della libera concorrenza, favoritismo degli imprenditori "amici", dirigismo, aggravio di spesa pubblica...
Che confusione, povera sinistra riformista: ha faticato tanto per assimilare le regole dell’economia di mercato, e ora subisce l’accusa di essere antiquata da parte di chi? Di un ministro come Tremonti che a Rimini ha rivendicato con disinvoltura il motto: "Dio, patria, famiglia". Dopo anni di predicazione "meno tasse, meno Stato".
Bisogna riconoscere che se la sinistra patisce oggi l’accusa populista di "mercatismo" e sudditanza allo straniero, se i rilievi europeisti di Mario Monti vengono snobbati come prediche inutili, ciò deriva dalla timidezza con cui anch’essa ha venerato il tabù dell’italianità quando era al governo. Il cattivo esempio dello statalismo francese suscita per lo più ammirazione. E perfino l’astuzia dei finanzieri d’oltralpe Bernheim, Bolloré, Ben Ammar, che spergiurano di operare a tutela dell’italianità di Generali e Mediobanca, gode di buona stampa. Patrioti di una patria altrui? Peccato non siano servite di lezione le manovre dei vari Fazio, Consorte, Fiorani, Ricucci che concertavano scalate bancarie anch’essi con la scusa dell’italianità.
Tranne che nel caso della Fiat, è opinabile che gli altri interventi bancari motivati come difesa del "sistema-Paese" abbiano rafforzato le nostre imprese. Né il veto alla fusione italo-spagnola delle autostrade ha comportato vantaggi per i consumatori.
Certo l’Italia non può fare a meno di una politica industriale, e soprattutto in tempi di crisi lo Stato deve fare la sua parte in economia. Una visione meramente liberista sarebbe irresponsabile, ma di qui a illudersi che le crisi aziendali si superano ricorrendo al patriottismo degli imprenditori, ce ne corre. Mentre le nostre imprese più dinamiche si rafforzano grazie a fusioni internazionali o diventando competitive sui mercati esteri, i difensori (trasversali) dell’italianità perseguono la falsa idea che la libera concorrenza sia un lusso che questo Paese non potrebbe permettersi. La loro aspirazione è una deroga perenne alle norme antitrust, da ottenere tramite il collateralismo politico-bancario e il perpetuarsi dell’economia di relazione.
Nel breve periodo a giovarsene sono settori di classe dirigente abituati a realizzare profitti soprattutto nell’ambito di mercati domestici e protetti. Pare faccia scuola il modello Mediaset, cioè il miraggio di un’economia imperniata su campioni nazionali squilibrati, forti in casa e deboli in trasferta. Del resto gli ostacoli posti alla nascita di un terzo polo televisivo italiano non hanno impedito la penetrazione dell’impero di Murdoch. Pensiamo davvero che farebbe bene all’economia italiana replicare la protezione di altri piccoli monopoli tricolori nei diversi settori di concessione pubblica?
Questa è una visione miope del nostro futuro, un tirare a campare che penalizza i consumatori e le imprese più attrezzate a vincere in campo aperto. Ne scaturisce una ricorrente contrapposizione alle regole comunitarie che non solo ci indebolisce a Bruxelles ma rischia di ostacolare il consolidamento di una potenza economica europea.
Il falso patriottismo giova alla popolarità del governo di destra ma non è in grado di impedire che, nel medio periodo, i nostri piccoli campioni nazionali vengano integrati nei colossi globali. Remare contro è una pessima politica: può arricchire i soliti noti ma impoverisce il Paese.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Le istituzioni più forti degli uomini
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 13/12/2009)
Non è escluso che dal grande chiasso che regna ai vertici del governo nasca, taciturno ma testardo, un attaccamento più intenso degli italiani alle istituzioni e alla carta costituzionale su cui poggiano le istituzioni. Il politico che se ne sente ingabbiato e vuole liberarsene continuerà magari a esser applaudito, per la spavalderia che esibisce e per il ruolo di vittima che recita. Ma in parallelo con questo consenso, fatto di adorazione e indolenza, è probabile che si rafforzi proprio la pianta che il leader vorrebbe disseccare: la pianta, rara in Italia, che quando attecchisce dà come frutto il senso delle leggi e dello Stato. C’è qualcosa nel chiasso della presente legislatura che ricorda i dipinti dell’espressionismo tedesco, durante la Repubblica di Weimar: volti stravolti da eccitazioni, maschere che sogghignano, città sghembe che urlano senza più ordine. Kurt Tucholsky scrisse che il precipizio «spettrale» cominciava con l’uomo che mette l’Io in primo piano (politico o scrittore, giornalista o imprenditore).
Hitler era un uomo così, e l’Io che accampava era la sua persona e qualcosa di più nascosto, torbido: l’Io della nazione, del Popolo illimitatamente sovrano. «L’Io di per sé non esiste», scrive Tucholsky fin dal 1931: «Quest’uomo non esiste; in realtà egli è solo il chiasso, che produce». Il frastuono coesiste da tempo con il rispetto italiano delle istituzioni, a ben vedere. La seduzione e il carisma di Berlusconi hanno alcune qualità inossidabili, ma non meno incorruttibili sono stati, lungo gli anni, l’ammirativa affezione per i garanti della Costituzione e l’adesione dei cittadini all’equilibrio fra i poteri. Sono stati molto popolari Oscar Luigi Scalfaro, Carlo Azeglio Ciampi. Lo è Giorgio Napolitano. Anche l’adesione agli organismi di garanzia non scema, come dimostrano i sondaggi favorevoli al Csm e alla Consulta. La lezione sulla Costituzione che Scalfaro tenne nel 2008 all’Auditorium di Roma riscosse un successo vasto.
È una conferenza che andrebbe riascoltata: la maniera in cui l’ex Presidente racconta la scrittura intellettualmente elettrizzante della Carta, le visioni profetiche che essa contiene, fa rivivere un testo che non è affatto vecchio e che in pieno frastuono non andrebbe modificato. Ricordo in particolare il passaggio sui diritti della persona: per la prima volta in Italia, dice Scalfaro, lo Stato non li concede né si limita a garantirli, ma li riconosce. I diritti precedono i governi e le Carte, e davanti a essi gli uni e le altre «si inchinano». Ricordo anche quel che disse a proposito del referendum del 2006 sulla riforma costituzionale del governo Berlusconi. Gli italiani dissero no non solo alla devoluzione ma anche, con forte maggioranza (più del 60 per cento), a un Premier dotato di poteri esorbitanti, compreso quello che scioglie le Camere e che la Carta affida al Capo dello Stato. Istituzioni e carte costituzionali hanno questo, di specialmente prezioso: durano più degli uomini, dei governi, delle campagne elettorali, dei sondaggi.
Sono lì come una tavola fatta di pietra, conferiscono stabilità a quel che nell’alternarsi democratico delle maggioranze necessariamente è votato all’instabilità. È significativo che non solo le nazioni uscite dalla dittatura si siano messe come prima cosa a riscrivere le Carte, ma che anche l’edificio europeo abbia anteposto la permanenza delle istituzioni all’impermanenza degli uomini, dopo le guerre del ’900. Jean Monnet, che dell’Europa fu uno degli artefici, venerava in particolar modo le istituzioni. Citando il filosofo svizzero Henri Frédéric Amiel scrive nelle Memorie: «L’esperienza di ciascun uomo è qualcosa che sempre ricomincia da capo. Solo le istituzioni son capaci di divenire più sagge: esse accumulano l’esperienza collettiva e da questa esperienza, da questa saggezza, gli uomini sottomessi alle stesse regole potranno vedere non già come la propria natura cambi, ma come il proprio comportamento si trasformi gradualmente» (Cittadino d’Europa, Guida 2007, i corsivi sono miei).
Questo vuol dire che grazie alle istituzioni non cambia la natura dell’uomo (missione impossibile e, se tentata, deleteria) ma il suo comportamento: il progresso di cui è capace l’uomo vive e si trasmette solo attraverso le istituzioni che egli sa darsi. Per alcuni, le istituzioni e le costituzioni hanno una forza così potente - la forza del Decalogo - da sostituire identità controverse come la nazione o l’identità etnica. Non sono Habermas e le sinistre ad aver inventato il concetto, non a caso tedesco, di patriottismo costituzionale. Lo coniò negli Anni 70 un conservatore, Dolf Sternberger: per l’allievo di Hannah Arendt, il patriottismo costituzionale era «una sorta di amicizia per lo Stato» (Staatsfreundschaft): amicizia che Weimar non aveva posseduto a sufficienza. L’adesione italiana alle istituzioni e alla Costituzione ha radici più forti che ai tempi di Weimar. Ha una resilienza a quell’epoca sconosciuta. Uomini come Scalfaro e Ciampi, nella Germania di allora, non avrebbero avuto la popolarità che hanno oggi in Italia.
Per Sternberger, il patriottismo costituzionale era l’unica identità possibile per un paese ridotto a mezza nazione dal nazionalismo etnico, la dittatura e la guerra. Una condizione che si diffonde, con la mondializzazione: tutte le nazioni hanno, nel globo, sovranità dimezzate. L’altro concetto formulato da Sternberger è quello di democrazia agguerrita. Alle violazioni delle leggi e agli abusi d’un singolo potere, la democrazia deve rispondere anche con la forza. In guerra si difende con le armi; in pace con le istituzioni, le leggi, le corti, perché queste si decompongono meno rapidamente e facilmente di un uomo o una maggioranza. Le istituzioni nascono quando l’uomo scopre il male, fuori e dentro di sé. Quando il politico, spinto esclusivamente da volontà di potenza, mostra di non tollerare confini e non riconosce, sopra di sé o al proprio fianco, poteri che frenino i suoi abusi. Quando smette, dice Ciampi, di essere compos sui: pienamente padrone di sé (intervista al Corriere della Sera, 11-12-09).
Limiti e contrappesi sono necessari anche quando l’espansione della volontà di potenza s’incarna nel popolo e nelle sue maggioranze: il popolo non ha innocenza e anch’esso può divenire despota, insofferente ai limiti. La democrazia che gli attribuisce sovranità assoluta non è già più democrazia. Anche questa è una lezione del Novecento: comunismo, fascismo e nazismo sono state escrescenze della democrazia, e tutte son partite dall’idea che il popolo-sovrano sia compos sui per natura. L’idea che l’uomo sia naturalmente buono è di Rousseau, e tende a squalificare sia il controllo esterno delle istituzioni sia il controllo interiore della coscienza, scriveva nel 1924 un altro filosofo conservatore, Irving Babbitt: «Con la scomparsa di questo controllo, la volontà popolare diventa solo un altro nome dell’impulso popolare» (Babbitt, Democracy and Leadership, 1924). Quel che avvince gli italiani, negli ultimi capi di Stato, è l’attitudine o comunque l’aspirazione a fissare uno standard, a farsi custodi non notarili ma perfezionisti della Costituzione.
Nel dizionario Battaglia, lo standard è «la norma riconosciuta o il criterio o l’insieme di norme o di criteri a cui devono fare riferimento o a cui si devono uniformare attività, servizi, comportamenti, metodi operativi o di lavorazione, e in base ai quali sono valutati». Quando vengono meno gli standard i popoli tendono a guardare non verso l’alto ma verso il basso, e il chiasso che ne esce si fa spettrale come nelle parole di Tucholsky.
Alitalia, si apre la trattativa Epifani: «Nessun ultimatum»
La NewCo: alternativa è il fallimento *
Comincia lunedì alle 18 la trattativa tra governo e sindacati sulla nuova Alitalia. Ma il presidente della NewCo Roberto Colaninno ha già avvertito: «Non sarà una trattativa come tutte le altre». Insomma, i sindacati devono dire sì per forza, altrimenti «l’alternativa è il fallimento». Cambio di registro, dunque, rispetto alle parole che aveva usato Corrado Passera, l’amministratore delegato di Intesa San Paolo, advisor nel piano di risanamento della compagnia aerea, solo pochi giorni fa. «Senza l’intesa con i sindacati, il progetto non andrà avanti» aveva detto. Ma l’atmosfera ora si è fatta decisamente più tesa.
Il nodo, come è ovvio, sono gli esuberi. Il ministro Sacconi ha promesso che saranno meno di cinquemila, ma nessuno azzarda cifre, e il numero dei licenziamenti potrebbe salire anche di qualche altro migliaio. Il più agguerrito è il leader della Cgil Guglielmo Epifani, che ha già fatto sapere che il sindacato «vuole una trattativa vera e non accetterà ultimatum». Insomma, quello su Alitalia non può essere un tavolo di concertazione sui generis: «Dalle crisi aziendali alla cassa integrazione - ha detto - le regole devono essere uguali per tutti. Mi colpisce - aggiunge Epifani - la disinvoltura di certi industriali rispetto ai conflitti di interesse e alle leggi ad hoc». Sul piano di salvataggio di Alitalia, spiega ancora il leader Cgil, serve il tavolo del governo con i sindacati «deve essere un confronto vero sul piano industriale, non un prendere o lasciare. Passera dice che è fondamentale l’accordo con il sindacato? Bene. Ma questo significa confrontarsi con le nostre opinioni».
In attesa di capire se l’intesa si troverà, Epifani comunque boccia in toto il piano sostenuto dal governo. «La mia opinione - spiega Epifani - è che questa cordata, sulla quale Passera stava lavorando da tempo e per la quale il governo ha cambiato in corsa le regole, sia formata da imprenditori che, per una parte, hanno altri interessi (penso a quelli che operano nell’edilizia o nel campo delle concessioni pubbliche) e per l’altra puntano sul guadagno finanziario».
* l’Unità, Pubblicato il: 01.09.08, Modificato il: 01.09.08 alle ore 13.15
Oggi l’incontro al ministero del Lavoro tra i nuovi vertici e i rappresentanti dei lavoratori
Ma il manager mette in guardia la controparte: "Non sarà un confronto normale"
Alitalia, Colaninno avvisa i sindacati
ROMA - L’appuntamento è fissato per il pomeriggio al ministero del Lavoro, ma tutto lascia supporre che sarà un dialogo tra sordi. Troppo lontane le posizioni dei nuovi vertici aziendali Alitalia e quelle dei sindacati sul futuro della compagnia aerea. All’intervista di Guglielmo Epifani a Repubblica, nella quale il segretario della Cgil chiede di cambiare il piano di salvataggio elaborato dal governo, dalle colonne del Financial Times risponde indirettamente Roberto Colaninno, presidente della compagnia aerea italiana, la newco costituita per acquisire Alitalia.
"I sindacati - mette in chiaro il manager - devono capire che l’alternativa è la bancarotta. Questo non sarà un normale confronto sindacale". Interpellato quindi sulla possibilità di possibili resistenze da parte dei sindacati a tagli sull’organico e rinegoziazioni contrattuali, Colaninno avverte che gli attuali contratti di lavoro dei dipendenti Alitalia non sono più validi. Esattamente l’opposto di quel "serve un confronto vero sul piano industriale, non un prendere o lasciare", spiegato da Epifani nel colloquio con Repubblica.
Sull’operazione Alitalia torna stamane anche il presidente del Consiglio. "E’ stata un grande successo del nostro governo, dopo quello sull’emergenza rifiuti in Campania", ha affermato Berlusconi parlando a ’Mattino cinque’. Il premier ha quindi attaccato l’opposizione: "Sa solo criticare. Non c’è mai stato da parte loro sostegno o un suggerimento positivo".
* la Repubblica, 1 settembre 2008.
I liberisti dei puffi
di Alessandro Robecchi (il manifesto, 31.08.2008)
È giusto che Alitalia rimanga italiana. Soltanto una sostanza collosa e maleodorante come il capitalismo italiano può fregiarsi di un simile simbolo, vantarsi di un’operazione altamente schifosa come il cosiddetto «salvataggio» Alitalia. Mettere i debiti, gli esuberi, le vite di 7mila persone, sul groppone degli italiani è tipico di un capitalismo straccione e vigliacco che tende a socializzare le perdite e a privatizzare gli utili. Cosa sarà di quei 7mila disoccupati (che sarebbero stati 2mila con il piano Air France) non è dato sapere. Prima hanno detto che li spedivano alle poste. Poi hanno ventilato un improbabile riassorbimento sul mercato privato, ma non risulta che alcun imprenditore abbia alzato la mano per dire: ehi, io me ne prendo un centinaio! Ora che c’è da far digerire il piano ai media (tanto digeriscono tutto) si dice che i 7mila espulsi saranno garantiti per 7 anni, ma è ovvio che non sarà così, e se sarà così pagherà il famoso debito pubblico. Un altro astuto colpo dei nostri liberisti dei puffi. Hanno dovuto modificare una legge: Silvio chiede e le leggi si riscrivono quasi da sole, una legge ad aziendam.
Divertente assai la mappa dei coraggiosi imprenditori che partecipano alla «cordata». Alcuni vivono di concessioni dello stato: al prossimo rincaro delle tariffe autostradali sapremo chi veramente ha pagato la nuova Alitalia (noi). Altri vengono dal mercato immobiliare (alcuni ci sono entrati ieri), certi che il favore reso al sovrano sulla questione Alitalia si tradurrà in sostanziosi appalti (leggi Expo). Il rischio di impresa viene trasferito sui lavoratori, e gli imprenditori ne sono magicamente immuni: verranno ripagati in favori e privilegi. Al sindacato si punta la pistola alla tempia: o si risolve in un mese o salta tutto ed è colpa tua. Ecco perché Alitalia rimane italiana, perché è un coerente frutto del capitalismo italiano. Quanto a etica, Vallanzasca è messo meglio. Sapete come dice la barzelletta: non dite a mia madre che faccio l’imprenditore in Italia, lei mi crede violinista in un bordello.