25 aprile, Berlusconi: ’’Ci sarò, ma non so dove’’.
Franceschini: ’’Bene, meglio tardi che mai’’
Il premier annuncia: ’’Ho preso la decisione di celebrarlo, anche se dove sarò lo comunicherò più avanti. Di questa festa non se ne appropri soltanto una parte’’. Sul referendum: ’’Credo si farà il 21 giugno. Stiamo decidendo ma non ho ancora avuto il ritorno dei rapporti che Maroni sta avendo con l’opposizione"
Roma, 21 apr. (Adnkronos/Ign) - ’’Ci sto riflettendo’’ aveva detto tre giorni fa in merito alla sua partecipazione alle celebrazioni per il 25 aprile, dopo la sollecitazione arrivata in tal senso dal leader del Pd, Dario Franceschini. E oggi il Cavaliere ha sciolto la riserva. "Ho preso la decisione di celebrare il 25 aprile, anche se dove sarò lo comunicherò più avanti - ha annunciato Silvio Berlusconi - Credo che ci sia bisogno di dire qualcosa, perché di questa festa non se ne appropri soltanto una parte".
Dell’ipotesi aveva già parlato in mattinata il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Paolo Bonaiuti, facendo riferimento però all’episodio ’’molto brutto’’, ricordato da Giampaolo Pansa, che ha visto protagonista il sindaco Moratti, ’’spintonata mentre portava il padre in carrozzella a Milano, nonostante sia un ex partigiano’’. ’’Dobbiamo tenere conto anche di questi estremisti’’, ha rimarcato Bonaiuti.
La decisione del Cavaliere è stata accolta con favore da Franceschini. "Mi fa piacere. Meglio tardi che mai - ha commentato il segretario del Pd - Berlusconi ha avuto altre 14 occasioni da quando è sceso in campo" per celebrare la Festa della Liberazione. "Saprà, siamo certi che saprà - ha aggiunto - che chi va in piazza condivide i valori dell’antifascismo, della Resistenza e della difesa della Costituzione".
Intanto dalle parti di Palazzo Chigi, non trapela nulla. Una cosa però è certa: il presidente del Consiglio non andrà a Milano alla tradizionale manifestazione organizzata dall’Associazione nazionale dei partigiani, dove ci sarà Franceschini.
Il Cavaliere non dovrebbe accompagnare il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che sabato sarà a Montelungo, vicino Cassino. Sicuramente, riferiscono fonti della maggioranza, il capo del governo sarà all’Altare della Patria con le più alte cariche dello Stato (la cerimonia è prevista alle 9 del mattino). L’agenda degli appuntamenti successivi, assicurano le stesse fonti, è tutta da definire.
In queste ore sono circolate varie voci che hanno dato per sicura la presenza del premier in uno dei luoghi ’simbolo’ della Resistenza, ma non c’è nessuna conferma ufficiale a riguardo. Indiscrezioni parlano di una visita al cimitero americano di Nettuno o di un nuovo sopralluogo in Abruzzo nei luoghi colpiti dal sisma: due ipotesi, che restano, per ora, solo opzioni sul tavolo.
Berlusconi oggi è tornato poi a parlare anche del referendum. "Stiamo decidendo - ha spiegato - comunque credo si faccia adesso, immagino il 21, ma non posso dirvi di più perché non ho ancora avuto il ritorno dei rapporti che Maroni sta avendo con l’opposizione".
Sul tema, nel sito, si cfr.:
COSTITUZIONE, LINGUA E PAROLA.....
Populismo selettivo
di Stefano Rodotà *
La democrazia italiana sta correndo il rischio d’essere schiacciata tra il "presidenzialismo assoluto" e il populismo elettronico. È un rischio grave, di cui si dovrebbe essere consapevoli nel momento in cui si parla di aprire addirittura una stagione costituente.
Ed è un rischio reale, come dimostrano in modo eloquente alcuni fatti significativi delle ultime settimane, tra i quali spicca l’alto e severo monito del presidente della Repubblica. Berlusconi non si limita a chiedere una maggiore efficienza dell’azione di governo. Pretende una radicale ridefinizione del ruolo del presidente del Consiglio, con una concentrazione di potere nelle sue mani senza precedenti e senza controlli, alterando, e non riformando, la forma di governo disegnata dalla Costituzione.
Consapevoli o no, Berlusconi e i suoi continuano a muoversi secondo un modello messo a punto negli Stati Uniti nel 1994 da un parlamentare repubblicano, Newt Gingrich, che proponeva un "Contratto con l’America" e il passaggio a un "Congresso virtuale" (collegati elettronicamente, i cittadini avrebbero votato le leggi al posto dei parlamentari). Sappiamo che Berlusconi fece proprio il primo suggerimento, firmando in diretta televisiva il non dimenticato "Contratto con gli italiani".
Ora si indica una strada per delegittimare il Parlamento, già minacciato d’una riduzione ad una sorta di riunione di famiglia di cinque persone, quanti sono i presidenti dei gruppi parlamentari, che voterebbero al posto dei singoli senatori o deputati. Fallito negli Stati Uniti, il modello Gingrich troverà in Italia la sua terra d’elezione?
Cogliamo così il populismo nella sua versione più radicale, che ispira l’azione quotidiana del presidente del Consiglio, che si è da tempo manifestato nell’accorta e totalitaria gestione del sistema della comunicazione e che ora attende il suo compimento finale, con l’accentramento dei poteri nelle mani del primo ministro e un incontro fatale con le tecnologie elettroniche. Di questo modo d’intendere la politica e lo Stato Berlusconi ha dato pubblica testimonianza quando, in apertura del congresso costituente del Popolo della Libertà, ha descritto l’intero costituzionalismo moderno appunto nella chiave, abusiva e inquietante, di una sua radice populista. E l’insofferenza per ogni forma di controllo e per le stesse regole dello Stato di diritto, caratteri tipici del populismo di destra, ritornano ossessivamente nelle più impegnative vicende recenti. Quando Napolitano ha rifiutato di firmare il decreto legge sul caso Englaro, Berlusconi ha minacciato un ricorso al popolo, costituzionalmente improponibile, perché il potere di decretazione fosse attribuito al governo fuori d’ogni controllo.
Viviamo, però, in un clima di populismo "selettivo". Quando esalta la voce del popolo, Berlusconi dimentica del tutto che questa voce si levò nel giugno 2006, quando proprio un referendum popolare bocciò la sua proposta di riforma costituzionale. Quel voto, infatti, viene svalutato imputandolo non ai cittadini, ma alla "sinistra", ai "comunisti". Questo perché si vuole cancellarne l’indubbio significato politico nel momento in cui si cerca di imboccare una strada preoccupante come quella allora bloccata.
Dopo il referendum, infatti, si sottolineò che, evitato lo stravolgimento, la Costituzione aveva bisogno di una "buona manutenzione": esattamente l’opposto di quel che oggi propone Berlusconi, chiedendo in primo luogo d’essere libero da ogni controllo nell’emanazione dei decreti legge e di spostare sul presidente del Consiglio il potere di sciogliere le Camere. In questo modo, però, non si va verso una forma di governo parlamentare razionalizzata, ma verso un primato assoluto dell’esecutivo, anzi di chi lo presiede, che contrasta con il sistema costituzionale vigente.
Dopo aver trasferito la sede del governo a casa propria, ora Berlusconi vuole portare a compimento il suo progetto di privatizzazione delle funzioni di governo trasferendo nello Stato il modello già realizzato per il suo nuovo partito, descritto senza reticenze nell’articolo 15 dello statuto sui poteri del presidente del Pdl: "Ha la rappresentanza politica del partito, e lo rappresenta in tutte le sedi politiche e istituzionali, ne dirige l’ordinato funzionamento e la definizione delle linee politiche e programmatiche, convoca e presiede l’ufficio di presidenza, la direzione e il consiglio nazionale e ne stabilisce l’ordine del giorno. Procede alle nomine degli organi di partito e, d’intesa con l’ufficio di presidenza, decide secondo le modalità previste dallo statuto". Non si poteva trovare una più sincera dichiarazione di autocrazia.
Conosco già alcune risposte. Non si vuole alterare la Costituzione, ma soltanto rendere più efficiente l’azione di governo e più fluidi i regolamenti parlamentari. Non lasciamoci ingannare da queste giravolte. Si dice che, reso più rapido l’iter parlamentare delle proposte del governo, verrà ridotto il ricorso ai decreti legge. Che non è una buona risposta, perché si accetta comunque la pretesa del governo di non sottoporre a controlli adeguati le sue iniziative. E perché ai guasti del presidenzialismo strisciante non si risponde con una sua rassegnata accettazione, ma ripensando gli equilibri istituzionali, partendo da una seria rivalutazione della funzione parlamentare che non può essere affidata alle logore acrobazie di uno "statuto" concesso alle opposizioni (si rifletta sugli effetti della recente riforma costituzionale francese, che ha determinato l’assoluta opacità della legislazione chiusa nelle commissioni parlamentari e il sistematico azzeramento degli spazi di iniziativa legislativa "garantiti" all’opposizione). È tempo di contrappesi forti.
Si torna così al tema della comunicazione. L’ipotesi del sondaggio permanente dei cittadini dà l’illusione della sovranità e la sostanza della democrazia plebiscitaria. È una ipotesi insieme pericolosa e vecchia, se appena si rivolge lo sguardo ai diversi tentativi di far sì che i cittadini, consultati anche elettronicamente, non siano ridotti a "carne da sondaggio", ma possano essere soggetti attivi e consapevoli. Il ben diverso uso delle tecnologie e delle reti sociali da parte di Obama, e non da lui soltanto, dovrebbe indurre a riflessioni meno rozze. Ma delle impervie vie della democrazia elettronica, fuori dal populismo, converrà parlare più distesamente.
* Eddyburg: La Repubblica, 24 aprile 2009
Il presidente e la difesa della Costituzione antifascista
La lezione di democrazia del Presidente
di Jolanda Bufalini*
LA DEMOCRAZIA REPUBBLICANA C’è “la leggerezza negli atteggiamenti con cui si assumono atteggiamenti dissacranti e si tende a mettere in causa un patrimonio di principi che ha costituito per l’Italia una acquisizione sofferta”.
LA CADUTA DEL FASCISMO, LE FORZE ALLEATE, LA RESISTENZA“Avevo 18 anni il 25 luglio del 1943 quando fui raggiunto via radio a tarda sera dalla fulminante notizia della caduta di Mussolini...al fondo vi era una crisi profonda tra il paese e il fascismo, a cominciare dall’andamento disastroso della guerra irresponsabilmente voluta da Mussolini... Torna alla mente l’euforia di quel momento. Avevamo già maturato, insieme ad altri della nostra generazione non solo la più radicale contrapposizione al fascismo ma anche la convinzione, cui non era stato facile giungere, che la salvezza dell’Italia potesse avvenire solo dalla sconfitta ad opera delle forze alleate.....Ma alla fine del settembre 1943, ebbi la percezione diretta della condizione durissima in cui era precipitata la mia città, Napoli, chiamata a vivere l’esperienza dell’occupazione alleata.
LA COSTITUZIONE Napolitano cita i governi di coalizione antifascista, l’Assemblea eletta dal popolo con il mandato di adottare la Carta Costituzionale, il voto alle donne..... “La democrazia italiana rinacque su basi più ampie e più solide e non senza contrasti ma in un processo irresistibile dall’alto e dal basso.... La Costituzione repubblicana non è dunque una specie di residuato bellico ... I valori dell’antifascismo e della Resistenza non restarono mai chiusi in una semplice logica di rifiuto e di contrasto, sprigionarono sempre impulsi positivi e propositivi, e poterono perciò tradursi, con la Costituzione, in principi e in diritti condivisibili anche da quanti fossero rimasti estranei all’antifascismo e alla Resistenza. Perciò il 25 aprile non è festa di una parte sola”.
ISTITUZIONI DI GARANZIA “Rispettare la Costituzione significa anche riconoscere il ruolo fondamentale del controllo di costituzionalità e dunque l’autorità delle istituzioni di garanzia. Queste non dovrebbero mai formare oggetto di attacchi politici e giudizi sprezzanti. Tutte le istituzioni di controllo e di garanzia non possono essere viste come elementi frenanti del processo decisionale, ma come presidio legittimo di quella dialettica istituzionale che in definitiva assicura trasparenza, correttezza, tutela dei diritti dei cittadini”.
POTERI DELL’ ESECUTIVO Spetta ancora una volta al Parlamento pronunciarsi sulla possibilità di procedere sulla revisione della Costituzione, sugli obbiettivi da perseguire, sul grado di consenso a cui tendere....Ma molte cose sono via via cambiate a partire dagli anni ’90 con il crescente ricorso alla decretazione d’urgenza e da ultimo con il rafforzarsi del vincolo tra governo e maggioranza parlamentare, così come con il drastico ridursi della frammentazione politica in Parlamento. Ciò ha indotto uno studioso e protagonista come Giuliano Amato a giudicare “oggi obsoleta la tradizionale constatazione della debolezza del governo nel rapporto con il Parlamento”.
IL FEDERALISMO Condivisa e percorribile è di certo l’ipotesi di una riforma della Costituzione che segni il superamento dell’anomalia di un anacronistico bicameralismo perfetto, il coronamento dell’evoluzione in senso federale, da tempo in atto, come ho ricordato, con la istituzione di una Camera delle autonomie in luogo del Senato tradizionale.
LA DIVISIONE DEI POTERI Il Presidente cita Bobbio a proposito dell’esigenza di tenere sempre ben ferma la validità e irrinunciabilità delle “principali istituzioni del liberalismo” - concepite in antitesi a ogni dispotismo - tra le quali -, “la garanzia di diritti di libertà (in primis libertà di pensiero e di stampa), la divisione dei poteri, la pluralità dei partiti, la tutela delle minoranze politiche”. E sempre Bobbio metteva egualmente l’accento sulla rappresentatività del Parlamento, sull’indipendenza della magistratura, sul principio di legalità. Tutto ciò non costituisce un bagaglio obsoleto, sacrificabile - esplicitamente o di fatto - in funzione di “decisioni rapide, perentorie e definitive” da parte dei poteri pubblici. E mi sarà permesso di richiamare anche il riconoscimento del Capo dello Stato come “potere neutro”, secondo il principio che, enunciato da Benjamin Constant due secoli fa, ispirò ancora i nostri padri costituenti nel disegnare la figura del Presidente della Repubblica.
IL PARLAMENTO Ho egualmente menzionato come essenziale la rappresentatività del Parlamento : a proposito della quale penso si possa dire che essa non viene fatalmente incrinata da regole vigenti in diversi paesi democratici, finalizzate ad evitare un’eccessiva frammentazione politica, ma rischia di risultare seriamente indebolita in assenza di valide procedure di formazione delle candidature e di meccanismi atti ad ancorare gli eletti al rapporto col territorio e con gli elettori.
L’EUROPA L’impegno per l’ulteriore, più conseguente sviluppo dell’integrazione europea è per noi italiani parte essenziale dell’impegno a proiettare nel futuro la nostra Costituzione repubblicana. La prospettiva dell’Europa unita, a favore della quale consentire alle necessarie limitazioni di sovranità, fu evocata nel dibattito dell’Assemblea costituente e fu di fatto anticipata nel lungimirante dettato dell’articolo 11 della nostra Carta.
L’ABRUZZO In queste settimane, dinanzi alla tragedia del terremoto in Abruzzo, l’Italia è stata percorsa da un moto di solidarietà che ha dato il senso della ricchezza di risorse umane - vere e proprie, preziose riserve di energia - su cui il paese può contare, in uno spirito di unità nazionale....Parlo di un rilancio, davvero indispensabile, del senso civico, della dedizione all’interesse generale, della partecipazione diffusa a forme di vita sociale e di attività politica. Parlo di uno scatto culturale e morale e di una mobilitazione collettiva, di cui l’Italia in momenti critici anche molto duri - perciò, oggi, di lì ho voluto partire - si è mostrata capace.
* l’Unità, 22 aprile 2009
Il monito del capo dello Stato sui rischi di derive autoritarie arriva a destinazione
Ma il Cavaliere, che da più di un mese non sale al Quirinale, evita la polemica
Berlusconi: "Napolitano parlava a me"
Ma il premier, ora, non vuole scontri
Il presidente del consiglio tentato da dialogo sulle riforme: "Ma guido io"
di CLAUDIO TITO *
ROMA - "So bene che quelle parole erano rivolte a me. Ma non voglio aprire un fronte con il Quirinale. Non è il momento di un conflitto istituzionale". A Silvio Berlusconi non è certo piaciuto il discorso pronunciato da Giorgio Napolitano a Torino. Il richiamo al rispetto della Costituzione e la citazione di Norberto Bobbio che associava la "denuncia dell’ingovernabilità" a "soluzioni autoritarie" hanno in qualche modo indispettito il presidente del consiglio. Eppure non intende rispondere.
Il Cavaliere è convinto che in questa fase sia indispensabile mantenere un rapporto dialogante con il Colle. "Non subire - è la sua sintesi - ma nemmeno attaccare". Una linea che ieri è stata trasmessa a tutti i "big" del Pdl come una vera e propria parola d’ordine. Un ragionamento fatto anche ai tre coordinatori del Popolo delle libertà convocati ieri sera a Palazzo Grazioli.
A Palazzo Chigi, quindi, preferiscono cogliere esclusivamente gli aspetti considerati positivi. "Alla fine - ha spiegato il premier a tutti i suoi interlocutori - è stato un discorso equilibrato. Anche il capo dello Stato non nega la necessità delle riforme, né l’esigenza di garantire una maggiore governabilità". Non per niente Sandro Bondi, in qualità di coordinatore del Pdl, ha diramato un comunicato per definire "saggio" e "corretto" l’appello di Napolitano. Una nota concordata per filo e per segno con il capo del governo.
Rispetto all’inizio della legislatura, però, qualcosa si è rotto tra il Quirinale e Palazzo Chigi. Dopo lo scontro durissimo sul caso "Eluana" e quello sull’uso dei decreti legge, i rapporti sono stati sempre più formali. Basti pensare che è ormai più di un mese che i due non parlano faccia a faccia. L’ultimo incontro risale al 17 marzo. E si è trattato di un vertice allargato a numerosi ministri per discutere delle scadenze europee. Per non parlare poi della lettera spedita una settimana dopo, il 24 marzo, in cui l’inquilino del Colle metteva nero su bianco le sue osservazioni sull’eventuale "piano casa" varato per decreto. Insomma, il "patto" che era stato sottoscritto tra presidente della Repubblica e presidente del consiglio nella prima riunione dopo la formazione del governo, sembra venuto meno.
Nonostante tutto, però, il premier ha spiegato ai fedelissimi, e ha confermato al sottosegretario alla presidenza del consiglio Gianni Letta, di considerare "inopportuno" uno scontro con Napolitano. "La mia popolarità è ai massimi, alle europee avremo un risultato straordinario - sottolinea - non c’è bisogno di aprire un contenzioso". Soprattutto in questa fase - dopo il terremoto in Abruzzo - in cui si è persuaso della convenienza di un confronto con l’opposizione. "Anche sulle riforme - ripete in tutte le riunioni del centrodestra -. Ma ad una condizione: il dialogo non mi deve essere imposto. Non voglio subire la mediazione della Lega sul federalismo o di An sul resto. Si fa tutto in Parlamento e il dialogo lo guido io". Il riferimento è diretto pure alla sintonia che sistematicamente unisce il capo dello Stato e il presidente della Camera, Gianfranco Fini. Il quale ieri ha fatto sapere di aver apprezzato l’intervento della più alta carica dello Stato. Fini, fanno notare i suoi uomini, "sottolinea costantemente la centralità del Parlamento". Sulle eventuali modifiche alla Costituzione, allora, il Cavaliere ha in mente un metodo ben preciso. L’esempio che ormai si è fatto strada nello staff di Palazzo Grazioli fa perno sui criteri adottati per la data del referendum: concordata tra i gruppi parlamentari con la regia del governo. Su questa scia, allora, non è escluso che alla fine Berlusconi contatti Napolitano nei prossimi giorni. Magari per il 25 aprile.
* la Repubblica, 23 aprile 2009
25 aprile, il premier a Onna
Di Pietro: "La sua solo ipocrisia" *
ROMA - Un omaggio all’Altare della Patria, la mattina presto, e una visita a Onna, il paese dell’Abruzzo maggiormente colpito dal sisma del 6 aprile e teatro di una strage nazista durante l’occupazione. Così Silvio Berlusconi celebrerà il 25 Aprile. Ieri il premier ha confermato di voler per la prima volta partecipare alla Festa della Liberazione. "Così il 25 aprile non sarà una festa di parte".
Ma intanto continuano le polemiche. "Quella di Berlusconi è un’ipocrisia allo stato puro. Non gliene frega nulla di partecipare alla ricorrenza della Liberazione, vuole solo strumentalizzarla ai fini del consenso e questa è una frode", ha detto il leader dell’Italia dei valori Antonio Di Pietro. "Il 25 Aprile - ha aggiunto - rappresenta una data storica seria, che ci ha liberati dal fascismo. Chi pratica, predica e si riconosce nella dittatura, non deve partecipare perché un atto ipocrita e offensivo". Secondo Di Pietro "il governo di Berlusconi e Berlusconi stesso riduce gli spazi della democrazia e pratica attività che ci riportano a una nuova dittatura"
* la Repubblica, 22 aprile 2009.
La Resistenza non ha colore
di GIORGIO BOCCA *
SILVIO Berlusconi, accogliendo l’invito del segretario pd Franceschini, parteciperà per la prima volta al 25 aprile. È una decisione che va giudicata positivamente perché in essa oltre che a un diritto si riconosce il dovere del presidente del Consiglio di celebrare assieme a tutti gli italiani la festa della Liberazione e i valori della Resistenza, dell’antifascismo e della Costituzione. Ma quando aggiunge che lo farà perché di questa festa non se ne appropri soltanto la sinistra il premier rivela di essere ancora lontano da una autentica maturità democratica e storica. Più fallace di lui si dimostra il ministro della Difesa Ignazio La Russa.
La Russa, uno dei neofascisti sdoganati da Berlusconi, dichiara che "i partigiani rossi meritano rispetto ma non possono essere celebrati come portatori di libertà", cioè fra i fondatori della democrazia italiana. È difficile capire su cosa si basi l’affermazione di La Russa dato che il Partito comunista italiano che organizzò e diresse i partigiani rossi, meglio noti come garibaldini, fece parte e parte decisiva dell’Assemblea costituente da cui è nata la Repubblica democratica.
Che i comunisti italiani abbiano scelto la democrazia invece che la dittatura potrà sembrare ai loro avversari una scelta opportunistica, obbligata dai rapporti di forza in Europa e nel mondo ma si prenda atto anche da chi avrebbe preferito un esito diverso che essa ci fu e fu per i comunisti italiani vincolante. Gli storici non hanno ancora fornito la prova di chi fu la responsabilità di questa scelta: se fu decisa da Stalin o dalla Internazionale comunista di cui l’italiano Palmiro Togliatti era un autorevole dirigente, ma l’accettazione da parte comunista della divisione del mondo in due sfere di influenza fu un dato di fatto accettato sin dagli anni della guerra di Spagna, riconfermato nell’incontro fra i vincitori della guerra contro la Germania nazista e rispettato anche dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria.
Fosse interprete del pensiero politico di Stalin o convinto della necessità di convivere con le grandi democrazie occidentali Togliatti, arrivato in Spagna durante la guerra civile, dettò i tredici punti di una costituzione che sarebbe entrata in vigore a guerra finita di chiara impostazione democratica: autonomie regionali, rispetto della proprietà e della iniziativa privata e dei diritti civili, libertà di coscienza e di fede religiosa, assistenza alla piccola proprietà, riforma agraria per la creazione di una democrazia rurale, rispetto delle proprietà straniere non compromesse con il nazismo, ingresso della Spagna nella Società delle nazioni. Naturalmente già allora gli avversari dei comunisti dissero che era una scelta tattica in attesa della rivoluzione, ma una scelta vincolante come si dimostrò in Grecia quando i partigiani rossi di Markos e il loro tentativo di impadronirsi del potere furono abbandonati alla più dura sconfitta. Che la scelta democratica fosse valida nella Repubblica fu chiaro quando tutte le fiammate rivoluzionarie della base comunista, dall’occupazione della prefettura di Milano a quella del monte Amiata dopo l’attentato a Togliatti, furono spente dalla polizia diretta da Scelba senza reazione del partito.
Possiamo dire che le affermazioni di La Russa sull’inaffidabilità democratica dei partigiani rossi sono un processo alle intenzioni smentito dal rispetto alla Costituzione dei comunisti italiani, che al contrario dei neofascisti alla Borghese o delle trame nere, non hanno mai progettato colpi di Stato e si sono schierati con decisione contro il terrorismo delle Br. Ma c’è un’altra ragione, anche essa storica, per dissentire dalla dichiarazione di La Russa ed è quella di considerare il movimento partigiano garibaldino come un tutt’uno con il partito comunista e il partito comunista come la stessa cosa di una dittatura stalinista. Procedere per generalizzazioni arbitrarie è un cattivo modo di fare la storia e anche la politica.
Chi ha conosciuto il movimento partigiano nella sua improvvisazione e varietà estrema sa bene che diventare un partigiano rosso non era sempre una scelta politica, ideologica, che si andava nelle brigate Garibaldi per molte ragioni non politiche, perché erano fra le prime formatesi o le più vicine, le prime che si incontravano fuggendo dalle città occupate dai nazifascisti magari per raggiungere dei conoscenti, degli amici. Si pensi solo al comando garibaldino piemontese, che si forma in valle Po con gli ufficiali di cavalleria della scuola di Pinerolo che seguono Napoleone Colajanni, nome partigiano Barbato, perché loro amico non perché comunista, o gli altri che in Val Sesia vanno con Cino Moscatelli perché è uno della valle come loro non perché è comunista.
Così come noi delle bande di Giustizia e Libertà nel Cuneese che non avevamo mai sentito parlare del partito di azione e del suo riformismo liberal-socialista, ma che eravamo compagni di alpinismo di Duccio Galimberti o Detto Dalmastro. Nella guerra partigiana prima veniva la sopravvivenza, la ricerca delle armi e del cibo, poi sul finire arrivò anche la politica, ma le ragioni di lealtà e di amicizia restarono dominanti per cui egregio ministro La Russa mi creda ma per uno che è stato partigiano le differenze di cui parla non ci sono state. Per venti mesi, per tutti, la ragione di combattere era la libertà.
* la Repubblica, 22 aprile 2009
La scelta di Fini: è la festa di tutti senza se e senza ma
«L’idea giusta di nazione sconfisse il fascismo» E Bertinotti: vince il valore dell’uguaglianza Il presidente della Camera scrive per il nuovo giornale di Sansonetti: ma è da condannare la scia di sangue dopo il ’45
di Gianna Fragonara (Corriere della Sera, 22.04.2009)
ROMA - «Il 25 aprile è di tutti gli italiani». Parola di Gianfranco Fini che in un lungo articolo spiega come sabato prossimo debba essere «la festa della libertà di tutti gli italiani, senza ambiguità, senza reticenze, senza ’se’ e senza ’ma’». Il presidente della Camera, che già aveva parlato dell’antifascismo come valore ai tempi della svolta di Fiuggi, sceglie di scrivere ora le sue considerazioni sul 25 aprile su «l’Altro», il nuovo giornale diretto da Piero Sansonetti (che ha lasciato Liberazione dopo la scissione dei bertinottiani da Rifondazione) che sarà in edicola dal primo maggio, ma pubblica un numero zero speciale per le celebrazioni del 25 aprile.
Una scelta che dista anni luce dalla polemica di queste settimane che vede coinvolti Ignazio La Russa e Fabrizio Cicchitto da una parte e Antonio Di Pietro, Paolo Ferrero e Paolo Cento dall’altra. E forse non è un caso se nella sua analisi sulla Liberazione, la Resistenza e la guerra civile 1943-45, Fini non risparmia giudizi taglienti sull’oggi, sullo stato della democrazia, in un momento storico in cui si nota «un certo abbassamento della tensione morale» e un «affievolimento delle passioni civili» che rischia di indebolire «gli istituti di libertà».
Ma è sul passato che Fini si sofferma: il suo articolo, che compare sotto una bandiera della pace e a fianco di un intervento di Fausto Bertinotti (che propone come cifra della commemorazione il valore dell’eguaglianza), si concentra sulla stagione della guerra civile, «che fu tale non solo perché vide gli italiani combattersi su fronti opposti, o perché fu caratterizzata da innumerevoli efferatezze e crudeltà, non solo perché produsse lacerazioni profonde nel Paese». Fu guerra civile perché fu scontro «frontale tra due diverse idee di nazione», si legge nel passaggio più forte del presidente della Camera: «L’una - argomenta Fini - nutrita dal nazionalismo fascista conduceva all’espansionismo, al razzismo e all’annullamento dei diritti dell’uomo. L’altra, indissolubilmente legata ai valori della libertà e della democrazia, portava alla costruzione di una nuova stagione di progresso civile per l’Italia. E non c’è dubbio che l’idea ’giusta’ fosse la seconda », perché «da allora non fu più possibile pensare la Patria separatamente dalla democrazia ».
Certo Fini, prima di insistere sul valore di Patria nel dopoguerra, non risparmia una critica alla «scia di sangue dell’immediato dopoguerra» sulla quale proprio «la parte consistente delle forze che si sono richiamate all’antifascismo » non hanno voluto riflettere: «C’erano formazioni che videro il conflitto fascismo- antifascismo più come lotta di classe che come battaglia per la libertà della nazione », scrive ricordando quello che disse a Fiuggi: «Tutti i democratici erano antifascisti ma non tutti gli antifascisti erano democratici». E citando Carlo Azeglio Ciampi, lo storico Claudio Pavone, Piero Fassino e anche Vittorio Emanuele Orlando nel suo intervento alla Costituente, conclude: «Non ha senso oggi strumentalizzare il 25 aprile nella polemica politica».
Undicietrenta
25 aprile, il balletto delle dichiarazioni inopportune
di Roberto Cotroneo *
Siamo alle solite, al passato che non passa. Mancano quattro giorni al 25 aprile, e come ormai accade da qualche anno, ricomincia il balletto delle dichiarazioni inopportune, fuori luogo, e persino gratuite. Un paese diviso, diviso per molti anni sottotraccia, senza che fosse mai resa esplicita questa divisione, deve ricominciare a fare i conti con il giorno della liberazione. Il ministro della difesa Ignazio La Russa, ha dichiarato: «I partigiani rossi meritano rispetto, ma non possono essere celebrati come portatori di libertà». È una dichiarazione provocatoria che riporta ogni volta l’orologio della storia indietro, una incrostrazione che è dura da cancellare. E che cancella persino quella ipotetica fusione tra Forza Italia e Alleanza Nazionale che chiamiamo Pdl. Una dichiarazione imbarazzante e sentita. E anche fortemente imprecisa. Perché intanto dà una connotazione alla resistenza, decidendo che i partigiani erano “rossi”, ma è solo parzialmente vero.
Chiunque abbia studiato, non dico da ricercatore o da storico, ma anche soltanto da studente delle scuole medie inferiori, sa bene, che la resistenza ebbe varie componenti: azioniste, riformiste e naturalmente cattoliche. E che la resistenza non fu soltanto rappresentata e combattuta dalle Brigate Garibaldi.
Il dibattito storiografico di questi anni, è vero, ha tolto di mezzo anche molte ipocrisie sulla guerra di resistenza, e Claudio Pavone, in un suo saggio esemplare, ci ha fatto capire ormai che si è trattata, nel dolore di un periodo oscuro e controverso, di una guerra civile. Nessuno nega che anche nella guerra partigiana accadero episodi e fatti condannabili.
Ma la resistenza fu una guerra civile combattuta da italiani che stavano dalla parte giusta, e italiani alleati dei nazisti che stavano dalla parte sbagliata. E la parte sbagliata era rappresentata da ragazzi che combattevano con l’esercito tedesco e le Ss, mentre dall’altra parte c’erano uomini diversissimi che combattevano al fianco delle più importanti democrazie occidentali.
Per quanto dovremo ascoltare ancora frasi a sproposito di questo genere? Quanto ancora quel sottile fascismo eterno dovrà sopravvivere nelle pieghe ideologiche del nostro paese? Per quanto tempo ancora dovremo stupirci che valori condivisi da sempre debbano essere messi in discussione? E perché mai un ministro della Repubblica deve mettere sullo stesso piano giovani che partecipavano ai rastrellamenti tedeschi, con altri che volevano un paese libero?
La Costituzione Italiana, una delle migliori Costituzioni del mondo, è figlia della resistenza. Potremo una volta per tutte, trovare un accordo, e del buon senso storico, e celebrare il 25 aprile come è giusto celebrarlo, senza miopie, e senza ignorare anche quel sangue dei vinti, che fu comunque una tragedia per questo paese?