ANTIFASCISMO INCHIESTE
PRETI , GIUDICI, FASCISTI E MAFIA NELLA CALABRIA DEGLI ANNI 70 *
Dal libro “AFRICO Una cronaca italiana di governanti e governati, di mafia, di potere e di lotta” di Corrado Staiano del ’79, riportiamo alcuni passaggi che ci fotografano la realtà calabrese negli anni 70:
......”Ad Africo le antiche lotte degli anni ’50 sono passate, in una continuità naturale in eredità ai figli. i giovani del Circolo rivoluzionario e poi del collettivo autonomo operai e studenti si sentono protagonisti, provocano subito reazioni perché distruggono le regole del gioco e infastidiscono anche i partiti della sinistra tradizionale.
Testimonianza di Rocco Palamara “............Continuammo le lotte di sempre, l’occupazione dei binari della ferrovia per conquistare la stazione, le lotte per la forestale, per i cantieri boschivi, per le raccoglitrici di gelsomini, per il doposcuola gratuito per i bambini, per la casa. L’amministrazione, comunista fino al 1969, fu conquistata nel 1970 da una lista civica costituita in gran parte da mafiosi che qui si dice ‘ndrangheta , la società dei dritti, che sarebbe la mafia calabrese, e da lacchè. C’erano state proteste e scontenti per la precedente amministrazione comunista : le forze più sane dei compagni sono costrette da sempre ad emigrare buona parte dell’anno e molti , in occasione delle votazioni, non tornarono per protesta. Pure io che mi trovavo a Milano a lavorare non sono tornato a votare. Hanno vinto per pochi voti ,credo sette, e molti imbrogli: votarono una ventina di suore venute da fuori , ci furono sulle famiglie pressioni di genere mafioso. Tutto il peso della lotta , ormai, era sostenuto dal circolo ............................................................................
Il primo motivo di scontro con il Comune fu a proposito dell’acqua: saltata la vecchia rete idrica, i tubi erano scoperti, una ditta romana faceva da copertura a un’altra ditta di casa e non iniziava i lavori . C’era pericolo di epidemia e noi denunciammo ciò che stava accadendo , attaccammo il prete --- don Giovanni Stilo che muoveva tutti i fili. nda --- , la giunta comunale, la mafia, invitammo la popolazione allo sciopero. La nostra protesta fu considerata inaudita . Il Pci non l’aveva mai fatto. I mafiosi reagirono prendendo di mira i più giovani di noi e minacciando i genitori per convincerli a stare lontano dal circolo. Stampammo dei manifesti di denuncia e li incollammo nei muri del paese. ......... quella notte tutti i manifesti furono strappati e la sede del circolo bruciata. Qualcuno vide i mafiosi che appiccicavano il fuoco , noi stampammo altri manifesti facendo i nomi dei responsabili. Non successe niente , i carabinieri non fecero niente , come sempre. Continuò la schermaglia di minacce per cercare di smantellare il circolo ricostruito subito dopo con una colletta alla quale contribuirono anche i militanti del Pci.”
“ L’11 ottobre 1970, alle 10 di sera , ero seduto sullo scalino di casa con mio cugino Salvatore Palamara e fui aggredito da tre persone seguite però da una decina di altre persone , una specie di processione di mafia. Erano venuti correndo , il primo si gettò su di me , il secondo lanciò pietre per colpirmi , il terzo sparò subito addosso a Salvatore che cadde ferito da tre colpi alle gambe . un colpo forò la porta di casa mia , un altro ruppe lo scalino. Io sono intervenuto in difesa di mio cugino , ho sparato anch’io con la pistola , ho ferito due aggressori , uno alla pancia , uno alla spalla e ho fatto scappare via gli altri. Avevo sparato con una 6,35 , gli altri con una 7,65: era facile decifrare i fatti dai differenti calibri delle pistole usate . Anche i carabinieri dissero che prima erano stati sparati gli altri colpi e poi i miei . Io venni interrogato perchè ero andato ad accompagnare mio cugino all’ospedale : non dissi nulla , ci siamo portati tutti negativi. Ma in seguito mio cugino fece i nomi degli sparatori . li avevamo visti bene perché ci eravamo scontrati corpo a corpo : questa decisione fu presa dopo una discussione famigliare , su pressione dei nostri parenti. E’ una cosa inconsueta nella tradizione del paese , almeno che non ci siano omicidi evidenti, fare i nomi ai carabinieri . Ma poiché si sostiene sempre che non si riesce a debellare la mafia perché esiste l’omertà , quella volta si decise: “ Se è solo per questo , allora ecco i nomi” . Anch’io ho raccontato quello che è successo ...................................................
Un mese e mezzo dopo , nel novembre 1970 - era una domenica mattina - camminavo con due amici in una strada del centro del paese quando ho visto un ombra alle mie spalle . Capisco qualcosa , salto di lato e la scarica di pistolettate và a vuoto.”
“Una settimana dopo vengono i carabinieri,.....e ci arrestano, io, Bruno e Gianni, i miei fratelli gemelli che allora avevano diciassette anni , e mio cugino Salvatore , di soli 16 anni , quello ferito davanti alla porta di casa e che era ancora ingessato e poi arrestano anche Salvatore Barbagallo , marito di una mia sorella. Ci portano in carcere a Locri , Gianni e mio cognato vengono rilasciati dopo 15 giorni , restiamo dentro io , mio cugino e mio fratello Bruno. Ripetiamo i fatti come sono andati , citiamo i testimoni .........................Veniamo incolpati della prima aggressione: citiamo i testimoni, chiediamo il sopralluogo. Il giudice se la prende comoda con i testimoni: comincia a interrogarli dopo tre mesi e finisce dopo sei mesi.”
“Perché si è fermato tanto per interrogarli ? Perché uscissero gli indiziati per la strage del mercato di Locri , uno dei quali , Giuseppe Morabito , detto “ tiraddritto” ..... oltre che amico del prete , è fratello di Leo Morabito , uno di quelli che ci hanno assalito. Si è voluto attendere che uscissero di prigione , in modo che tanti che avrebbero testimoniato , vedendoli dopo tutto quel baccano che era stato fatto , si sentono scoraggiati : “ allora la legge non garantisce niente” , hanno detto e non hanno dato più la testimonianza.
Le testimonianze che c’erano, però, potevano già bastare . Queste testimonianze dicono infatti che Bruno non c’era , che quelli sono venuti correndo verso casa mia : spiegano insomma la dinamica dell’aggressione. Ma io vengo ugualmente accusato di tentato omicidio. Mio fratello e mio cugino “per appoggio morale alla volontà dello sparatore”....Ci hanno arrestato il 2 novembre , hanno chiuso l’istruttoria ad aprile : Noi pensavamo che nove mesi dopo l’arresto ci avrebbero processato : va bè , facciamo altri tre mesi , poi al processo le cose risulteranno evidenti: invece si creano altri imbrogli , malgrado l’istruttoria sia finita la causa non viene mandata a ruolo. Questo significa aspettare altri nove mesi ............................................................”
...” Quando ho saputo che il processo sarebbe stato rinviato a nuovo ruolo , ho deciso di scappare e , tempo una settimana , sono scappato dal carcere. Non ho avuto aiuti da nessuno : una notte sono uscito dalla cella , ho passato un’altra porta ancora e sono arrivato al cortile. Ho scalato i muri di cinta e me ne sono andato. Mio fratello e mio cugino, minorenni , erano già stati trasferiti nel carcere minorile di Reggio e hanno dovuto rimanere dentro." E’ l’autunno del 1971 ....”
“ Anche sulla costa Jonica sono gli anni della protesta dei giovani, delle manifestazioni, delle scritte sui muri e queste scritte accusano don Stilo, la cui figura và aldilà di Africo e diventa il simbolo di un mondo arcaico da abbattere ....................................................................................... la nuova generazione scende in piazza e la passione e la rabbia non sono né ambigue né manovrate , ma rappresentano un modo dimenticato di intendere l’opposizione: Chiedere la libertà per Rocco Palamara vuol dire anche chiedere che la giustizia funzioni, che sia uguale per tutti , che non si presti a giochi oscuri, che non sia l’eterno braccio secolare della classe dominante. Migliaia di giovani stanno formandosi alla politica , sia pure nella forma più elementare della manifestazione e dello slogan .....
Non è una protesta individuale o di pochi fuorviati , ma una protesta di massa : i cortei che passano per i viali di oleandri dei paesi della costa sembrano modesti se raffrontati ai cortei di quegli stessi anni delle città industriali, ma ogni giovane , con un cartello , uno striscione o uno slogam rappresenta una famiglia : porterà a casa un nuovo modo di pensare , romperà schemi secolari di giudizio , riuscirà forse a far discutere e a dubitare i padri e le madri , a distoglierli dalla mentalità corrente ed è proprio questo che l’autorità costituita teme.” .....................................................................................
“Rocco Palamara negli interrogatori in carcere accusa i suoi aggressori di essere mafiosi e accusa don Stilo di esserne la mente. “Definendoli mafiosi intendo dire che essi fanno parte di una organizzazione che fa capo a don Stilo, così come si dice in paese. Detta organizzazione si avvale della mafia per raggiungere i suoi scopi, nel senso che don Stilo si serve dell’organizzazione per togliere di mezzo i suoi nemici, mentre l’organizzazione si avvale delle relazioni di don Stilo per la necessaria protezione”
“Il 30 aprile 1971 si svolgeva a Locri una manifestazione di solidarietà con Rocco Palamara: i giovani - da Africo sono venuti i compagni del Collettivo - stanno dirigendosi in corteo verso il carcere gridando i loro slogan - “La mafia che spara non ci fa paura la lotta sarà sempre più dura”; “Col calice e la lupara si perseguitano i Palamara” quando i carabinieri caricano: c’è qualche fermo , si aprono polemiche e dibattiti che smuovono il chiuso mondo dei paesi. Il sostituto procuratore della Repubblica di Locri, Guido Neri, nella sentenza in cui chiede al giudice istruttore il rinvio a giudizio di Palamara e dei suoi aggressori per la sparatoria d’avanti alla casa dell’anarchico, scrive: ”Va condannato l’episodio disgustoso cui hanno dato vita un gruppo di studenti del liceo scientifico di Locri i quali hanno inscenato una manifestazione di solidarietà con i Palamara come se, anziche delinquenti comuni che , come tali, meritano una giusta punizione , si trattasse di uomini da emulare , di esempi viventi di onestà e di purezza da difendere pubblicamente , perché vittime di ingiustizia altrui .......................................”
LE CONCLUSIONI DEL PROCESSO: Il processo fu celebrato a Locri dopo 18 mesi dall’arresto, tutti trascorsi in carcere da Buno e Salvatore. La sentenza fu per loro due di “ASSOLUZZIONE ” ( !!!) : Bruno “ per non aver commesso il fatto” e Salvatore , con il ”perdono giudiziario” !
Rocco, processato in contumacia , venne condannato a 18 mesi . Quindi, avendone scontato solamente 9, dovette rimanere latitante.
Alla lettura della sentenza i “Ragazzi di Locri” di allora , presenti in gran numero , hanno protestato , quindi sono stati caricati dalla polizia che ne ha fermati o arrestati sette o otto ....Così andavano le cose in Calabria....
Tra i responsbili di così tanta “giustizia” il PM. Guido Neri, farà gran carriera ( fino a diventare Procuratore Generale presso la corte di appello di Reggio Calabria ) prima di cadere un pò in disgrazia in tempi relativamente recenti . Francesco Frammartino, allora Giudice Istruttore, ha anch’esso fatto gran carriera nella magistratura , a Locri..... .... Speriamo che viva ancora a lungo affinché nella condizione senile possa trovare la risorsa morale per potersi vergognare e pentirsi .
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ED ANCORA DA UN ARTICOLO DELL’UNITA’ FIRMATO DA AMENDOLA E RIPRESO SUL SITO
http://www.giuseppemorabito.it/africo/index.html
Corrado Stajano (Africo, Ed. Einaudi, 1979, lire 300), in un racconto commosso ed appassionante, ci da ora la storia di quel comune, una cronaca italiana, egli dice, di governanti e di governati, di mafia, di potere e di lotta.
L’iniziativa illuministica di Zanotti Bianco aveva permesso di risolvere alcune piccole questioni: un’attenuazione delle tasse sulle capre, una riduzione delle superfici boschive vincolate, la costruzione di due passerelle sul torrente. Ma erano aiuti venuti dal di fuori, da un signore che sembrava un “inglese” e che raccoglieva denaro tra aristocratiche benefattrici. Ci vuole la guerra a svegliare gli animi. Ma una preparazione era già stata avviata da un ex carcerato, Salvatore Maviglia, condannato per omicidio, divenuto in carcere anarchico.
A Turi di Bari aveva conosciuto Gramsci, e riferiva dei discorsi che egli aveva sentito e che forse circolavano in carcere. Aveva frequentato la scuola carceraria per analfabeti, aveva letto molto, era tornato ad Africo con una cravatta nera. Divenne un capo del popolo, che a lui si rivolgeva per avere consigli e giustizia.
Il 2 giugno 1946 la Repubblica raccolse ad Africo pochi voti. Il parroco don Stilo riuscì a convogliare tutti i voti a favore della monarchia. Ma si era costituita la Camera del Lavoro, la sezione del PCI e poi quella del PSI. Cominciò la lotta tra le sinistre unite PCI e PSI, e la DC, tra il vecchio anarchico Salvatore Maviglia, diventato comunista e segretario della Camera del Lavoro, e don Stilo, il parroco intraprendente e faccendiero.
Stajano illustra le fasi di questa battaglia che si prolunga con alterne vicende, attorno a vicende, attorno a questioni concrete del bilancio comunale, delle iscrizioni alle liste di collocamento, delle esecuzioni dei lavori pubblici. La lenta organizzazione della vita civile e della lotta politica fu sconvolta dall’alluvione del 1951. Una frana spazzò via il paese. I morti furono pochi, ma Africo scomparve.
La storia della ricostruzione è allucinante. Per tutto un decennio gli africoti cercarono il terreno per ricomporre la loro comunità. Si iniziò una lotta tra chi voleva tornare nel vecchio territorio, dove erano restate le misere proprietà, e quelli che cercavano una sistemazione nuova. La scelta di una soluzione divise i due campi, anche la sinistra. Alla fine prevalse la tesi, sostenuta da don Stilo e dalla DC, di costruire un nuovo comune in una località distante 50 chilometri dal vecchio paese. Per lunghi anni la maggioranza degli africoti visse in un campo profughi. All’’inizio del 1960 era sorta Africo nuovo.
La costruzione di un paese nuovo (case, strade, opere di sistemazione dei torrenti) e la vendita dei beni avevano favorito lucrose possibilità di intervento alla mafia.
Ma nella lacerazione dei vecchi rapporti gli africoti avevano incominciato a mangiare. Il sussidio distribuito ai profughi era superiore al poco che prima ricevevano dal duro lavoro. La ricostruzione aveva offerto possibilità di occupazione.
La Forestale aveva moltiplicato le assunzioni, anche per il breve periodo che dava diritto alla riscossione dei sussidi di disoccupazione. Le pensioni, concesse a vario titolo, e le rimesse degli emigranti, portarono nel paese denaro fresco. Ed in queste vicende mutarono i rapporti di forza. L’economia assistenziale si è incrementata, per iniziativa della DC, ma sotto la pressione dei lavoratori. Crebbe, così, lentamente, la forza della sinistra. L’11 giugno 1967, il PCI, alleato col PSIU, ottiene, 673 voti.
E’ un braccio di ferro tra PCI e DC, mentre sempre più aperto diventa l’intervento armato della mafia. Il figlio di salvatore, Francesco Maviglia, diventa a sua volta segretario della Camera del Lavoro.
E’ una lotta che si svolge nel concreto delle questioni locali, mentre sul piano meridionale continua, anche se con fasi alterne, l’ascesa del PCI. I socialisti perdono terreno negli anni del centro-sinistra, che appare continuatore della vecchia politica democristiana. Ma la lotta condotta dal PCI appare troppo lenta ad un gruppo di giovani accesi dal miraggio di Mao.
Nel 1968 la contestazione arriva ad Africo. Un gruppo di giovani lascia la Federazione Giovanile Comunista Italiana e si organizza in un collettivo. Il figlio di un fornaio di Africo, emigrato nel Nord, Rocco Palamara, torna al paese e diffonde le idee del gruppo estremista “Servire il popolo”. L’attacco è portato al PCI, denunciato come revisionista. Nelle elezioni del 1970 i comunisti debbono per pochi voti lasciare la direzione del Comune ad una lista unica, dominata dalla mafia. I voti che mancano sono quelli dei giovani estremisti.
Stajano riferisce con evidente simpatia le gesta del piccolo gruppo estremista. Ciò dipende dal fatto che il collettivo fu preso di mira dalla violenza mafiosa e dalli persecuzioni poliziesche giudiziarie subite da Rocco Palamara (aggredito, arrestato, evaso, nuovamente arrestato) e dai suoi compagni. Finché la mattina del 19 febbraio 1975 Rocco Palamara, venne gravemente ferito in un agguato mafioso. E’ costretto, poi, per curarsi, a lasciare Africo. Lo hanno seguito i fratelli. Ad Africo è restato il PCI, a continuare la sua battaglia, adesso rivolta apertamente contro la mafia.
Nelle elezioni del 1976 il PCI raccoglie 927 voti, il PSI 165 voti, Democrazia proletaria 51 voti, i radicali 4 voti, il PSDI 15, il PRI 7, il MSI 44. Ma nel referendum dell’11 giugno 1978 il “si” per l’abrogazione di tutte e due le leggi (sul finanziamento ai partiti e sulla legge Reale) vince largamente. Stajano indica come dopo le elezioni del 1975 la repressione contro i comunisti “sia ricominciata in modo massiccio ed organizzato, a dare torto a chi toglie importanza alla conquista di un comune da parte del PCI”.
A Gioiosa Ionica, dove i “no” nel referendum del giugno 1978 sono stati in maggioranza, il sindaco, il comunista Modafferi, promuove una vasta mobilitazione popolare contro la mafia, condotta a viso aperto, anche dopo l’assassinio di Rocco Gatto, mugnaio comunista. Le conclusioni di Stajano sono amare. Secondo il suo parere don Giovanni Stilo ha vinto, anche se sulla torretta del municipio sventola la bandiera rossa.
Eppure la realtà è cambiata: “le bombole a gas in tutte le case, i 608 bagni su 778 abitazioni, il gabinetto in tutte le altre, i 123 telefoni, le 180 automobili, i 560 televisori e gli altri elettrodomestici”, non avrebbero mutato molto il costume, dice Stajano. Ma come è possibile? Il vecchio pane è scomparso dalle mense degli africoti. Il mutamento delle condizioni di vita non è dipeso da una trasformazione produttiva, da una riforma agraria, dalla industrializzazione, ma dall’estensione di un’economia assistenziale.
Il miglioramento delle condizioni di vita non è contestabile, ma esso non ha fiaccato la forza del movimento operaio, guidato dal PCI, anzi ne ha rafforzato le capacità di lotta. Nei piani della DC l’economia assistenziale doveva servire ad isolare e battere i comunisti senza attuare le riforme necessarie. Invece il PCI è andato avanti, perché ha saputo, nelle lotte quotidiane, porre obiettivi concreti di lavoro, di giustizia, di democrazia. Ci sono stati, certamente, ritardi, errori, incapacità a legare la soluzione dei problemi immediati ad una più generale prospettiva di rinnovamento del mezzogiorno. Ma il PCI appare, sempre, la forza di progresso più consistente, capace di durare e di crescere nel tempo, e di superare anche momenti di riflusso, perché è l’espressione stessa della maggioranza dei lavoratori. (Giorgio AMENDOLA - L’Unità, 11/2/1979)
* Fonte: PUGLIA ANTAGONISTA - ANTIFASCISMO INCHIESTE
Per approfondimenti, nel sito, documenti e materiali sul tema:
ITALIA: LA NOSTRA PATRIA E’ LA LINGUA, NON LA TERRA NON IL SANGUE.
Cinema. Nella Calabria di Calopresti: «Così i più poveri aprono la strada»
Nel film “Aspromonte, la terra degli ultimi” il regista racconta il riscatto di una comunità: «La ricchezza e l’umanità di chi vive una povertà felice. E può cambiare il mondo»
di Emanuela Genovese (Avvenire, giovedì 4 luglio 2019)
La terra è terra. Appartiene a tutti. Eppure non sembra essere di tutti. Negli anni ’50 quando ancora era abitato Africo, un paesino dell’Aspromonte, la popolazione aveva tutto, ma non sempre aveva il necessario. Come il medico. Da questo particolare indispensabile prende vita Aspromonte, la terra degli ultimi, il film di Mimmo Calopresti presentato martedì sera al Taormina Film Fest.
Gli ultimi del titolo sono gli abitanti di Africo che decidono di non attendere ulteriormente le decisioni del sindaco e iniziano a costruirsi la strada principale. «Il nostro è un film di terra e sulla terra», spiega Calopresti. «Racconta un altro luogo verso cui è possibile andare, ma è possibile farlo tramite una strada, che si deve costruire. L’idea della strada è un’idea mistica, come la definirebbe Fulvio Luciano, il produttore che ha voluto questo film, dedicato alla Calabria».
Incominciamo dagli ultimi.
Per realizzare questo lungometraggio siamo partiti dall’idea di povertà felice. Si rischia di pensare che gli ultimi siano sfortunati perché non hanno niente. Ma i poveri, che hanno bisogno dell’essenziale, hanno molto da dare. Il loro modo di stare al mondo interroga la nostra esistenza.
Nella sua filmografia c’è un fil rouge che unisce le storie di finzione e i documentari: riserva sempre attenzione a chi non ha niente, a chi è contento di quello che ha pur cercando di migliorare la sua vita.
Sono figlio di immigrati che hanno lasciato la propria terra per cercare un benessere semplice e necessario. Gli ultimi sono spesso percepiti come un problema, ma il mio cinema racconta le persone, che non si identificano solo con i problemi che vivono, ma sono quel qualcosa in più che conduce all’amicizia, alla paternità, all’amore. L’universo degli esseri umani è enorme. Ogni persona è quello che è e deve cercare di esserci in questo mondo: il cinema offre la possibilità di raccontarsi, di esistere. Questa è un principio di democrazia, quella vera che non impone l’uguaglianza, che non crea masse di persone che devono seguire la stessa direzione.
Nel film c’è un cameo di Fulvio Lucisano, uno dei nostri prolifici produttori che, negli ultimi anni, ha realizzato molte commedie. È il primo film che realizza con la sua società di produzione.
Ci conosciamo da anni, da quando nel 2000 girai Preferisco il rumore del mare e mi chiamò per complimentarsi. Un giorno mi sono imbattuto nel libro di Pietro Criaco, Via dall’Aspromonte. Gliel’ho fatto leggere e lui mi ha richiamato subito. È difficile imbattersi in belle storie e questa è una di quelle. Come autore compio un passo indietro rispetto al racconto: è una storia importante che prima di tutto serve a me, come uomo, per poter guardare il mondo e capire cosa succede oggi. Provo a raccontare la verità di quella terra e posso dire che ho compiuto una ricerca quasi biblica per realizzare questo film.
Ha scelto un cast di attori quasi tutti provenienti dalla Calabria, come Marcello Fonte, il protagonista di Dogman che proprio a Cannes, dopo aver vinto il premio alla migliore interpretazione, parlò della sua Calabria.
La lingua determina la nostra esistenza: è difficile trovare attori capaci di duplicare il dialetto calabrese. Marcello Fonte interpreta Ciccio Italia, detto “U poeta”. Lui rappresenta quel mondo che è protagonista del film. Fonte è stato molto importante per me e anche per i bambini, che fanno parte della storia: è molto generoso ed è un grandissimo attore. Mi è sembrato di avere sul set Charlie Chaplin. Davanti alla macchina da presa il suo sguardo ha una semplicità, che non è facile da raggiungere. Sono contento che andrà presto in America perché è stato scelto per girare una fiction con Mark Ruffalo ( I Know This Much is True diretta da Derek Cianfrance, ndr).
Nel film c’è anche Valeria Bruni Tedeschi, la maestra che viene dal Nord.
In questo film Giulia, il personaggio di Valeria, rappresenta la luce su Africo. Alla fine delle riprese lei mi ha ringraziato per le scene che ha interpretato: il ruolo l’ha aiutata a comprendere che l’insegnamento era davvero il suo sogno di tutta una vita.
Dove avete girato il film?
Abbiamo ricostruito Africo a Ferruzzano, in provincia di Reggio Calabria. Sarebbe stato bello girare tutto il film ad Africo, ma ora è un paese irraggiungibile. Ci tenevamo a mostrare quel paesino che dà vita alla storia e allora abbiamo girato alcune sequenze: ci sono luoghi dell’anima e Africo è uno di questi. Aspromonte non è un posto violento: c’è un clima dolce, fresco, abitabile. Tra le comparse ci sono stati tanti ragazzi calabresi, che prima di arrivare sul set hanno iniziato a sviluppare alcune cooperative. Poi, durante le riprese, si sono rafforzati nell’idea che insieme, anche se hanno problemi difficili da affrontare, possono trovare la forza di scegliere una vita diversa da quella della delinquenza.
Il suo è anche un film sull’incontro con il diverso.
Mostrare l’incontro con l’altro è indispensabile. Il vero incontro avviene quando si conosce profondamente sé stessi. Ascoltare gli altri è difficile, è complicato. Quando si parla con la gente si ha l’impressione che tutti sappiano tutto di tutti, ma non è vero. Di recente ho partecipato al “Migranti Film Festival - Sulle rotte di cibi e persone” e ho incontrato uomini e donne che hanno qualcosa da dire, che si interrogano sul loro esistere e sugli altri, come i migranti, i nostri ultimi. Posso dirlo? Gli ultimi sono una ricchezza. Cambieranno il mondo. Facciamoli esistere e accogliamoli.
SCHEDA: FILMITALIA
ASPROMONTE, LA TERRA DEGLI ULTIMI
titolo originale:
Aspromonte, la terra degli ultimi
regia di:
Mimmo Calopresti
cast:
Valeria Bruni Tedeschi, Marcello Fonte, Francesco Colella, Marco Leonardi, Sergio Rubini, Fabrizio Gifuni, Elisabetta Gregoraci
sceneggiatura:
Mimmo Calopresti, Monica Zapelli, dal romanzo "Via dall’Aspromonte" di Pietro Criaco
fotografia:
Stefano Falivene
montaggio:
Valerio Quintarelli
musica:
Nicola Piovani
produttore:
Fulvio Lucisano, Federica Lucisano
produzione:
IIF - Lucisano Media Group, Rai Cinema
distribuzione:
Palace Films [Australia], Palace Films [Nuova Zelanda]
vendite estere:
Minerva Pictures Group [Italia]
paese:
Italia
anno:
2019
durata:
87’
formato:
colore
status:
Pronto (07/05/2019)
premi e festival:
Taormina Film Fest 2019: Teatro Antico
Ad Africo, un paesino arroccato nella valle dell’Aspromonte calabrese, alla fine degli anni ’50, una donna muore di parto perché il dottore non riesce ad arrivare in tempo e perché non esiste una strada di collegamento.
Gli uomini, esasperati dallo stato di abbandono, vanno a protestare dal sindaco. Ottengono la promessa di un medico, ma nel frattempo, capeggiati da Peppe (Francesco Colella), decidono di unirsi e costruire loro stessi una strada. Tutti, compresi i bambini, abbandonano le occupazioni abituali per realizzare l’opera.
Giulia, la nuova maestra elementare (Valeria Bruni Tedeschi), viene dal Nord, e vuole insegnare l’italiano “se Africo entrerà nel mondo grazie alla strada, i ragazzi dovranno conoscerlo prima, imparando a leggere e a scrivere”. Ma per il brigante Don Totò, quello che detta la vera legge, Africo non può diventare davvero un paese ‘italiano’...
Via dall’Aspromonte è un western atipico sulla fine di un mondo e sul sogno di cambiare il corso degli eventi grazie alla voglia di riscatto di un popolo.
NOTE DI REGIA: Il Sud è da sempre luogo geografico e luogo dell’anima. Inferno e paradiso, cronaca e favola. Così è questo film. Africo è in Europa, e ci ricorda cosa, solo un secolo fa, poteva essere la nostra terra, ma in quanto sud assomiglia nei suoi sogni e nelle sue sconfitte, più che al nostro continente, a tutti i luoghi ai margini del mondo. Ancora vivi, ancora presenti, ancora disperatamente alla ricerca di un futuro, alla porte dell’Europa.
itinerari
Marco Revelli racconta l’Italia
sfigurata dai morsi della crisi
Nel libro Non ti riconosco (Einaudi) il politologo piemontese descrive le conseguenze della recessione su diverse realtà: Torino, la Brianza, Taranto, la Calabria e Lampedusa
di Corrado Stajano (Corriere della Sera, 12.05.2016)
Si sa, la conoscenza che la classe dirigente politica nostrana ha della società è relativa. Ministri, senatori, deputati affidano ai loro portaborse e ai loro galoppini l’incarico di riferire le notizie che vogliono. L’ottimismo di maniera è la regola, oggi più che mai.
Questo libro di Marco Revelli, Non ti riconosco. Un viaggio eretico nell’Italia che cambia (Einaudi), può far tremare le vene e i polsi con il suo spirito di verità. Revelli conosce bene la società italiana, ha le carte in regola per parlarne, professore di Scienza della politica, autore di libri come Oltre il Novecento, La politica perduta, Poveri noi, Finale di partito, Dentro e contro (quando il populismo è di governo). Il nuovo libro, 5-6 anni di lavoro, è un viaggio in Italia, ma il Grand Tour, gli stranieri più o meno illustri alla ricerca, dal Settecento al Novecento, della bellezza e del mitologico splendore, soprattutto del Sud, non è il modello. Anche se il titolo si rifà a un Lied di Goethe, gran viaggiatore nell’Italia amata.
Marco Revelli non riconosce più il Bel Paese. Confessa di essere spaesato, tradito, disorientato, sradicato: «L’io», scrive, «non si sente più “a casa” in nessun luogo del mondo perché ”il mondo” non ha più nulla ormai di famigliare, di “domestico”. In una parola: di riconoscibile». Ma non si rassegna Revelli, va a vedere. «Un viaggio si fa o per fuggire da qualcosa, o per cercare qualcosa», come ha detto Diego Osorno, grande reporter-narratore messicano. E anche per ritornare: Claudio Magris.
Non ti riconosco è un libro duro, crudo, sofferente. In viaggio, da Torino a Lampedusa. Pessimista? Realista, piuttosto. Un libro di grande bellezza, il suo, se si potesse usare il codice estetico. I luoghi, le persone, le loro storie, gli incontri, il passato-presente sono i protagonisti. Revelli osserva, interroga, è un ispettore generale, uno scrittore senza modelli, un narratore, un professore che studia, al di là degli scheletri dei documenti. Parla con il prossimo, parla anche con se stesso, spiega, vuol capire, per far capire e per capirsi. Il libro è una mescolanza di racconto, saggio, inchiesta, verifica dei poteri, analisi ossessiva, un continuo fare i conti - perché è potuto accadere? - è anche la ricerca di un’uscita di sicurezza, il tempo per farlo è breve in una società che sembra rassegnata, passiva, chiusa in se stessa. Una società che ha smarrito i fervori di certe generazioni passate e non può affidarsi a una classe dirigente politica incolta e arrogante che fa di tutto per cancellare il valore sommo della democrazia. Non c’è bisogno di scomodare il V secolo a. C. di Pericle, basta non tradire i momenti di dignità della neonata Repubblica, la Resistenza, la Costituzione.
Il viaggio comincia nella città che Revelli ben conosce, Torino. Lo scrittore non ha nostalgie, affetti piuttosto. Che cos’era Mirafiori! Un posto ciclopico, infernale, mostruoso in tutti i sensi, con un perimetro di 11 chilometri, 32 porte, 60 mila operai, un sordo rumore ininterrotto che, brontolante, veniva su dalle viscere. Oggi? «Quel cratere si è spento. Materia fredda. E silenziosa. Non si sentono più vibrazioni, ronzii di macchine al lavoro, men che meno grida di rivolta. Né il tonfo cadenzato delle Grandi Presse». Gli operai sopravvissuti sono 5.321, dalle linee di produzione escono un centinaio di auto al giorno, ne uscivano 5.000. La Fiat si chiama Fca, la sede legale del gruppo, dopo la fusione con la Chrysler, è ad Amsterdam, la sede fiscale a Londra. Tutto frantumato, sminuzzato, rimpicciolito, ridotto a rottame. La grande distribuzione ha vinto sulla grande produzione. A Torino, dove non c’è soltanto la Fca, la vita continua, nonostante tutto, e stanno nascendo laboratori: Arduino, per esempio, che non è un uomo, ma «una scheda» che crea gli oggetti più disparati; i Traders, fornitori di servizi, e non pochi inventori di nuovi lavori, il contrario della produzione fordista. Le iniziative esistono ma, se manca una politica sana e intelligente, com’è possibile collegare tra loro tutte quelle energie positive?
Da Torino alla Brianza, la Silicon Valley italiana degli anni Ottanta, dove prosperavano l’Alcatel, la Micron, la Celestica, e con loro 800 imprese nell’ambito delle telecomunicazioni. Il dimagrimento cominciò nel 2008, poi la caduta a cascata, i tagli, le mobilità, le bancarotte, l’esplosione, l’implosione. Marco Revelli prova anche qui un senso di irrealtà. Racconta di quando, nella placida Brianza, gli ingegneri, l’aristocrazia di quel settore di lavoro, accolsero nel 2014, a Vimercate, il presidente del Consiglio Renzi «in visita pastorale all’impresa simbolo della velocità e della rottamazione», l’Alcatel appunto, con cartelli beffardi: «Se Renzi è di sinistra, Berlusconi è femminista».
E poi il tragico Nordest. Gian Antonio Stella, nel suo Schei (1996), raccontò l’incredibile boom del Veneto diventato «la locomotiva d’Italia», il «Giappone d’Europa»: le scarpe nel Veronese, la concia ad Arzignano, gli occhiali a Belluno, i mobili a Bassano, lo Sportsystem a Montebelluna, l’oro nel Vicentino.
Revelli è andato a vedere. A Rossano Veneto, piccola capitale del boom, 6.532 abitanti, 900 imprese: con la crisi globale è arrivata la depressione, la «malaombra». Sono caduti i capannoni, le villette a schiera, i fienili diventati officine, i posti di lavoro. In quegli anni, nel Nordest, si calcola che ci siano stati 500 suicidi, tra imprenditori e dipendenti. Le cause? «In questo Nordest euforico trasformato in un Far West triste si assiste al paradosso per cui si fallisce per troppi crediti». (I mancati incassi del committente insolvente, della pubblica amministrazione inadempiente hanno creato debiti incolpevoli con tragiche conseguenze).
Il viaggio alla Taranto dell’Ilva ha il colore del piombo fuso. E pensare che la nuvola portatrice di morte aleggiante sullo stabilimento di colore rossastro, non pareva nemica. Il IV Centro siderurgico, nato nel 1964, doveva rappresentare il riscatto delle plebi meridionali, con i suoi due milioni di tonnellate d’acciaio all’anno. È diventato soltanto una fabbrica di morte, portatrice di una catena di tumori, anche nei quartieri vicini, il Tamburi, il Paolo VI. Fu un professore di storia, Alessandro Marescotti che, sospettoso, fece analizzare da un chimico un pezzo di formaggio e rese pubblica la notizia sulla mostruosa concentrazione di diossina che pesava sull’Ilva e su Taranto. Revelli registra la tragedia, studia i documenti, parla con gli operai, «gli occhi bassi dei vinti».
Poi la Calabria. Al porto di Gioia Tauro la ’ndrangheta è padrona, d’accordo con i cartelli messicani della droga, armi e cocaina. Lo scrittore, in questo paesaggio di struggente bellezza, incontra chi non si è arreso, un giornalista sotto scorta, Michele Albanese, e un imprenditore che ha detto no al pizzo, Nino De Masi, mitragliato, minacciato, anche lui sotto scorta. Che cosa sanno i governanti della questione meridionale e della questione criminale che ne è parte integrante?
Il libro finisce a Lampedusa dove la sindaca Giusi Nicolini fa fronte con coraggio. Lei e papa Francesco. Marco Revelli visita con angoscia un cimitero dove le croci sono state costruite con il legno delle barche affondate. Su uno sperone di roccia di Punta Maluk, un artista, Mimmo Paladino, ha costruito, con materiali difformi, la Porta d’Europa, un simbolo imponente, sacrale. Chissà che i Paesi del Continente si rendano conto una buona volta di questa nuova strage degli innocenti. La Shoah dei migranti.
Il ponte
Se torna il trasformismo, antica piaga della storia italiana
Saltano fuori progetti che si speravano sepolti come il Ponte sullo Stretto
di Corrado Stajano (Corriere della Sera, 5.11.2015)
La politica dovrebbe essere l’arte del necessario, non del possibile, com’è luogo comune dire. Una chimera, oggi più che mai. La mediazione, essa sì, è utile se esercitata pulitamente per metter d’accordo opinioni e bisogni differenti di una comunità. Adesso? Par di vivere in un garbuglio autoritario dove la cancellazione delle regole è diventata la norma.
L’ultimo episodio riguarda la bagarre sul sindaco Marino, probabilmente indifendibile, anche se bisognerebbe approfondire il disturbo che ha dato agli speculatori la sua politica urbanistica. Le modalità con cui è stato tolto di mezzo non fanno onore a una democrazia. Il notaio che ha raccolto le adesioni dei 26 consiglieri richiamati alle armi per evitare, con la loro firma, una libera discussione in aula rammenta una commedia con Peppino De Filippo più che il V° secolo di Pericle. Di che cosa si è avuto paura?
Si avverte un senso di disagio. In un solo giorno si aggrovigliano senza imbarazzo dichiarazioni e smentite. Via le tasse, ripristinate le tasse; i castelli non pagheranno l’Imu, la pagheranno. Il canone della Rai-Tv verrà inserito nella bolletta dell’energia elettrica? Lo dovrà pagare anche chi non possiede il televisore? Non è chiaro. Si aprono i tavoli.
Tutti parlano, parlano. Che bisogno ha avuto Raffaele Cantone, il presidente dell’Anticorruzione, una persona seria, di definire Milano «capitale morale del Paese, mentre Roma sta dimostrando di non avere gli anticorpi necessari»? Non si pretende che conosca il torbido passato prossimo milanese, Sindona, Calvi, l’assassinio di Giorgio Ambrosoli, Mani pulite, Don Verzé, Ligresti, ma ha dimenticato che il vicepresidente della Regione Lombardia Mario Mantovani è a San Vittore? Ha cancellato dalla mente il gran giro di mazzette sugli appalti scoperto pochi mesi prima dell’inaugurazione dell’Expo e le inchieste in corso su corruzione, peculato, truffa? Anche il presidente Giuseppe Sala non si accorse di nulla. Chissà che sia più vigile se sarà eletto sindaco di Milano come desidererebbe Renzi.
Poi ci sono i problemi più gravi di cui si preferisce parlar poco. Come quello che riguarda la soglia per l’uso dei contanti salita a 3000 euro. Le proteste motivate sono state e sono numerose. Si sono detti contrari, tra gli altri, il procuratore nazionale Antimafia Franco Roberti: «Favorisce l’evasione fiscale, la circolazione del “nero” e danneggia la lotta al riciclaggio frutto di reato». Anche il senatore a vita Mario Monti che da presidente del Consiglio portò la soglia del contante da 2500 a 1000 euro è dissenziente. Ed è in corso una campagna digitale - Riparte il futuro - promossa da Libera e dal Gruppo Abele che ha già superato le 35 mila adesioni.
Nessuna retromarcia, i 3000 euro non si toccano, guai ai gufi, ai rosiconi, ai moralisti: Renzi si è impuntato come un bambino cui viene tolta la nutella.
Ci fu in passato un suo predecessore che mostrava «stizza e insofferenza verso chi lo criticava o anche solo non condivideva le sue valutazioni e le sue decisioni e le voleva discutere». (Fonte ineccepibile, Renzo De Felice, Mussolini il duce . Lo Stato totalitario, pag.284)
È d’obbligo il consenso, la fiducia nella crescita, l’ottimismo, sullo sfondo di campane a festa e di trombe squillanti. È tornata di moda la parola disfattismo, residuo di tempi tristi, viene considerato nemico chi vuole semplicemente dire la sua, discutere le inadeguatezze della politica governante, sottolinearne l’incompetenza, la presunzione, il dilettantismo giovanilistico, smascherare le bugie quotidiane.
Saltano fuori come misirizzi antichi progetti che si speravano sepolti. È rispuntata l’idea del Ponte sullo Stretto, per la letizia delle imprese d’appalto e di subappalto in mano alla mafia. L’opera stava molto a cuore a Berlusconi: fu la prima cosa che disse - promise - quando nel 2008 ridivenne presidente del Consiglio. Non c’è ora un ispettore fuori dai giochi del potere che vada in Sicilia a vedere come, tra crolli, frane e smottamenti, (non) funzionano strade e ferrovie che vanno messe in ordine prima di pensare al ponte faraonico di dubbia utilità?
Il ponte è un favore che Renzi deve rendere all’alleato Angelino Alfano, nativo della Trinacria, o a Denis Verdini, il plurinquisito alleato di riserva? Non teme i giudizi degli elettori o ex elettori del Pd? Crede davvero che distruggendo valori e principi della sinistra, o di quella che fu tale, di guadagnare consensi a destra? Non sembra, con qualche eccezione. Continua invece a perdere parlamentari del suo partito e ha sul collo i fiati dei Cinque Stelle.
Di nuovo protagonista il trasformismo, antica piaga. Padrino Agostino Depretis (1883), tutore Benedetto Croce che nella sua Storia d’Italia (1927) lo definì un semplice strumento di azione politica, nient’altro che un processo fisiologico, non certo patologico.
E oggi? Che cosa può succedere nel gran pastone dei trasformisti quotidiani?
MOSTRA DEL CINEMA VENEZIA 2014
L’INTERVISTA
Alla Mostra Munzi e le "Anime nere": standing ovation e tredici minuti di applausi
di CHIARA UGOLINI, inviata a Venezia (la Repubblica, 29 agosto 2014)
Successo alla proiezione per il pubblico di "Anime nere", primo film italiano in concorso. Il regista parla del film: "Qui ho visto un Sud che non conoscevo, che si sente dimenticato e non riesce a riconoscersi come parte d’Italia. La questione meridionale è ancora aperta. Il Sud come corpo estraneo è un dispiacere"
VENEZIA - Grande successo per il primo film italiano in concorso, Anime nere di Francesco Munzi. Accolto positivamente al mattino, alla proiezione per la stampa, in serata è stato salutato dal pubblico con una standing ovation e tredici minuti di applausi. È un viaggio nel cuore dell’’ndrangheta, nel buco nero della Calabria, luogo stigmatizzato dagli esperti come uno dei centri più mafiosi di Italia: Africo. Il film che il regista romano (Saimir, Il resto della notte) ha tratto, liberamente, dal libro di Gioacchino Criaco, è la storia di tre fratelli cresciuti nell’odio per l’uomo che ha ammazzato il padre, un pastore dell’Aspromonte che si era fatto coinvolgere in un sequestro di persona. I tre uomini hanno reagito in modo diverso al dolore e conducono esistenze parallele: il più anziano (Fabrizio Ferracane) è rimasto al paese e per sopravvivere si stringe alla terra e agli animali, il più giovane (Marco Leonardi) è un trafficante internazionale di droga, il mediano, milanese adottivo (Peppino Mazzotta, l’ispettore Fazio di Montalbano), dalle apparenze borghesi, è imprenditore grazie ai soldi sporchi del secondo. Ma il figlio del primo, un ventenne senza identità, metterà in crisi tutti gli equilibri scatenando una faida fra clan.
Girato in un luogo difficile, stretto tra un mare bellissimo ma non frequentato né dai turisti né dagli abitanti locali e una montagna selvaggia, l’Aspromonte, il film tenta di trovare la strada per quell’altrove chiuso in se stesso. Un posto che fino a pochi anni fa era collegato al mondo solo attraverso una mulattiera, in cui era difficile penetrare e che invece il regista ha abitato coinvolgendo la popolazione locale e trasformandola in attori, comparse, autisti, carpentieri. Dando lavoro dove non c’è.
Alla Mostra di Venezia è il tempo di "Anime nere", il primo film italiano in concorso, diretto da Francesco Munzi. È un viaggio ad Africo, nel cuore della ’ndrangheta, buco nero della Calabria, uno dei luoghi più mafiosi di Italia. Il regista romano ha tratto il suo film, liberamente, dal libro di Gioacchino Criaco. Racconta la storia di tre fratelli cresciuti nell’odio per l’uomo che ha ammazzato il padre, un pastore dell’Aspromonte coinvolto in un sequestro di persona. I tre uomini hanno reagito in modo diverso al dolore e conducono esistenze parallele: in "Anime nere" hanno i volti di Fabrizio Ferracane, Marco Leonardi e Peppino Mazzotta
Francesco Munzi, come è capitato ad Africo?
"Ci sono capitato leggendo un romanzo che ha lo stesso titolo del film, un libro che mi ha subito conquistato. Appena l’ho chiuso, prima ancora di pensare ad una sceneggiatura, ho voluto andare a vedere con i miei occhi e a sentire con le mie orecchie le storie delle persone che vivono nel luogo del romanzo".
È arrivato ad Africo carico di paure e pregiudizi rispetto a questa terra, poi girandoci il film cosa è cambiato?
"Africo è uno dei tre paesi della Locride che ha una fama molto negativa creata da libri e quotidiani. La cronaca che riguarda questi paesi è una storia di sequestri, omicidi, traffico di droga, ’ndrangheta insomma. Sono arrivato in quel luogo misterioso carico di suggestioni negative con l’interrogativo: chissà se riuscirò a girare qui il film o dovrò ricostruire Africo in un altro luogo. Questo mio pregiudizio si è sfatato non perché io abbia cambiato la storia di questo paese ma perché ho potuto ribaltare l’idea che Africo fosse un ghetto impenetrabile. Noi non solo ci siamo entrati ma abbiamo fatto un film in totale tranquillità coinvolgendo gli abitanti in un’esperienza che per loro è stata assolutamente positiva".
Oggi il paese aspetta il film, cosa ne penserà?
"Beh, magari non tutti ma molti africesi aspettano questo film perché se ne parla da tanto tempo. E anch’io aspetto con ansia di vedere la loro reazione, per me è molto importante che il film trovi il loro consenso".
Non si sfugge al paese d’origine, alle proprie origini, ancor più se sei di Africo, Aspromonte... "Anime nere" di Francesco Munzi, in corsa per l’Italia al Festival di Venezia, racconta in una prospettiva originale la matrice di certa cultura criminale legata al territorio e, soprattutto, alla famiglia, alla tragedia, alle divinità della natura... Ecco il trailer del film, tratto dal libro di Gioacchino Criaco e interpretato da Fabrizio Ferracane, Marco Leonardi, Peppino Mazzotta, Giuseppe Fumo, Barbora Bobulova
Con Anime nere lei ha scelto di raccontare una storia di mafia, di criminalità organizzata, concentrandosi sui rapporti familiari, sui legami di sangue (mentre nel libro di Criaco i protagonisti erano tre amici). Perché?
"A me interessava mettere in scena questo paese perché è un luogo che si conosce poco. L’Aspromonte calabrese è un luogo sconosciuto ma fondamentale perché è legato strettamente alla storia criminale del nostro paese, dal traffico di droga ai sequestri di persona. Però al di là del luogo mi interessava concentrarmi sui personaggi, sulle loro emozioni, sui sentimenti. L’idea era quindi cercare di raccontare una famiglia criminale negli aspetti privati, drammatici; nel momento in cui si ripropone un’antica faida, andare ad esplorare cosa succede all’interno di questa famiglia".
Da Africo si vede meglio l’Italia. Cosa intendeva?
"Intendevo innanzitutto che ad Africo, come in altre parti della Calabria, ho visto un Sud che non conoscevo, un Sud che si sente ancora una parte distaccata del paese, che non si riconosce nell’interezza dell’Italia e questo mi ha fatto capire che la questione meridionale è ancora aperta. Il Sud come corpo estraneo è un dispiacere, ma è un dolore che non si può ignorare. D’altro canto in Aspromonte, un luogo piccolo e difficile da raggiungere, si sono svolte e si svolgono ancora vicende che riguardano non solo l’Italia ma il mondo intero. All’interno di paesini piccolissimi vengono gestite enormi quantità di droga che arrivano dal Sud America, dall’Olanda. Questo ci dà l’idea di come il piccolo sia legato al grande".
Il suo è il primo film italiano in corsa per il Leone d’oro. Più pressione o più eccitazione?
"Una pressione che produce adrenalina... ma fa parte del gioco. Sono felice di essere il primo regista italiano in corsa, mi piace buttarmi per primo".