LA DIVINA COMMEDIA, Un’indicazione di lettura generale e "personale" - per non restare all’Inferno... *
"Io non Enea, io non Paulo sono":
io, Dante Alighieri,
figlio della libera e piena unione
di Bella degli Abati ("Maria")
e di Alighiero II degli Alighieri ("Giuseppe"),
vi racconto e vi testimonio
che
Nel mezzo del cammin di nostra vita
io mi ritrovai ...
è l’Amore che muove il Sole e le altre stelle
ho ritrovato l’ Origine , me stesso, e l’Umanità
In principio era la parola,
il dialogo, tra gli esseri umani, non il diavolo;
íl díalogo aiutava a superare ogni ostacolo (satana) e ogni ínimicizia; non c’erano barriere, muri, e recinzioni diaboliche che separavano e impedivano gli incontri e le amorose nascite di esseri umani, liberi e sovrani, che crescevano pacificamente in virtù e conoscenza, in terre e città belle e fiorenti;
consideriamo, considerate, la nostra semenza,
seguiamo, seguite, il filo del nostro corpo
e delle parole della nostra Lingua,
fatti e fatte non foste, e non fummo, a viver come bruti e come
brute...
siamo, siete, nati e nate in libertà e in umanità,
non rinneghiamo, non rinnegate,
non vendiamo, non vendete,
l’anima della vostra, nostra, Città,
l’anima della vostra, nostra, Terra.
* Federico La Sala, L’enigma della Sfinge e il segreto della Piramide. Considerazioni attuali sulla fine della preistoria ..., Edizioni Ripostes, Roma-Salerno 2001, p. 61.
PER APPROFONDIMENTI SUL TEMA, NEL SITO E IN RETE, SI CFR.:
OLTRE LA TRAGEDIA E OLTRE I LIMITI DEL VIAGGIO DI ULISSE... *
In cammino con Dante/1.
Così Dante porta sé stesso in Commedia
Inizia il cammino dell’italianista Carlo Ossola attraverso i personaggi delle tre cantiche che ci accompagnerà in questo anno del 700° dantesco. Partendo dall’autore, certo non mero scriba
di Carlo Ossola **
«Conosciamo Dante profondamente grazie a un fatto rilevato da Paul Groussac [ Tolosa, 1848 Buenos Aires, 1929]: che la Commedia è scritta in prima persona. [...] Bisogna ricordare che, prima di Dante, sant’Agostino aveva scritto le Confessioni. Ma queste confessioni, appunto in virtù della splendida retorica, non sono così vicine a noi come lo è Dante, poiché la retorica splendida dello scrittore africano si interpone tra quello che egli vuole dire e quello che noi percepiamo’ ( J.L. Borges, Sette Notti, I: La Divina Commedia).
L’osservazione di Borges è acuta: il viaggio di Dante è così possente che lo pensiamo autore soltanto, come se l’io del viator fosse solo l’ombra dello scriba; non occupa dei propri tormenti le pagine come il Rousseau delle Confessioni; anzi, il poema si legge come se Dante avesse fatto passare le Confessioni di sant’Agostino attraverso il vaglio d’eternità della Città di Dio.
Egli visita infatti le città di Dio (Inferno, Purgatorio, Paradiso terrestre, Paradiso) e ad esse si commisura, fragile e smarrito nella selva della tentazione. Egli si rivela poco a poco nel poema: conosciamo dapprima la sua paura di fronte alle fiere; sviene al racconto del dramma d’amore di Paolo e Francesca («E caddi come corpo morto cade», Inf., V, 142); gli salgono le lacrime al vedere la pena che flagella Ciacco (Inf., VI), la «sozza mistura / de l’ombre e de la pioggia»; da quel dialogo apprendiamo che Dante è originario di una città toscana, come conferma l’apostrofe, poco dopo, di Farinata degli Uberti: «“O Tosco che per la città del foco / vivo ten vai così parlando onesto”» (Inf., X, 22-23).
Al canto XV, si dichiara ch’egli è stato allievo di Brunetto Latini il quale gli raccomanda il suo Tesoro (v. 119). Ad ogni conversazione, Dante autore lascia trapelare un tratto dell’identità del personaggio, e specialmente nel Purgatorio negli incontri che più lo rivelano, nella sua quotidianità - di sorriso e di malinconia - come nel dialogo con Belacqua (canto IV), o nella complicità poetica con Casella, che gli intona la prima citazione dall’opera di Dante, Amor che ne la mente mi ragiona, canzone che apre il III libro del Convivio (II, 112 ss.).
Solo al culmine della montagna, purificato dai peccati, ma non ancora deterso da essi, nel Paradiso terrestre è rivelato da Beatrice il suo nome; l’incontro tanto agognato diviene, nell’apostrofe di Beatrice, severo discorso di dura condanna: «Dante, perché Virgilio se ne vada, / non pianger anco, non piangere ancora; / ché pianger ti conven per altra spada» (Purg., XXX, 55-57).
Dal punto di vista dell’autore (e anche del lettore) è facile allegorizzare: il viator è appena stato assolto dalla ragione, promosso nella sua pienezza umana, come gli assicura Virgilio: «libero, dritto e sano è tuo arbitrio / [...] per ch’io te sovra te corono e mitrio» (Purg., XXVII, 140142); ed ora è messo a prova dalla teologia, alla quale deve ascendere.
Ma Dante personaggio patisce: coronato e, subito dopo, condannato; ha forse ragione Borges quando osserva: «Infinitamente ebbe vita Beatrice per Dante. E Dante assai poco, o nulla, per Beatrice. Noi tutti tendiamo, per pietà, per venerazione, a dimenticare questa disdicevole discordanza, inobliabile per Dante» (Nove saggi danteschi)?
In effetti, in più luoghi del poema Dante autore giudica del viaggio di Dante personaggio, non meno di quante il personaggio confessi, di fronte all’ardua prova, il proprio limite: «Ma io, perché venirvi? O chi ’l concede? / Io non Enëa, io non Paulo sono; / ma degno a ciò né io né altri ’l crede. / Per che, se del venire io m’abbandono, / temo che la venuta non sia folle» ( Inf., II, 3135). Varcate le «gelate croste» di Lucifero e dell’Inferno, giunti i viatores di fronte alla montagna del Purgatorio, la voce dell’autore a sua volta esclama: «Matto è chi spera che nostra ragione / possa trascorrer la infinita via / che tiene una sustanza in tre persone» (Purg., III, 34-36).
Tra la «venuta ... folle» e il «Matto è chi spera» c’è stato il «folle volo» di Ulisse, definizione di una frontiera invarcabile del conoscere; per questo Dante conclude: «State contenti, umana gente, al quia» (Purg., III, 37); giudizio che Dante, personaggio ancora e non meno autore, ribadirà al sommo del Paradiso: «sì ch’io vedea di là da Gade il varco / folle d’Ulisse» (Par., XXVII, 82-83).
Dante pur tuttavia cresce - ascendendo di cielo in cielo - nella consapevolezza dell’infinità dei mondi e del mistero che lo attende e lo assorbe: la sua consacrazione più alta avrà luogo nell’incontro con Adamo ove, se seguiamo parte dei codici più antichi, quelli esemplati dal Boccaccio (in particolare il Chigiano L VI 213) nonché le stesse Esposizioni del Boccaccio alla Commedia, e infine la maggior parte degli incunaboli, il nome di Dante viene nuovamente pronunciato, dal primo padre dell’umanità, che autorizza il nuovo testimone della discendenza redenta: «L’altra persona, alla quale nominar si fa, è Adamo, nostro primo padre, al quale fu conceduto da Dio di nominare tutte le cose create; e perché si crede lui averle degnamente nominate, volle Dante, essendo da lui nominato, mostrare che degnamente quel nome imposto gli fosse, con la testimonianza di Adamo; la qual cosa fa nel canto XXVI del Paradiso, là dove Adamo gli dice: “Dante, la voglia tua discerno meglio”» (Boccaccio, Esposizioni, Accessus).
Questo crescere è un modellarsi all’umiltà: intanto quella del discipulus che, per tutto il viaggio, si affida a una guida: prima Virgilio (sino al Paradiso terrestre), poi Beatrice (sino al XXXI del Paradiso), poi san Bernardo, per gli ultimi tre canti; ma è altresì un ridivenire “fantolin”, “fantin” (Par., XXX, 82-87), perché soltanto chi si fa piccolo può - come conclude il paragone dantesco - “immegliarsi”, secondo il detto evangelico: «nisi [...] efficiamini sicut parvuli non intrabitis in regnum cælorum» (Matth., 18, 3).
Il crescere di Dante personaggio, ben oltre i limiti del viaggio di Ulisse, non è un affrancarsi che potenzia, un esercizio superoministico; ma un accogliere più luce e più mistero, un rimpicciolire perché la Gloria meglio “penetri e risplenda” (Par., I,2); è il divino splendore che deve crescere in noi, del quale il poema non sarà che favilla: «e fa la lingua mia tanto possente, / ch’una favilla sol de la tua gloria / possa lasciare a la futura gente» (Par., XXXIII, 70-72). Qui finalmente Dante personaggio e Dante autore vengono a coincidere: «povertà [di vita] e sapere e poesia, quale alleanza assicuratrice di giustizia!» (G. Ungaretti, Tra feltro e feltro, 1965).
** Fonte: Avvenire, domenica 21 marzo 2021 (ripresa parziale).
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA" di Federico La Sala (in un "quaderno" della Rivista "Il dialogo"), con prefazione di Riccardo Pozzo [2007].
L’OCCUPAZIONE DELLA LEGGE E DELLA LINGUA ITALIANA: L’ITALIA E LA VERGOGNA.
«Dalla Patria alla Matria. Ecco perché è la lingua che ci ha fatto italiani»
Il linguista: Un Paese paradosso il nostro, cementato nelle pagine dei capolavori letterari. E solo più di mezzo millennio dopo la «Commedia» diventato uno Stato
di Maria Serena Palieri (l’Unità, 21.02.2011)
Massimo Cacciari dice che la sua devozione va non alla Patria, ma alla Matria. Cioè alla nostra madre lingua, l’italiano di Dante. E «il» linguista per antonomasia, Tullio De Mauro, stamattina al Quirinale parlerà appunto dell’Italia linguistica, dall’Unità alla Repubblica. Alla vigilia dell’incontro gli abbiamo rivolto alcune domande. A fronte dei 150 anni di Italia che festeggiamo oggi, ci sono, prima, sei secoli di storia di un popolo unito dalla lingua.
È un’eccezione tutta italiana? E da cosa nasce?
«La scelta del fiorentino scritto trecentesco a lingua che, sostituendo il latino, fosse lingua comune dell’Italia si andò affermando già nel secondo Quattrocento nelle nascenti amministrazioni pubbliche dei diversi stati in cui il paese era diviso e si consolidò poi tra i letterati nel XVI secolo quando sempre più spesso la lingua di Dante, Petrarca, Boccaccio cominciò a dirsi italiano e non più fiorentino o toscano. Spingeva in questa direzione l’aspirazione ad avere una lingua nazionale come già avveniva nei grandi stati nazionali europei. Rispetto alle altre parlate italiane, alcune già illustri come il veneziano o il napoletano, il fiorentino scritto aveva il vantaggio di una grande letteratura di rango europeo, il sostegno dell’attiva rete finanziaria e commerciale toscana, una assai maggiore prossimità al latino, che era la lingua dei colti. A questi soltanto, fuori della Toscana, e con la sola parziale eccezione della città di Roma, restò limitata la scelta. Mancarono ancora per secoli quelle condizioni di unificazione politica, economica e sociale e di sviluppo della scolarità elementare che altrove in Europa portavano i popoli a convergere verso l’uso effettivo delle rispettive lingue nazionali. Firenze e Roma a parte, l’uso dell’italiano restò riservato a occasioni più formali e solenni e alle scritture di quell’esigua parte di popolazione che poteva praticarle e leggerle. Tuttavia la tradizione letteraria dei colti fu un filo importante nella vicenda storica. Nell’Italia preunitaria, scrittori, politici, patrioti da Foscolo a Cattaneo e Manzoni, alla diplomazia piemontese, poterono additare a giustificazione storica della richiesta di unità e indipendenza dell’Italia l’esistenza di un’unica lingua nazionale. Ma non mancarono mai di sottolineare il fatto che l’uso dell’italiano era allora assai ridotto. È un tema ricorrente».
Quali sono le conseguenze di questa storia «al contrario»?
«Senza riferimento alla lingua nazionale la stessa idea di unificare il paese e rivendicarne l’indipendenza forse non sarebbe nata».
Il 1861 quale tipo di Paese certificò, dal punto di vista linguistico?
«Il 78% della popolazione risultò analfabeta. La scuola elementare era poco frequentata e mancava in migliaia di comuni. L’intera scuola postelementare era frequentata da meno dell’1% delle classi giovani. Secondo le stime la capacità di usare attivamente l’italiano apparteneva al 2,5% della popolazione. Un valoroso filologo purtroppo scomparso ha rivisto questa stima al rialzo, suggerendo che la capacità di capire l’italiano appartenesse all’8 o 9%».
E 150 anni dopo?
«La scolarizzazione avrebbe potuto modificare la situazione del 1861. Ma, diversamente da quanto avvenne per esempio in Giappone, che negli stessi anni si avviava alla modernità e aveva condizioni scolastiche peggiori delle nostre, le classi dirigenti italiane puntarono su esercito e ferrovie, non sulla scuola. Alla fine del secolo il Giappone aveva portato alla piena scolarità elementare quasi il 100% della popolazione: in Italia siamo arrivati a questo soltanto negli anni sessanta del ‘900. Solo nel periodo giolittiano, a inizio ‘900, cominciò una forte spinta popolare all’istruzione, come riflesso della grande emigrazione verso paesi in cui leggere e scrivere era normale, e come conseguenza diretta del costituirsi di associazioni operaie e contadine e del Partito Socialista.
I governi Giolitti risposero positivamente, le spese per edilizia scolastica e stipendio dei maestri passarono dai comuni allo Stato. La scolarità cominciò a crescere e anche crebbe la quota di prodotto interno lordo destinato alla scuola. Ma il processo si bloccò prima per la Grande Guerra, poi, dal 1925 in poi, per tutto il periodo fascista.
-All’inizio del suo cammino la Repubblica italiana si ritrovò con il 59,2% di analfabeti e senza licenza elementare, con un indice di scolarità di tre anni a testa, a livello dei paesi sottosviluppati. E con il 64% di popolazione consegnata all’uso esclusivo di uno dei dialetti, mentre l’italiano era usato abitualmente da poco più del 10% della popolazione (inclusi i toscani e i romani) e in alternativa con i dialetti da un altro 20% o poco più. Uscire da questa situazione parve una necessità a persone com Pietro Calamandrei o Umberto Canotti Bianco, ma anche ai padri costituenti, chenel 1948 “costituzionalizzarono” l’obbligo scolsticon gratuito per almeno 8 anni (è l’art. 34 della Costituzione). Ma la scuola elementare e la media hanno stentato a decollare fino agli anni settanta.
La scuola ha fatto un lavoro enorme per sottrarre i figli e le figlie al destino di analfabetismo e mancata scolarità di padri e madri. Ha portato tutti i ragazzini alla licenza elementare negli anni settanta e ottanta, poi quasi tutti alla licenza media, infine, in questi anni, li ha portati per il 75% al diploma e alle porte dell’università. Ma non poteva cambiare da sola le strutture degli ambienti di provenienza degli allievi: la mancanza cronica di centri di pubblica lettura in oltre tre quarti dei comuni, la scarsa lettura di quotidiani, fermi, in percentuali di vendite, agli anni ‘50, la scarsa propensione alla lettura di libri. Per questa la parte femminile della popolazione, ha fatto moltissimo, assai più dei maschi, ma non basta». Nel gioco fra lingua e dialetti l’italiano è mai arrivato a essere “lingua di popolo”?
O è rimasto lingua d’élite?
«Oggi l’italiano è parlato dal 94% della popolazione, mai era stato tanto usato, solo il 6% resta ancorato all’uso esclusivo di uno dei dialetti. Ma la percentuale del 94% va sgranata e stratificata: il 45% parla abitualmente l’italiano anche tra le mura di casa, i l resto della popolazione lo usa in alternanza con uno dei dialetti o (per il 5%) delle lingue di minoranza. Ma attenzione, il multilinguismo, la persistenza di idiomi diversi non fa danno. Fa danno la dealfabetizzazione della popolazione adulta una volta uscita di scuola. Soltanto il 20% della popolazione ha gli strumenti minimi di lettura, scrittura e calcolo per orientarsi nella vita di una società moderna. La povera Mastrocola si agita per dire che dovremmo bloccare l’istruzione a 13 anni. Abbiamo invece bisogno di un grande sforzo collettivo di crescita culturale, qualche imprenditore comincia a capirlo, lo spiegano bene gli economisti e in un bel saggio recente Walter Tocci. Ma per ora la situazione è questa e un uso responsabile e sicuro della lingua è precluso a una gran parte del 94% che pure l’italiano ormai lo parla».
Dal 1954 in poi, l’italiano ce l’ha insegnato nostra maestra televisione. Oggi la tv sul piano linguistico e civile che effetti produce?
«Sì, con le grandi migrazioni interne, l’industrializzazione e la crescente scolarità delle fasce giovani, negli anni ‘50 l’ascolto televisivo fu decisivo per sentire l’italiano usato nel parlare. Dagli anni ‘90 la rincorsa alla pubblicità ha imbastardito le trasmissioni senza che vi siano sufficienti contrappesi, il calmiere di una informazione seria e diffusa, la lettura. Oggi lavoriamo molto nelle scuole per insegnare i ragazzi la regola della “presa di turno” nel parlare, Poi apri un qualsiasi talk show o il grande fratello e vedi che quella regola è calpestata senza ritegno». Che effetto fa al linguista una Minetti (laureata) che intercettata dice “Ne vedrai di ogni. Ti devo briffare”? «Studio le registrazioni solo per obiettivi professionali, quindi per campioni statistici, e quelle di Minetti non mi sono per ora capitate».
E che effetto ha fatto al linguista il Benigni che spiega l’Inno di Mameli?
«Un numero sterminato di anni fa, trenta, ricordo di avere cercato di spiegare che, come già per altri grandi comici, Totò anzitutto e Dario Fo, il comico di Benigni poggiava e poggia su una geniale intelligenza e una robusta, ampia base culturale. Benigni poi ci ha dato solo conferme. La sua “controlettura” dell’Inno di Mameli offre un modello raro e prezioso di come si debba e possa leggere la poesia, senza vibratini ed enfasi, come invece troppo spesso si fa. Di Benigni ricordo anche il memorabile discorso per l’avvio di pionieristici corsi di istruzione per gli adulti nel comune di Scandicci e la chiusa alta e paradossale, degna di Gramsci e don Milani: “Tutti vi dicono: fatti, non parole. E io vi dico invece: prima di tutto parole, parole, parole».
PER IL DIALOGO E LA PACE TRA LE GENERAZIONI E I POPOLI: Apriarno gli occhi, saniarno le ferite dei bambíni (deí ragazzi) e delle bambine (delle ragazze), dentro di noí e fuori di noí...Riannodiamo i fili della nostra rnemoria e della nostra dignità di esseri umani. Fermiamo la strage...
Linee per un Piano di Offerta Formativa della SCUOLA dell’AUTONOMIA, DEMOCRATICA E REPUBBLICANA. *
***
CHI siamo noi in realtà? Qual è íl fondamento della nostra vita? Quali saperi? Quale formazione?
SCUOLA, STATO, E CHIESA: CHI INSEGNA A CHI, CHE COSA?!
IL "DIO" DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI...
E IL "DIO" ZOPPO E CIECO DELLA GERARCHIA DELLA
CHIESA CATTOLICA, EDIPICO-ROMANA.
Alla LUCE, e a difesa, DELLA NOSTRA DIGNITA’
DI CITTADINI
SOVRANI E DI CITTADINE SOVRANE E
DI LAVORATORI
E LAVORATRICI DELLA SCUOLA PUBBLICA (campo
di RELAZIONE educativa, che basa il suo PROGETTO e la sua
AZIONE sulla RELAZIONE FONDANTE - il patto costituzionale
sia la vita personale di tutti e di tutte sia la vita politica di
tutta la nostra società),
Per PROMUOVERE LA CONSAPEVOLEZZA (PERSONALE,
STORlCO-CULTURALE) E
L’ESERCIZIO DELLA SOVRANITA’ DEMOCRATICA
RISPETTO A SE STESSI E A SE
STESSE, RISPETTO AGLI ALTRI E ALLE ALTRE, E RISPETTO
ALLE ISTITUZIONI
("Avere il coraggo di dire ai nostri giovani
che sono tutti sovrani": don Lorenzo Milani; "Per rispondere
ai requisiti sottesi alla libertà repubblicana una persona deve essere
un uomo o una donna indipendente e questo presuppone che essi
non abbiano un padrone o dominus, che li tenga sotto il suo potere,
in relazione ad alcun aspetto della loro vita. [...] La libertà richiede
una sorta di immunità da interferenze che diano la possibilità di
[...] tenere la propria testa alta, poter guardare gli altri dritto negli
occhi e rapportarsi con chiunque senza timore o deferenza": Philippe
Pettit)
e un LAVORO DI RETTIFICAZIONE E DI ORIENTAMENTO
CULTURALE, CIVILE, POLITICO e religioso (art.7 della Costituzione
e Concordato),
per evitare di ricadere nella tentazione
dell’accecante e pestifera IDEOLOGIA deII’INFALLIBILITA e
dell’ANTISEMITISMO (cfr. la beatificazione di PIO IX) e di un
ECUMENISMO furbo e prepotente, intollerante e fondamentalista
(cfr. il documento Dominus Jesus di Ratzinger, le dichiarazioni anti-
islamiche di Biffi, e il rinvio sine die dell’incontro fissato per il
3.10.2000 tra ebrei e cattolici) e di perdere la nostra lucidità e sovranita
politica,
e per INSTAURARE un vero RAPPORTO DIALOGICO e DEMOCRATICO, tra ESSERI UMANI, POPOLI e CULTURE, non solo d’Italia, ma dell’Europa e del Pianeta TERRA (e di tutto I’universo, cfr. Giordano Bruno),
IO, cittadino italiano,figlío di Due IO, dell’UNiOne di due esseri
umani sovrani, un uomoj ’Giuseppe’, e una donna:’Maria’ (e, in
quanto tale, ’cristiano’ - ricordiamoci di Benedetto Croce; non cattolico
edipico-romano! - ricordiamoci, anche e soprattutto, di Sigmund
Freud),
.
ESPRIMO tutta la mia SOLIDARIETA a tutti i cittadini e a tutte
le cittadine della Comunità EBRAICA e a tutti i cittadini e a tutte lecittadine della comunità ISLAMICA della REPUBBLICA DEMOCRATICA
ITALIANA,
e
PROPONGO
di riprendere e rilanciare (in molteplici forme e iniziative) la riflessione
e la discussione sul PATTO di ALLEANZA con il qúale tutti i
nostri padri (nonni...) e tutte le nostre madri (nonne...) hanno dato
vita a quell’UNO, che è il Testo della COSTITUZIONE, e il ’vecchio’
invito dell’Assemblea costituente (come don Lorenzo Milani
ci sollecitava nella sUa Lettera ai giudici, cfr. L’obbedienza non è più
una virtù) a "rendere consapevoli le nuove generazioni delle raggiunte
conquiste morali e sociali" e a riattivare la memoria
dell’origine dell’uno, che noi stessi e noi stesse siamo e che ci costituisce
in quanto esseri umani e cittadini - sovraní, sla rispetto a
noi stessi e a noi stesse sia rispetto agli altri e alle altre, e sui piano
personale e sul piano politico,
e di RAFFORZARE E VALoRIZZARE, in TUTTA la sua fondamentale e specifica portata, IL RUOLo e LA FUNZIONE della SCUOLA DELLA nostra REPUBBLICA DEMOCRATICA.
P.S.
"A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno
consapevolmente, che ogni straniero è nemico. Per lo più questa
convinzione giace in fondo agli animi come una infezione laiente,
si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine
di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il
dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo*,
allora, al termine della catena, sta il lager.
Esso è il prodotto di una
concezione del mondo portata alle sue conseguenze con rigorosa
coerenza: finché la concezione sussiste, le conseguenze ci minacciano"
*
"Tutti gli stranieri sono nemici.
I nemici devono essere soppressi.
Tutti gli stranieri devono essere soppressi".
Primo Levi, Se questo è un uomo, Prefazione, Torino, Einaudi, 1973, pp. I 3-14.
Andiamo alla radice dei problemi. Perfezioniamo la conoscenza di noi stessi e di noi stesse. Riattiviamo la memoria dell’Unita, apriamo e riequilibriamo il campo della nosha, personale e collettiva, coscienza umana e politica.
Sigmund Freud aveva colto chiaramente la tragica confusione in cui la Chiesa cattolico-romana si era cacciata (cfr. L’uomo Mosè e la religione monoteistica): "scaturito da una religione del padre, il cristianesimo divenne una religione del figlio. Non sfuggì alla fatalità di doversi sbarazzare del padre" ... Giuseppe (gettato per la seconda volta nel pozzo) e di dover teorizzare, per il figlio, il ’matrimonio’ con la madre e, nello stesso tempo,la sua trasformazione in ’donna’ e ’sposa’ del Padre e Spirito Santo, che ’generano’ il figlio!
Karol Wojtyla, nonostante tutto il suo coraggio e tutta la sua sapienza, fa finta di niente e, nonostante il ’muro’ sia crollato e lo ’spettacolo’ sia finito, continua a fare l’attore e a interpretare il ruolo di Edipo, Re e Papa.
QUIS UT DEUS? Nessuno può occupare il posto dell’UNO. Non è meglio deporre le ’armi’ della cecità e della follia e, insieme e in pace, cercare di guarire le ferite nostre e della nostra Terra?
"GUARIAMO LA NOSTRA TERRA": è il motto della
"Commissione per la verità e la riconciliazione" voluta da Nelson
Mandela (nel 1995 e presieduta da Desmond Tutu). In segno di attiva
solidarietà, raccogliamo il Suo invito...
"La realtà è una passione. La cosa più cara" (Fulvio Papi). Cerchiamo
di liberare ii nostro cielo dalle vecchie idee. Benché diversi,
i suoi problemi sono anche i nostri, e i nostri sono anche i suoi...
E le ombre, se si allungano su tutta la Terra, nascondono la luce e portano il buio, da lui come da noi... "nell’attuale momento focale
della storia - come scriveva e sottolineava con forza Enzo Paci già
nel 1954 (cfr. E. Paci, Tempo e relazione, Milano, Il Saggiatore,
1965 - Il ed., p. 184) - la massima permanenza possibile della libertà
democratica coincide con la massina metamorfosí verso un
più giusto equilibrio sociale, non solo per un popolo ma per tutti i
popoli del mondo".
* Cfr. Federico La Sala, L’enigma della Sfinge e il segreto della Piramide. Considerazioni attuali sulla fine della preistoria ..., Edizioni Ripostes, Roma-Salerno, Febbraio 2001, pp. 49-53.
In un convegno organizzato dalla Società Dante Alighieri a confronto Zagrebelsky e Carofiglio.
"Molti termini di uso corrente sono diventati oggetti contundenti"
di MANUEL MASSIMO *
Tempo di bilanci per i 150 anni dell’Unità d’Italia. Anche sulla lingua: uno degli elementi più importanti e "aggreganti" di un’identità nazionale sembra essere entrato in crisi, soprattutto a causa dell’appropriazione "indebita" di alcune parole da parte della politica, fenomeno oggi più che mai attuale. Uno spunto di riflessione arriva dal convegno organizzato a Roma dalla Società Dante Alighieri, nell’ambito del progetto "Pagine Aperte", per conversare con gli autori di due recenti scritti sul linguaggio della politica: "Sulla lingua del tempo presente" del presidente emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky - ordinario all’Università di Torino e presidente onorario dell’Associazione Libertà e Giustizia - e "La manomissione delle parole" dello scrittore - ex magistrato oggi senatore del Pd - Gianrico Carofiglio.
Scendere in campo. "Il lessico del berlusconismo è il prodotto di un ambiente". Il professor Zagrebelsky si sofferma sull’espressione con cui Silvio Berlusconi irruppe sulla scena politica il 26 gennaio 1994: "Scendere in campo: una metafora calcistica che rappresenta l’esatto contrario di quello che dovrebbe accadere in una democrazia". Un discorso in cui si sosteneva che ci fosse bisogno di un "deus ex machina", di un salvatore per uscire da una situazione difficile. Uno schema mentale - sostiene Zagrebelsky - che negli anni ha fatto scuola e influenzato profondamente il nostro modo di pensare: "Quando dall’altra parte (leggi: Partito Democratico, ndr) si attende l’arrivo di un ’papa stranierò non si sta forse ricalcando lo stesso modello?".
Innocenti evasioni. Secondo Zagrebelsky c’è un’altra espressione ormai entrata nel lessico comune - "mettere le mani nelle tasche degli italiani" - che trascina con sé l’idea che pagare le tasse non sia ciò che dice la Costituzione (cioè un dovere di cittadinanza) ma venga considerato come un borseggio. Quindi in pratica un via libera all’evasione fiscale "giustificata" attraverso il semplice uso di una formula: "Le metafore possono essere pericolosissime: sono dei trasferimenti, si prende un termine da un contesto e lo si trasporta in un altro ambito; ma tutto ciò che sta dietro a questo contesto di partenza tende a trasferirsi nel nuovo".
Maneggiare con cura. "Le parole sono come rasoi: pericolosi a seconda di chi li maneggia. Molte parole fondamentali del lessico civile sono diventate oggetti contundenti". Il senatore Carofiglio concorda sulla necessità di rispettare la natura delle parole però, a differenza di Zagrebelsky, ritiene che la comunicazione politica non possa fare a meno delle metafore: "Oggi il politico italiano che riscuote il maggior successo in pubblico è Nichi Vendola perché i suoi discorsi sono innervati di metafore che alludono all’esperienza sensoriale e non all’astrattezza concettuale. Questo è uno dei suoi punti di forza: l’uso consapevole di metafore che mettono in moto dei meccanismi interiori in chi ascolta".
Luoghi troppo comuni. La politica si è letteralmente impadronita di espressioni mutuate da altri contesti o coniate ex novo e le ha fatte diventare dei "luoghi comuni linguistici" di cui i cittadini - come denuncia Zagrebelsky - spesso non comprendono l’esatto significato. Si parla e si ragiona per frasi fatte, senza approfondire i concetti. Carofiglio sottoscrive e rilancia, elencando le parole oggetto di "furto": democrazia, libertà, amore. Ma anche le espressioni abusate o usate a sproposito di cui sarà difficile liberarsi: "lo scontro tra politica e giustizia", "le parole d’ordine della sinistra", "l’utilizzatore finale" e la lista potrebbe continuare ancora ad libitum.
Senza vergogna. Carofiglio sostiene che la vergogna - anche e soprattutto in politica - sia un sentimento da coltivare maggiormente: "L’incapacità di vergognarsi da parte di chi dovrebbe farlo è pericolosa: solo chi riesce a provare vergogna ha la capacità di praticare il suo contrario, cioè l’onore. La caratteristica della vergogna è di essere un segnale, un fondamentale meccanismo di tutela della salute morale". In mancanza di questo campanello d’allarme si rischia la degenerazione, si continua a perseverare nell’errore che non si riconosce come tale; capita così che perfino "comportamenti in bilico fra il malcostume da basso impero e il territorio del penalmente rilevante" che stanno monopolizzando da mesi l’agenda-setting della politica vengano esibiti con orgoglio e rivendicati davanti a tutti.
Interpretazione e omologazione. "Parole: bisogna conoscerne tante e usarne poche". Questa la formula aurea che Zagrebelsky individua per "tutelarsi" dai pericoli insiti nel linguaggio: "Dobbiamo cercare di usare poche parole: servono a comunicare ma ogni parola è un trabocchetto. Da giurista osservo che il legislatore cade in questo equivoco usando centinaia di parole: senza capire che ognuna di esse si presta a essere interpretata". Ma per poter decodificare la realtà che ci circonda occorre avere un buon bagaglio linguistico: "Se noi non abbiamo le parole non abbiamo neanche le idee". E contro il pericolo di un’omologazione della lingua - veicolata attraverso i mass media - è bene: "Coltivare la varietà del linguaggio e fare un buon uso - accurato, consapevole e cosciente - delle parole". E compiere ogni giorno il gesto rivoluzionario di cui parlava Rosa Luxemburg: "Chiamare le cose con il loro nome".
* la Repubblica, 17 febbraio 2011
A PARTIRE DA DUE - DA DUE PERSONE: NON PERDERE LA BUSSOLA!!! Né con la Cassazione né con il Vaticano!!! Con la Costituzione!!! (Federico La Sala)
SOCIETA’
Adottare da single, la Cassazione apre
Stop dal Vaticano: "Servono due genitori"
Esaminando una causa, la Corte suprema definisce "maturi" i tempi per un ampliamento dei criteri di adozione.
La Chiesa: i bimbi esigono madre e padre *
ROMA - I tempi sono ormai maturi affinché il Parlamento italiano apra alle adozioni di minori da parte dei single, anche se con le dovute cautele. Nulla in contrario è infatti previsto dalla ’Convenzione di Strasburgo sui fanciulli del 1967’ che contiene le linee guida in materia di adozione. L’esortazione arriva dalla Cassazione che - nella sentenza 3572 depositata oggi - sottolinea che "il legislatore nazionale ben potrebbe provvedere, nel concorso di particolari circostanze, ad un ampliamento dell’ambito di ammissibilità dell’adozione di minore da parte di una singola persona anche con gli effetti dell’adozione legittimante". Allo stato attuale, comunque, l’adozione legittimante rimane consentita solo ai "coniugi uniti in matrimonio, avendo finora ritenuto il legislatore tale statuizione opportuna e necessaria nell’interesse dei minori".
Un’apertura che ha mobilitato l’immediato altolà della Chiesa. Nei procedimenti di adozione "in linea generale, la priorità è il bene del bambino, che esige un padre e una madre", commenta infatti il cardinale Ennio Antonelli, presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia. "Non conosco nel dettaglio questo caso e il pronunciamento della Suprema Corte - specifica l’alto prelato - Ma in linea generale ogni bambino ha diritto a una madre e a un padre: questa dovrebbe essere la normalità ".
La sentenza della Suprema Corte si riferisce alla richiesta di una mamma adottiva di Genova di ottenere l’adozione nella formula pienamente legittimamente per la piccola bimba, con la quale ha vissuto insieme per due anni nella Federazione Russa e poi negli Usa, dove l’adozione è stata dichiarata efficace dal Tribunale della Columbia. Tuttavia alla mamma single, l’adozione - nella formula "speciale" - è stata consentita e trascritta qui in Italia, con decreto della Corte di Appello di Genova del 2009.
Con alcune limitazioni, come la necessità del consenso di un tutore legale per determinati atti che riguardano la minore, o con alcuni limiti, come la possibilità di ereditare dai parenti collaterali della mamma.
I supremi giudici ritengono, però, maturi i tempi affinchè anche le persone senza un partner possano adottare, con meno difficoltà, bambini rimasti soli o abbandonati. "Il legislatore nazionale - esorta la Cassazione in questa sentenza - ben potrebbe provvedere, nel concorso di particolari circostanze, ad un ampliamento dell’ambito di ammissibilità dell’adozione di minore da parte di una persona singola anche con gli effetti dell’adozione legittimante". In proposito, la Suprema Corte ci tiene a sottolineare che nelle norme della ’Convenzione di Strasburgo del 1967 sui fanciulli’ - che è la bussola di riferimento per le norme sulle adozioni - non c’è alcun tipo di preclusione a questa apertura.
* la Repubblica, 14 febbraio 2011
L’ANALISI
Dalla parte dei bambini
di CHIARA SARACENO *
I bambini hanno, prima ancora che diritto, necessità che qualcuno assuma nei loro confronti responsabilità e comportamenti genitoriali, ovvero la responsabilità di dare loro un posto nel mondo.
E dove possano stare e crescere con fiducia. Alla maggior parte dei bambini ciò è garantito dai genitori naturali, ovvero da quelli che li hanno concepiti. Ma per molti bambini, perché privi di genitori, o perché questi non sono in grado di fare fronte alle proprie responsabilità, chi si prende questa responsabilità sono altri: uno o più nonni, degli zii, dei genitori adottivi, o anche dei genitori affidatari. Opportunamente la Convenzione dei diritti del fanciullo non specifica la forma istituzionale che devono avere questi "altri": se debbano essere per forza una coppia, e se questa debba essere eterosessuale e sposata. Perché nelle culture e pratiche familiari presenti nei vari paesi la responsabilità genitoriale può essere più o meno condivisa e la coppia avere maggiore o minore centralità. Ciò che conta, per un bambino, è di essere accolto. Tanto più quando è segnato da un’esperienza di abbandono o di perdita.
Bene quindi ha fatto la Corte di Cassazione a consentire, a differenza di quanto era avvenuto qualche anno fa in una situazione analoga, almeno l’adozione speciale nel caso di una donna sola che da anni aveva fatto legalmente (secondo le leggi di altri paesi) da mamma adottiva alla sua bambina. Ci si potrebbe chiedere che cosa sarebbe accaduto in caso contrario: portata in Italia dalla sua mamma questa bambina sarebbe dovuta tornare, per legge, a uno status di orfana ed essere messa in adozione di nuovo? E bene ha fatto anche a segnalare al legislatore italiano l’opportunità di allargare le maglie dei potenziali "adottandi" secondo la normativa standard, non restringendoli più solo alle coppie (eterosessuali) coniugate al momento della delibera di adozione. L’adozione standard, infatti, a differenza di quella speciale (ormai riservata a casi di adozione di adulti, o di minori che hanno ancora rapporti con i genitori) integra pienamente il bambino adottato nella famiglia che lo accoglie, dandogli non solo genitori, ma anche nonni. Ed i genitori sono più pienamente tali, senza dover sottostare alla sorveglianza di un tutore legale. Non si tratta tanto di allargare il diritto ad avere un figlio, quanto, come avviene in molti altri paesi, di allargare il bacino di potenziali genitori, nel pieno rispetto delle procedure italiane di verifica e istruttoria poste a garanzia dell’interesse prioritario del bambino.
Non è sempre detto che due genitori, che siano naturali o adottivi, siano meglio di uno. La capacità genitoriale non è il risultato di un rapporto di coppia (e solo se questo è sanzionato dal matrimonio), ma in primo luogo una capacità che emerge e sviluppa nella interazione con un bambino. Il rapporto di coppia può rafforzare questa capacità nella comune assunzione di responsabilità. Ma può anche configgere con essa, o farvi resistenza. Quindi non può essere assunto come un requisito dogmatico imprescindibile. Soprattutto, quando un bambino privo di genitori incontra l’amore e l’accoglienza di un adulto, è alla capacità genitoriale di questi, e alla sua adeguatezza ai bisogni di quel bambino che occorre guardare. Sapendo che crescendo quel bambino, come tutti gli adottati, dovrà elaborare sia la conoscenza della perdita o abbandono dei genitori, sia l’acquisizione di almeno un genitore.
* la Repubblica, 15 febbraio 2011
«Un solo genitore meglio di nessuno»
intervista a don Gino Rigoldi
a cura di Paolo Foschini (Corriere della Sera, 15 febbraio 2011)
«Ma certo, che l’ideale sarebbe dare una famiglia a tutti: con un papà, una mamma, fratelli e sorelle. Tuttavia anche un genitore singolo, affidabile, è comunque meglio di nessun genitore: no?». Parola di don Gino Rigoldi, che di problematiche giovanili se ne intende non solo perché è il cappellano del carcere minorile «Beccaria» di Milano- oltre che il presidente di «Comunità Nuova» - ma anche perché lui stesso di figli adottivi ne ha due: «Sì, un croato e un marocchino. Ma erano già maggiorenni al momento dell’adozione. La Cassazione ha aperto una porta. «Lo trovo giusto. Poi ovviamente bisogna distinguere».
In che senso?
«Beh, per prima cosa in senso geografico. I minorenni italiani adottabili sono percentualmente pochi: e quindi è chiaro che in questi casi vada privilegiata una famiglia».
E poi ci sono i maggiorenni come i suoi.
«Che in quanto tali possono esprimere volontà anche assai precise: la questione riguarda gli altri».
Le migliaia di bambini soli nel mondo.
«Migliaia è dire poco. Se penso a quanti bambini nel mondo non hanno nessuno io credo che la possibilità di farli crescere anche con un singolo genitore, piuttosto che in una comunità, sia comunque da cogliere. Specie tenendo conto di quanto già è complicato ottenere l’idoneità come famiglia adottiva normale».
I controlli sono dettati da rischi reali.
«Certo. Ma basterebbe fare controlli analoghi sui single. E aggiungerei i separati: non sta scritto da nessuna parte che non possano essere genitori presenti, affidabili, sicuri. Oltretutto...».
Dica.
«Non basta la cornice di un padre e una madre per rendere sostanza quel che a volte è un mito. Ci sarebbero casi di single da privilegiare».
Per esempio?
«Per esempio i parenti. Se un bambino senza genitori ha uno zio o una zia single a cui è già affezionato, perché affidarlo ad altri?»
LA SFIDA EDUCATIVA
Il professore che riporta
Dante in mezzo al popolo
«Non proponiamo una lettura accademica, ma un’occasione aperta a gente di ogni età e condizione per riscoprire la cultura come strumento per entrare nella totalità della realtà. desideriamo aiutare a entrare nella Divina Commedia come un testo vivente». Fra Marco Finco, direttore del centro culturale Rosetum di Milano (via Pisanello 1), presenta così il ciclo di sei conversazioni sul Purgatorio tenuto dal professor Franco Nembrini a partire da stasera alle 21. «E per sottolineare il tasso di convivialità, proponiamo anche un happy hour prima di ogni incontro e spaghetti e birra a seguire, su prenotazione» (www.rosetum.it). Gli altri incontri sono in programma il 13 e 27 marzo, il 17 e 24 aprile e l’8 maggio.
Dall’esperienza trentennale di insegnamento di Franco Nembrini e dalle decine di incontri pubblici sono nati tre libri («Alla ricerca dell’io perduto») dedicati a Inferno, Purgatorio e Paradiso, e più recentemente «Dante, poeta del desiderio» (tutti per le edizioni Itaca), con una versione più ampia e radicalmente rivista anche alla luce delle letture dantesche fatte da Nembrini insieme ai giovani dell’associazione Centocanti. Un’occasione per rifare un viaggio verso «un bene... nel qual si queti l’animo».
Dedicato a quanti pensano che Dante è un arnese del passato, difficile da capire e pure un po’ noioso. Se sono disposti a sottoporre a verifica queste convinzioni - spesso frutto di semplice ignoranza o ereditate da infelici esperienze scolastiche - c’è un’occasione che sembra fatta apposta per loro: un ciclo di conversazioni sulla Divina Commedia, dedicato al Purgatorio e tenuto dal professor Franco Nembrini a partire da stasera al Teatro Rosetum di Milano (vedere box). Lui è uno che ne parla e ne scrive da trent’anni ma si schermisce: «Non sono uno specialista, solo un appassionato». Con la sua passione ha contagiato gente in tutta Italia: anzitutto i suoi studenti, ma anche decine di migliaia di giovani e di adulti a cui ha presentato il Sommo Poeta «come uno di noi, un uomo fatto di desideri e che riaccende il desiderio che ciascuno porta nel cuore».
Nembrini - insegnante di scuola superiore e da alcuni anni rettore dell’istituto «La Traccia» di Calcinate - lo fa con una modalità così efficace che le sue conferenze («no, guardi, chiamiamole conversazioni») sono diventate una sorta di «cult», segnalate con un passaparola tanto informale quanto efficace che stupisce lui stesso. Un vero fenomeno di cultura popolare.
Da dove nasce questa passione? «Nasce a dodici anni, una sera d’estate mentre stavo trasportando casse di bibite su e giù per le scale della cantina della drogheria dove lavoravo (eravamo dieci fratelli, padre bidello, appena possibile si andava a lavorare per dare una mano in casa). Rimasi folgorato da una terzina che avevo studiato e mi era tornata in mente: "E proverai sì come sa di sale/ lo pane altrui, e com’è duro calle/ lo scendere e ’l salir per l’altrui scale". È la terzina del Paradiso in cui il trisavolo Cacciaguida predice al poeta l’esilio, ma in quel momento era come se Dante parlasse di me, stanco e lontano da casa. Io cercavo le parole per dire la mia fatica, senza trovarle, e me le offriva un uomo vissuto seicento anni prima: potenza della poesia! Da allora la passione è cresciuta e l’ho sempre coltivata - prima da studente, poi da insegnante - perché più la leggo e più scopro che la Commedia racconta in modo unico l’esperienza mia e di tutti».
È un modo piano, alla portata di tutti, quello che il professor Nembrini usa con i suoi studenti per presentare il viaggio dantesco, un modo che "attizza". La voce si sparge, nella sua casa di Trescore in provincia di Bergamo la domenica sera diventa un ritrovo per decine di giovani, la cerchia si allarga, la voce arriva alle mamme incuriosite da quei figli vanno "a divertirsi" in quello strano modo. Una di loro lancia l’idea: "Professore, perché non ne parla anche a noi che non andiamo a scuola?". Quasi per scommessa nasce "Dante per le massaie", un ciclo di incontri che fa il tutto esaurito negli 800 posti del teatro Donizetti di Bergamo. Una passione contagiosa: nel 2005 un centinaio di giovani fonda Centocanti, il cui statuto prevede che ogni socio conosca un canto a memoria, così che l’intera associazione diventa una sorta di Divina Commedia vivente (www.centocanti.it). Alcuni di loro cominciano a girare per scuole e centri culturali riproponendo la lettura di Dante che hanno imparato "dal Franco", inoltre si sviluppa un lavoro sistematico di lettura critica del poema che sfocia in convegni a cui partecipano anche studiosi e accademici.
Ma lui, Nembrini, continua a dire che non è uno specialista. "Piuttosto un ’esperto’, cioè uno che ha fatto l’esperienza di leggere Dante a migliaia di ragazzi e di adulti, e ha visto crescere la passione e l’ha vista nascere in chi lo ascolta". Perché questo modo "popolare" di parlare di Dante riscuote così tanto successo di pubblico, anche tra la gente comune? "Perché Dante stesso ha scritto per il popolo («in pro del mondo che mal vive», come dice nel canto XXXII del Paradiso) e nella lingua del popolo, il volgare. Su suggerimento dei ragazzi di Centocanti ho recuperato il testo di una petizione che i cittadini di Firenze fecero intorno al 1360 al podestà e ai priori, perché, dicono, «desiderano tanto per se stessi quanto per altri cittadini aspirare alla virtù», e chiedono una serie di letture e spiegazioni della Commedia per tutti, che poi fece Boccaccio. La riduzione di Dante a una questione da eruditi è un’abitudine moderna; leggerlo per tutti è semplicemente restituirlo alla sua intenzione originaria: lui parla della vita di tutti, e infatti la gente si riconosce nella sua avventura umana e si appassiona".
Tra pochi giorni la scommessa di Nembrini sbarca in un teatro di Milano e punta sul Purgatorio. «È la cantica della misericordia. Lì sono puniti gli stessi peccati dell’inferno - è una montagna divisa in sette balze, una per ciascun vizio capitale - ma con dentro la speranza del perdono. È ciò che somiglia di più alla vita su questa terra, dove non siamo ancora dannati e non siamo ancora beati. Somiglia alla terra perfino geograficamente: c’è il sole, il tempo, la luce che va e che viene; e c’è la lotta, la guerra è tutta contro un male di cui si sa però che alla fine è vinto, perdonato. In fondo, è una promessa a cui guardare, specie in questo tempo travagliato. Il travaglio precede il parto».
Giorgio Paolucci
* Avvenire, 06 marzo 2012