Oggi, 8 Aprile 2012, è Pasqua per il calendario cristiano. Per l’Islam è 16 Giumada al-Ula 1433 e, secondo gli ebrei, 16 Nisan 5772. In Iran, invece, è 20 Farvardin 1391.
Una parte del mondo festeggia e i signori del signoraggio prendono i nostri soldi. Le banche ci hanno levato il futuro. In Italia, l’Inps regala le uova di Mastrapasqua. Il sole cala sui Monti Golgota. Bersani somiglia a Pilato. Belsito, il tesoriere, ricorda uno dei ladroni in croce. L’altro avrebbe, spiega un prelato, un che di Bossi. In questa revisione del Testo, un Nietzsche riccio scrive il suo Also sprach. I Draghi dicono al Biscione di riprendere il suo veleno, giacché "non può un serpente uccidere un drago".
Federico La Sala propone un ponte fra la sua Contursi e Fiore. Inserisce Mariano Arciero, fra poco beato, nella corrente spirituale di Gioacchino e Francesco di Paola. L’Età dello Spirito, e quindi della Rivoluzione, si annuncia vicina; anzi, imminente.
La Patria di Dante non può perire per causa degl’ignoranti. Tecnici o politici. C’è la carica dell’eredità di Paolo Borsellino: la Trattativa emerge chiara, le risorse si stanno prosciugando, il fondo raggiunto, l’economia cancellata dalle speculazioni della finanza.
La tv ci parla di crescita, con proiezioni di menzogne. L’ora, è l’ora di riprenderci il futuro. Da qui a tre mesi, l’Italia non sarà la stessa. Cadranno i veli, e la verità sarà evidente.
E sarà il cammino dell’inizio. Non della fine. Buona Pasqua. Con profezia. (8 Aprile 2012)
Il Nietzsche di Calabria
LA FIGURA DI PILATO E IL "PELLEGRINAGGIO" CHE PORTA DANTE A DIVENTARE UN ALTRO CRISTO, A RINASCERE E A RITROVARE L’AMORE CHE MUOVE IL SOLE E LE ALTRE STELLE... *
Il gran rifiuto (Inf. III 59-60)
di Romano Manescalchi (Independent Scholar),
Princeton.edu, 8 April 2014.
L’intervento di Lanza sul «gran rifiuto» riapre con grande determinazione la discussione riguardo il personaggio cui Dante si sarebbe riferito, discussione ultimamente sopita generalmente in favore di Celestino V.[1] In buona sostanza, ma in una sintesi necessariamente riduttiva, il Lanza evidenzia che l’atto di Celestino V non apparve riprovevole, se non a pochi estremisti, gli spirituali, che con Ubertino da Casale non ritennero valida l’abdicazione di Celestino, mentre generalmente apparve un atto di responsabilità, tanto che la Chiesa lo fece santo. Dante dagli spirituali rimarcò sempre le distanze;[2] ed aggiungerei che, per contro, Dante si trovò a lodare chi è capace di rinunciare ad un incarico per non sentirsi all’altezza, favorendo i meritevoli: «Molti rifiutan lo comune incarco» (Purg. vi 133); e a condannare quanti son sempre pronti a dire, irresponsabilmente, senza un minimo esame di coscienza «I’ mi sobarco» (ivi, 135).
Ma non intendo riassumere qui le sostanziose ragioni con le quali viene riproposta dal Lanza la candidatura di Ponzio Pilato e confutate le ragioni in favore di altri (Esaù, Celestino V soprattutto, Vieri de Cerchi, Giano della Bella, Giuliano l’Apostata, Romolo Augustolo ecc.), né ci sarebbe qui lo spazio per farlo. Qui vorrei solo aggiungere alcune mie considerazioni che vanno nella stessa direzione.
Innanzitutto una considerazione grammaticale e stilistica: «il gran rifiuto» può intendersi, su base grammaticale, in due modi: «quel gran rifiuto, che tutti conosciamo per averlo direttamente constatato», con «il» semplicemente indicativo; e la mente, in questo caso, va ad avvenimenti e personaggi recenti: Vieri di Cerchi, Giano della Bella, Celestino V ecc. Ma può intendersi anche «quel gran rifiuto di cui nessun altro è maggiore, il “gran rifiuto” per eccellenza, per definizione, per antonomasia»;[3] ed alla mente non può ricorrere se non Ponzio Pilato, con «il» che viene ad avere un valore superlativo, “antonomasico”. Ed ora il procedimento di Dante è questo: egli sostituisce i personaggi astratti del poema classico allegorico, semplici e unidimensionali personificazioni - vedi la Psicomachia di Prudenzio - con personaggi tratti dal mondo reale, indifferentemente della storia passata e del mito, o della cronaca dei suoi tempi. E la regola è questa: si sceglie il personaggio che meglio possa rappresentare quel peccato o vizio o virtù, che quel peccato o vizio o virtù lo rappresenti nel modo più eccellente, ne sia quasi la personificazione.
E da questo punto di vista Ponzio Pilato non ha rivali nell’indicare chi non si vuol compromettere, chi si ritira da un suo specifico dovere per viltà. Appartiene alle viscere del nostro linguaggio, da cui continuamente riemerge, il dire: «Ti comporti come Ponzio Pilato. Sei un Ponzio Pilato», come si dice «Sei un Giuda», frasi quasi altrettanto comuni come l’altra parallela del «lavarsene le mani», che comunque è ancor più ricorrente nel comune quotidiano parlare e rafforza in pari grado, o forse di più, le nostre argomentazioni. Dante avrebbe potuto trarre il personaggio esemplare dell’ignavo anche dalla cronaca quotidiana, come fa in tanti altri casi, riempiendo tra l’altro l’inferno con i suoi concittadini. Poteva quindi benissimo ricorrere a Celestino V, come a Vieri dei Cerchi o altri. Ma nessuno di questi personaggi può insidiare minimamente la candidatura di Ponzio Pilato, senz’altro il personaggio più rispondente, più adatto, ad incarnare il prototipo dell’ignavo, come gli riconosce senza obiezione alcuna tutta la nostra cultura, a cominciare, come detto, dal quotidiano parlare.
Vediamo ora il problema nell’economia della Commedia, nella cattedrale che anche è la Commedia, sintesi della storia universale dell’umanità in versione biblico-cristiana. Questa storia universale ha il suo punto centrale nella Redenzione della Croce, nella Crocifissione di Gesù. Non conosco racconto della storia della Crocifissione tante volte fatto dai pittori nelle cattedrali appunto, in cui manchino, accanto a Gesù, Pilato e Giuda. Ed ora Dante riconosce ed esalta i “meriti” di Giuda, dedicandogli a perpetua memoria - addirittura “eterna memoria” nel suo caso - un settore dell’inferno, la Giudecca, che appunto prende da lui il nome, dove anche grandeggia la sua statua vivente in una delle bocche di Lucifero (Inf. xxxiv vv. 61-63). Né è un settore qualunque quello a lui dedicato, bensì il più importante, dove è la reggia del sovrano infernale: diciamo che la Giudecca è la city della città infernale. Non penso proprio che Giuda si possa lamentare del trattamento che Dante gli ha riservato.
Ma lamentare si dovrebbe Pilato di cui non ci sarebbe nella Commedia, se gli togliamo di essere l’innominato di Inf. iii 59-60, niente altro che un fuggevole richiamo a Purg. xx 91 e solo per designare con il paragone con lui il sovrano di Francia Filippo IV. Davvero troppo poco. E se così fosse, dopo il tanto da lui fatto con il suo non far nulla, avrebbe ben motivo di rivoltarsi nella tomba contro un Dante tanto ingrato, dal momento che anche grazie a lui il poeta può fare questo pellegrinaggio[4] di redenzione che è la Commedia e guadagnarsi lui stesso il paradiso, grazie proprio a lui che in compenso del bene fatto (col non far nulla) come allo stesso poeta così a tutti i cristiani, dovrà subire pene eterne nell’inferno, pene che il poeta fiorentino non gli avrebbe nemmeno voluto determinare! E se non è troppo questo!
Dante darebbe a Pilato maggior rilievo a Mon. II xii 5-6: «Si ergo sub ordinario iudice Christus passus non fuisset, illa pena punitio non fuisset. Et iudex ordinarius esse non poterat nisi supra totum humanum genus iurisdictionem habens, cum totum humanum genus in carne illa Christi “portantis dolores nostros”, ut ait Propheta, puniretur. Et supra totum humanum genus Tiberius Cesar, cuius vicarius erat Pilatus, jurisdictionem non habuisset, nisi Romanum Imperium de iure fuisset. Hinc est quod Herodes, quamvis ignorans quid faceret, sicut et Cayphas cum verum dixit de celesti decreto, Christum Pilato remisit ad iudicandum... », dove il ruolo, comunque ragguardevole, avuto da Pilato è riconosciuto a chiare lettere, come anche a Mon. III xv 5 e ad Ep. V 28.
E dunque tanta importanza, quanto a mio avviso gli spetta, Dante dà a Pilato nella Monarchia, l’opera dantesca più vicina, per tematica e mole, alla Commedia, tanta in una lettera, comunque di molto peso come l’Ep. V indirizzata ai reggenti d’Italia, anche se di dimensioni indiscutibilmente minori; e non nominerebbe mai Pilato, direttamente, nella Commedia? A me pare molto, troppo, strano. Il personaggio è onnipresente nell’iconografia cristiana della Crocifissione e sarebbe assente nella Commedia, che è indiscutibilmente il massimo monumento laico della cristianità! È tanto inaccettabile quanto incomprensibile.
Da qualche parte Pilato deve essere anche nella Commedia e se non qui, a Inf. iii 59-60, dove? Nella storia universale della Chiesa (e dell’umanità) - da intendere in chiave biblico-cristiana - il personaggio di Pilato ha un grande rilievo come gli riconosce tutta l’iconografia e, come anche detto, il linguaggio spicciolo quotidiano. Celestino V e gli altri in questa prospettiva sono irrilevanti. Nel quadro specifico poi della Crocifissione, l’elemento centrale di quella storia universale in versione cristiana ed elemento centrale della Commedia che quella storia universale ha per suo sfondo e, direi, addirittura per suo oggetto, Pilato è un elemento addirittura indispensabile come lo è Giuda. Da qualche parte Dante deve averlo messo e il luogo più giusto è senz’altro tra gli ignavi. E se è tra gli ignavi nessuno gli può togliere - sarebbe una vera usurpazione - il diritto di rappresentare la categoria, che riconosce in lui, per il consenso di tutte le genti (cristiane), il suo massimo rappresentante.
Ci sarebbe anche un parallelismo: l’episodio della Crocifissione inizia con Pilato che, pur riconoscendo Cristo innocente, non fa il suo dovere, piegato dalla pressione della folla. E con Pilato posto nell’Antinferno comincerebbe la “crocifissione” di Dante, che ad una “crocifissione” del proprio ego lo porta il suo “pellegrinaggio” al santuario del Paradiso.[5]
Non mi sfugge che Inf. iii 59 - «vidi e conobbi» - crea delle difficoltà. Osserverei che si deve distinguere tra il “riconoscere” del v. 58, immediatamente precedente ed il “conoscere” del v. 59, volendo certo il poeta distinguere «quelli riconosciuti direttamente e quello che gli fu fatto conoscere da Virgilio» (Lanza, op. cit., p. 85) . Prosegue il Lanza: «Se si vuole un chiaro esempio di conobbi in questo senso, si veda il v. 122 del canto iv (ibidem), ovvero «tra quai conobbi Ettòr ed Enea». Vedi anche «sopra “riconosce”, qui “conosce”, vede in faccia» D. Mattalia, ad locum.
[1] Cfr. A. Lanza, Uno specchietto per allodole non previsto da Dante: Celestino V (Inf. iii 59-60, SD, lxxviii, 2013, pp. 45-100.
[2] Vd.: «ma non fia da Casal né d’Acquasparta» (Par. xii 124).
[3] L’espressione «per antonomasia» viene usata anche dal Lanza, op. cit. p. 93, ma riferita a Pilato e non all’espressione «gran rifiuto».
[4] Uso il termine “pellegrinaggio” soprattutto in onore di Vincenzo Barelli, il quale ha dato l’avvio alla interpretazione moderna delle tre fiere come «le tre disposizion che il ciel non vuole», ed è oggi totalmente dimenticato, indegnamente dimenticato visto che la sua scrittura è di alto spessore; vd. L’allegoria della Divina Commedia di Dante Alighieri / esposta da Vincenzo Barelli, Firenze, Galileiana, 1864, p. 64.
[5] Per questo concetto di “crocifissione” dantesca si tenga presente: «Si quis vult post me venire, abneget semetipsum et tollat crucem suam» ( Matth. XVI 24); «Qui autem sunt Christi, carnem suam crucifixerunt, cum vitiis et concupiscentiis» (Ad Galatas v 24); «Ego enim per legem, legi mortuus sum, ut Deo vivam; Christo confixus sum cruci. Vivo autem jam non ego; vivit vero in me Christus» (Ibidem ii 19-20). È questo il traguardo che Dante deve raggiungere con la Commedia.
* Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura. della DIVINA COMMEDIA"
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
Noi siamo Cristo risorto!
di Raymond Gravel
in “www.lesreflexionsderaymondgravel.org” del 13 aprile 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Per 50 giorni, o meglio 49 giorni (7x7), la Chiesa dispiega la festa di Pasqua. Questo tempo termina il 50° giorno, che si chiama Pentecoste. Sant’Attanasio diceva infatti che c’è solo un’unica domenica di Pasqua che si prolunga fino a Pentecoste. Così, se è vero che senza Pasqua non ci sarebbe mai stato Natale, sappiamo che prima di essere annuale, la celebrazione pasquale fu, per i primi cristiani, settimanale: ogni domenica era un memoriale della Resurrezione del Signore. Solo nel II secolo la Chiesa ha scelto di celebrare ogni anno la festa di Pasqua. Ma in realtà, ogni domenica è Pasqua, poiché celebriamo il memoriale della morte-resurrezione di Cristo.
Purtroppo, nella Chiesa cattolica, a partire dal XVI secolo, nel conflitto con i Protestanti, si è talmente insistito sul sacrificio della messa che ci ricorda il sacrificio della croce, che si è messo in secondo piano il memoriale della Resurrezione. Eppure non si possono separare le due cose: la messa, cioè l’Eucaristia è il memoriale della morte-resurrezione di Cristo, ed è quindi la festa di Pasqua.
Oggi i testi biblici che ci sono proposti sono ricchi di senso e di significati. Eccone alcuni:
1. L’ideale della Chiesa primitiva. Nella prima lettura di oggi, nel libro degli Atti degli Apostoli, abbiamo il secondo sommario di tre, sull’ideale proposto dai primi cristiani. Questo sommario riprende ciò che era stato il tema del primo: la predicazione apostolica ed il suo successo presso le folle (Atti 4,33). Luca inserisce questo versetto tra due descrizioni della vita interna della comunità cristiana:
“La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune” (Atti 4,32).
“Nessuno tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano il ricavato di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli. Poi veniva distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno” (Atti 4,34-35).
Queste due descrizioni del vissuto dei primi cristiani possono sembrare irrealistiche ed utopistiche, ma si tratta invece di un ideale proposto dalla Chiesa primitiva, a partire dal concetto dell’amicizia greca vantata da Aristotele: “Gli amici hanno una sola anima tra loro e i beni sono proprietà comune”, e a partire da una rilettura del libro del Deuteronomio sulla ripartizione della ricchezza:
“Non vi sarà alcun bisognoso in mezzo a voi” (Dt 15,4).
È evidente che tanto tra i primi cristiani che tra i cristiani di oggi c’è una grande distanza dall’applicazione di questo ideale. L’episodio di Saffira e di Anania riferito dagli Atti (Atti 5,1-11), ce lo mostra chiaramente. Del resto, anche oggi, dobbiamo lasciarci interpellare da questo ideale; siamo ancora lontani dalla sua realizzazione. Tuttavia, la fede cristiana lo esige.
2. Nati da Dio, siamo Cristo risorto. Che bella la lettera di Giovanni che ci dice la dignità di coloro che credono nel Cristo risorto: “Chiunque crede che Gesù è il Cristo, è stato generato da Dio; e chi ama colui che ha generato, ama anche chi da lui è stato generato” (1Gv 5,1). Pasqua è presentata come una nuova creazione, già sulla croce del Venerdì santo, la Chiesa è nata, e la sua missione comincia la mattina di Pasqua. San Giovanni Crisostomo, nel IV secolo, diceva: “Uscì dal suo costato sangue ed acqua (Gv 19,34)... Ho detto che quell’acqua e quel sangue erano il simbolo del battesimo e dei misteri (l’eucaristia). Ora, la Chiesa è nata da questi due sacramenti: da questo bagno della rinascita e del rinnovamento nello Spirito, dal battesimo quindi, e dai misteri. Ora, i segni del battesimo e dei misteri provengono dal costato. Quindi è dal suo costato che Cristo ha formato la Chiesa, come dal costato di Adamo fu formata Eva”.
Allo stesso tempo, tutto è Amore: “In questo riconosciamo di amare i figli di Dio: quando amiamo Dio” (1Gv 5,2a), e, per amare Dio, bisogna prima di tutto amare i suoi figli: “Se uno dicesse: ’Io amo Dio’, e odiasse suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1Gv 4,20). E l’amore si manifesta nel nostro modo di essere e nel nostro modo di vivere come cristiani: “In questo infatti consiste l’amore di Dio: nell’osservare i suoi comandamenti; e i suoi comandamenti non sono gravosi” (1Gv 5,3). Il che ha fatto dire a Sant’Agostino, nel IV secolo: “In ciò che si ama, o non c’è fatica, oppure questa stessa fatica è amata”.
3. La missione cristiana: pace, gioia, liberazione, speranza e presenza. La pagina di vangelo che leggiamo ogni anno nella seconda domenica di Pasqua costituiva, agli inizi della Chiesa, la fine del vangelo di Giovanni. Il capitolo 21 è un’aggiunta posteriore, con la quale l’autore o gli autori hanno voluto riconciliare i cristiani che credevano nel ruolo particolare di Pietro e quelli che accordavano un posto preponderante al discepolo che Gesù amava. La pagina del vangelo di oggi comporta dei messaggi importanti:
1) L’apparizione ai discepoli la sera di Pasqua e la domenica successiva significa innanzitutto l’importanza della riunione domenicale, come luogo di incontro del Risorto. Di modo che, nella prima riunione, Tommaso è assente; non ha quindi potuto fare l’esperienza del Risorto. Solo la domenica successiva ha potuto anche lui incontrare il Signore. Il che significa che ancora oggi è possibile anche a noi vivere l’esperienza del Risorto nelle nostre riunioni domenicali.
2) Durante queste riunioni, Cristo si fa presente, nonostante le nostre porte chiuse a chiave. Ed è presente per darci la sua pace. Ma in quale modo lo si riconosce? Giovanni ci dice che il Risorto di Pasqua è proprio il Crocifisso del Venerdì santo. Si tratta quindi di una continuità tra il Gesù del Calvario e il Cristo della mattina di Pasqua. In fondo, la Resurrezione non abolisce la passione, la sofferenza e la morte; le trasforma, ne rivela il senso. Soprattutto non dimentichiamo che siamo alla fine del I secolo, in piena persecuzione cristiana, Per questo, è vedendo gli altri, e specialmente coloro che portano i segni e le ferite del crocifisso, che i partecipanti alla riunione riconoscono il Signore e provano una grande gioia: “I discepoli gioirono al vedere il Signore” (Gv 20, 20b). La pace li invade: “Pace a voi!” (Gv 20, 19b.21a).
3) Riuniti in nome della nostra fede e della nostra appartenenza a Cristo, siamo ricreati, investiti del suo Spirito: “Detto questo soffiò e disse loro: ’Ricevete lo Spirito Santo’” (Gv 20,22). È la Pentecoste, è la missione che comincia. Questa nuova creazione fa dei discepoli dei Cristi risorti. Bisogna quindi aprire le porte e partire ad annunciare questa Buona Notizia che Cristo è vivo, che ci assicura la sua presenza, che ci lascia la sua pace e che ci offre la liberazione, la libertà: “A coloro a cui perdonerete i peccati saranno perdonati; a coloro a cui non li perdonerete non saranno perdonati” (Gv 20,23). È una responsabilità: si ha il potere di liberare la gente o di rifiutare di farlo. Una cosa è certa, se vogliamo assomigliare a Cristo, la liberazione è obbligatoria.
4) Assente dalla prima riunione, Tommaso, che è, insieme, il nostro gemello e il nostro modello nella fede, non ha fatto l’esperienza del Risorto. Sentiva la testimonianza degli altri, ma gli ci voleva qualcosa di più: “Se non vedo nelle sue mani il segno e se non metto il mio dito nel suo fianco, io non credo” (Gv 20,25b). Alla riunione della domenica successiva, Tommaso è presente. Il testo di Giovanni non dice che Tommaso ha toccato le piaghe di Cristo... Dice semplicemente che le ha viste, e il verbo vedere, nel vangelo di Giovanni ha lo stesso senso del verbo credere: vedere porta necessariamente alla fede. Per questo, l’evangelista Giovanni ci presenta Tommaso non come un incredulo, ma proprio come un modello di fede. L’espressione: “Mio Signore e mio Dio” (Gv 20,28) è la più bella professione di fede del discepolo che incontra il Risorto.
5) La Beatitudine che segue al versetto 29: “Beati coloro che credono senza aver visto”, si rivolge a tutti i cristiani di tutti i tempi che sono invitati a credere sulla testimonianza dei primi testimoni, cioè di coloro che hanno conosciuto Gesù di Nazareth e che, dopo la sua morte, lo hanno riconosciuto vivente nella comunità dei suoi discepoli. La loro esperienza del Risorto è unica, nel senso che possono verificare la sua autenticità rispetto a quel Gesù che hanno conosciuto, seguito, amato, accompagnato fino alla morte. Sono in qualche modo dei testimoni privilegiati, ed è sulla loro testimonianza che si fonda la fede nostra, di noi, discepoli di oggi.
Terminando vorrei condividere con voi questo bellissimo commento dell’esegeta francese Jean Debruynne su questa pagina di vangelo:
LA DOMANDA DI UN ITALIANO:
E’ PREFERIBILE "RISURREZIONE" O "RESURREZIONE"?
RISPOSTA:
Vanno bene entrambi. Ma! Ma...
Ma siccome qui (in modo latente e sottile) è in gioco anche la Costituzione della Repubblica Italiana e lo stesso Messaggio Evangelico, e la nostra - di tutti e tutte sovranità (e sacerdotalità - con don Milani, ricordiamo anche Lutero e la Riforma: rimettiamo insieme i pezzi), per memoria sonora (di significante e di significato) - è da preferire (con il conforto di Michele Arcangelo e di Melchi-tzedech, come di Mosè, di Elia, e Gesu’... è preferibile
RE-surrezione!!!
Una ri-surrezione che è - più propriamente - una re-surrezione, la Resurrezione di Gesù, e la re-stituzione della Libertà a ogni essere umano, a ogni cristiano e a ogni cristiana - della libertà dalla schiavitù e dalla morte!!!
PASQUA: CHE COSA RICORDIAMO?
RICORDIAMO (e rin-grazia-mo) che L’AMORE è PIU’ FORTE DI MORTE (Cantico dei cantici: 8.6)!!!
Se no, che ricordiamo?! La nostra totale generale stupidità?!
(Federico La Sala)
sono stato a san giovanni in fiore mancavo da molto non ho notato niente di nuovo, il freddo anche in aprile sempre pungente. Sale a miglior vita GABRIELE PILUSO, sul vostro sito nemmeno una righa eppure e’ stato un ex sindaco ma forse non e’ dei vostri. Apro il web incappo in vecchi articoli da voi scritti ne leggo qualcuno CHE DIFFERENZA, ne sfornavate tanti contro la giunta precedente, io ancora aspetto....... EPPURE SI POTREBBE ANCORA SCRIVERE E TANTO. A PROPOSITO oltre a GABRIELE PILUSO E’ MORTO ANCHE ALESSIO ALESSINO bandiera della mitica SILANA qualche notizia ve la passo .
giovanni.l. rende
Lei è un idiota, un vigliacco e un bugiardo. La sua sensibilità è nulla. Per chiudere: ce ne vuole di perversa cattiveria per far politica anche davanti alla morte, peraltro mentendo spudoratamente. Un consiglio: si tenga lontano da questo sito, se deve scrivere, protetto da pseudonimo, queste volgarità. Che offendono i morti e anche i vivi.
Emiliano Morrone
Guardi, prima di scrivere bisogna sapere. Non sopporto i pensieri sbrigativi, la sufficienza, l’imprecisione e il qualunquismo. Siccome accetto le critiche, ma quando fondate e articolate, la invito a non essere sbrigativo, sufficiente, impreciso e qualunquista. Possiamo parlare in qualsiasi lingua e con l’adozione della grammatica che le pare, ma restando ai fatti. I fatti dicono che "la Voce di Fiore" ha raccontato per anni la politica e la vita a San Giovanni in Fiore ed oltre. Ben oltre. Senza partigianeria, senza promuovere i guelfi e stroncare i ghibellini. Due sono le cose: o non è informato o gioca a prendersi per i fondelli. Mi auguro per lei che non sia la seconda. In quanto alla sua osservazione di fondo, il fatto di non aver letto sul nostro sito memorie sull’ex sindaco Gabriele Piluso, la rinvio a "il Crotonese" di oggi. Non mi deve dire lei quando e che cosa devo/dobbiamo scrivere. Infine, la coda di paglia ce l’ha lei. Io mi firmo con nome e cognome, lei con uno pseudonimo che non le RENDE onore.
Cordiali saluti,
em