Editoriale

Calabria: Mario Oliverio, che scende sotto il 50% a San Giovanni in Fiore, va al ballottaggio per la Provincia di Cosenza

Una campagna elettorale costosissima, con azioni prepotenti e irrispettose, non gli è valsa all’intronizzazione
domenica 14 giugno 2009.
 

Mario Oliverio ha perso. È un fatto. Il candidato del Pd, quattro volte deputato, consigliere e assessore regionale in un ventennio, non è riuscito a farsi rieleggere presidente della Provincia di Cosenza.

Ora ha il magone del ballottaggio, il che è una goduria immensa: dovrà bussare a ogni porta, compresa la mia, chiusa da anni per trasferimento obbligatorio. Sarà costretto a supplicare chicchessia, a prospettare il paradiso, per rientrare a palazzo, in una provincia squassata da disparità, disoccupazione, emigrazione. Dovrà inventare qualcosa di credibile per ben due settimane, ma con l’angoscia di numeri che lo danno à la maison, se l’Udc e Roberto Occhiuto, avversari al primo turno, sosterranno il rivale del Pdl Pino Gentile, assieme agli autonomisti di Raffaele Lombardo.

La caduta dall’Olimpo del divo, stalinista vestito blu notte, era chiara, annunciata, fin troppo prevedibile. Per tutta la campagna elettorale, Oliverio è apparso confuso, spiazzato, tremante, insicuro, nervoso. L’ha condotta con una fifa tremenda, tra patemi, clamori e fesserie politiche. Ha tagliato nastri, inaugurato rotonde e bretelle stradali costruite in fretta e furia. Ha tentato la quadratura del cerchio, politicamente simulando un attaccamento viscerale al territorio; con operine pubbliche, parate, dimostrazioni di forza cantate da tv, giornali e siti amici. S’è portato dietro il codazzo: amministrativi in fibrillazione, sindacalisti rugginosi e ragazzini addestrati, fieri di esibire una maglia di interesse antropologico, con scritto, a ribadire un’identità politica - e forse persino ontologica, a giudicare dagli eroici furori inscenati -, «Oliverio è il mio presidente».

Al suo posto, avrei puntato su un programma coerente, su scelte precise, espressione di rinnovamento vero. Ma non siamo tutti uguali: chi calcola, Oliverio è un ragioniere, spesso non vede più avanti del suo naso, convinto d’essere infallibile e, rimembrando Spinoza, «perfettissimo».

Ormai, Oliverio non ha più nulla di sinistra, come diversi colleghi delle stanze romane. Non gli resta - l’osservatore libero non ci crede più - che proclamarsi erede d’una tradizione tradita da tempo, pure scomparsa dai simboli e dal linguaggio di suoi vicini.

Nelle sue liste, il gubernator, più noto come U lupu, ha inserito presidenti di consiglio comunale, vicari di sindaci, segretari di assessorati regionali e Luigi Garofalo (Psdi, ex Udeur), coinvolto in «Omnia» (processo contro la ’ndrangheta) e sospettato di voto di scambio nella vicenda, che tocca vertici politici e il clan dei Forastefano.

Come quadrupedi, che delimitano gli spazi orinando, gli adepti di Oliverio hanno attaccato striscioni e poster ovunque; perfino, e senza sanzioni, sui muri dell’ospedale di San Giovanni in Fiore (Cosenza), sugli alberi, i balconi delle case. Fortuna che, presente, ho fermato l’affissione d’un folle, intenzionato a coprire un manifesto funebre.

I sostenitori di U lupu hanno marchiato vie, palazzine, negozi e impalcature con la faccia pensosa del loro leader, stampata finanche su immensi teloni di plastica. Un’azione selvaggia, prepotente, violenta e irrispettosa che documenta, ove ignoto, quanto il personaggio domini psicologie individuali e collettive, coadiuvato da consiglieri comunali che a San Giovanni in Fiore stazionano davanti ai seggi, consigliando democraticamente gli elettori, salutati con pacche, salamalecchi e sorrisi Durban’s.

Ma tutto ha una spiegazione, assolutamente razionale. Oliverio è nato a San Giovanni in Fiore, paesone calabrese di miseria e nobiltà, smembramento sociale e cementificazione autorizzata. Presto è diventato referente politico degli operai, in seguito privati della coscienza di classe, zittiti con sussidi, favori e clientele di varia provenienza. Senza distinzione di partito.

Finito il Pci, Oliverio ha saputo riciclarsi avvicinandosi alla Chiesa, cambiando look e ripudiando nell’estetica la sinistra proletaria delle origini. Per restare a galla e celebrarsi politicamente, ha chiuso qualsiasi spazio di confronto, circondato da adulatori e "servi", pronti ad agire in autonomia, pur di guadagnarsi il favore e le simpatie del “dominus”.

San Giovanni in Fiore l’ha sempre colmato di consensi, malgrado i disastri politici del Nostro, preoccupato della carriera più che della sua - e mia - terra, distrutta dal degrado morale, culturale e umano, figlio d’una dipendenza politica cieca, assurda, fatale. Ovvio, quindi, che, per eterno ritorno, cercasse intra moenia, ricuperando reattivi e dissidenti, le risorse per la definitiva intronizzazione; in un momento critico per la Calabria in cui, nonostante l’assassinio di Fortugno, l’immobilità amministrativa di Loiero e le porcherie emerse da Why not, sopravvivono politici di vecchio stampo come Mario Pirillo, da poco eletto parlamentare europeo. Promoveatur ut amoveatur.

Per compiere il balzo, a Oliverio serviva una campagna elettorale basata su slogan ed effetti speciali; specie a San Giovanni in Fiore, per cui, considerando l’ossessiva occupazione degli spazi pubblici, evidentemente s’è speso meno che altrove.

Così, abbiamo assistito a trovate tipo «La città di San Giovanni in Fiore sostiene Mario Oliverio», una balla impressa su manifesti variopinti e onnipresenti. Ancora, abbiamo visto sfilare furgoni con tanto di parabola satellitare per il suo comizio conclusivo dal palco; e, per chiudere in bellezza, la distribuzione di gadget del Pd, episodio che rievoca passaggi ironici d’un testo teatrale di Giampaolo Spinato.

Il dato politico incontrovertibile è che, malgrado la magniloquenza di Oliverio e l’assalto allo spirito di San Giovanni in Fiore, la sua - e mia - terra stavolta non l’ha sostenuto.

Con tutti i soldi spesi per gettare fumo negli occhi e impressionare, coi big della politica locale nelle liste e l’aiuto di Pirillo - l’assessore regionale all’Agricoltura che per sé e Oliverio ha chiesto il voto a centinaia di dipendenti regionali convocati ex abrupto - il Nostro s’è fermato al 49,73%. A San Giovanni in Fiore. Il che significa che è stato spodestato, a prescindere da come andrà il ballottaggio.

Noi di “la Voce” non siamo quella parte di San Giovanni in Fiore che, non più maggioritaria, ha sostenuto Oliverio. Non lo siamo, e non lo siamo mai stati, perché Oliverio è politicamente un limite insormontabile rispetto allo sviluppo della nostra terra, in cui si continua a emigrare per una vita dignitosa e libera. Non lo siamo perché, ben prima di queste ultime elezioni, abbiamo sposato la causa dell’emancipazione, seguendo l’utopia di Gioacchino da Fiore, profeta rivoluzionario che, ancora oggi, ispira la lotta per un mondo più giusto, solidale e spirituale.

Non lo siamo perché non abbiamo mai condiviso i metodi di Oliverio e perché combattiamo, sia pure in solitudine, contro l’egemonia politica e culturale che ha stabilito negli anni, con responsabilità di governo e innumerevoli occasioni, bruciate, di effettivo cambiamento.

Questo non significa che dobbiamo o possiamo essere catalogati. Pensare con la testa propria e agire di conseguenza è ciò che crea più fastidio in Calabria. La politica impazzisce, quando non può assoggettare. Non riconosce, quindi, che schemi mentali remoti, sciocchi e faziosi.

La nostra terra non ha colori, bandiere o motti elettorali. È sull’equivoco della classificazione che certi podestà hanno fatto le proprie fortune.

Andiamo avanti con forza e coraggio, sicuri di non essere nel deserto, certi di non temere un potere imposto col terrore e la propaganda.

Emiliano Morrone


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