Intervista a Giovanni De Luna
«Craxi al posto di De Gasperi
Salò al posto della Liberazione
Così legittimano Berlusconi»
Per lo storico si è in presenza di «un revisionismo due volte furbo: basta pensare che l’egemonia di destra è nata dalle ceneri di quella stagione»
di Bianca Di Giovanni (l’Unità, 18.01.2010)
Una rilettura della storia con un obiettivo preciso: la legittimazione dell’egemonia di centrodestra. Così Giovanni De Luna, docente di Storia contemporanea all’Università di Torino, «legge» le cronache delle ultime ore sul decennale della morte di Bettino Craxi. Un’operazione esplicita, che compendia il lavoro iniziato già negli anni Novanta: demolire le fondamenta della Prima Repubblica per legittimare la Seconda.
Cambiando i «Protagonisti della Storia»: non più l’antifascismo, ma l’anticomunismo. Non più De Gasperi ma Craxi. Il quale rappresenta il punto di svolta, con un paradosso di fondo che nessuna rilettura potrà mai cancellare. Il centrodestra fa di Craxi una vittima dei comunisti, eppure dalla sua caduta uscirono rafforzati proprio la Lega e lo stesso Berlusconi. Senza quella drammatica cesura, il centrodestra di oggi non esisterebbe. Così il Pdl si ritrova in un nonsenso: condannare il proprio atto di nascita per autolegittimarsi.
Allora possiamo parlare di revisionismo.
«Io sostengo che il revisionismo è lo spirito della storia, purché questo avvenga nell’ambito della ricerca. Ma nel caso di Craxi non è così: si prescinde totalmente dalla ricerca storica. La rilettura è completamente slegata da nuove fonti, nuove scoperte. Craxi viene legittimato nell’arena dell’uso pubblico della storia. Su di lui non esistono fonti alternative a quelle giudiziarie. Non esistono fonti attendibili per lo storico. Così l’obiettivo è costruire una vulgata per giustificare il centrodestra di oggi. Si tratta di legittimare la seconda Repubblica».
Il collegamento tra Craxi e l’autolegittimazione è abbastanza esplicito. Basti leggere quello che dice Maurizio Sacconi ad Hammamet: la rilettura del passato serve a superare il giustizialismo di oggi.
«Sì, il collegamento è esplicito e si fonda su una lettura del crollo della Prima Repubblica di tipo complottistico. Secondo questa tesi Craxi sarebbe caduto per via delle toghe rosse e dei comunisti, e non perché non seppe porsi come interlocutore politico di nuovi soggetti sociali che pure lui aveva individuato. La teoria del complotto tuttavia contraddice quello che il centrodestra è. Chi si è giovato della caduta di Craxi non furono i comunisti, che in realtà volevano mantenere la Prima Repubblica essendone parte integrante, ma Berlusconi e soprattutto la Lega. La Lega è stata protagonista di quei fatti, ha organizzato il lancio di monetine contro De Michelis lungo le calli di Venezia, ha sventolato cappi in Parlamento, Bossi insultò la Boniver. I veri eredi di quell’epoca sono loro, non certo i comunisti che ne sono usciti dilaniati».
Colpisce che l’ansia di riabilitazione sia pressante negli ex socialisti, mentre i Dc che governarono con Craxi si espongono meno.
«Gli eredi della Dc non sono più in grado di organizzare la memoria. È un fatto di egemonia». Questo tipo di revisionismo è un segno di forza o di debolezza? «La forza del revisionismo sta nei suoi paradigmi, più vicini ai luoghi comuni che alla complessità della ricerca storica. Sicuramente quello che sta avvenendo è una decostruzione a tutto campo. Sta avvenendo la stessa cosa su Salò. la ricerca storica continua a portare prove molto pesanti sulle responsabilità degli italiani negli eccidi. Eppure l’unica costruzione che ha vinto è quella di Gianpaolo Pansa sul sangue dei vinti. E l’unica vulgata che ancora regge è di stampo azionista. La storiografia ex comunista si è totalmente disintegrata. È un segno dei tempi che i primi due segretari del Pd abbiano scritto due romanzi. Con i vecchi leader del pci non sarebbe avvenuto così. La sinistra ha perso il rapporto con la storia: anche l’albero genealogico del Pd resta poco chiaro. Gramsci c’è o non c’è? E Togliatti? E l’antifascismo?».❖
SUL TEMA, IN RETE, SI CFR.:
"PUBBLICITA’ PROGRESSO": L’ITALIA E LA FORZA DI UN MARCHIO REGISTRATO!!!
Una lezione di moralità all’italiana
Gli onori concessi a Bettino Craxi, ex primo ministro italiano datosi all’esilio, dovrebbero porci interrogativi sul rapporto tra corruzione e povertà
John Hooper - The Guardian, domenica 24 gennaio
http://www.guardian.co.uk/commentisfree/2010/jan/24/italy-corruption-wealth-gdp-berlusconi
(traduzione dall’inglese di José F. Padova)
L’Italia potrebbe insegnarci qualcosa? La domanda è suggerita dalle celebrazioni di questa settimana - non c’è davvero nessun’altra parola per definirle - del 10° anniversario della morte di Bettino Craxi. Il leader socialista, che negli ’80 fu Primo ministro d’Italia per quattro anni, morì in esilio come un latitante. Era stato condannato per corruzione e illecito finanziamento dei partiti con pene per un totale di 11 anni di carcere.
Si potrebbe pensare che Craxi fosse un tale che i leader politici di adesso vorrebbero dimenticare in sordina. Il primo ministro, Silvio Berlusconi è stato un beneficiario di rilevanti protezioni da parte dell’ultimo boss socialista. Fu grazie a un intervento di Craxi che Berlusconi è stato in grado di assicurarsi una rete nazionale televisiva mediante network locali che aveva cucito insieme in violazione della legge.
Eppure, lungi dallo spazzare la memoria di Craxi sotto il tappeto, la classe dirigente italiana lo ha onorato. Perfino una figura come il presidente Giorgio Napoletano (ex comunista) ha scritto alla vedova di Craxi per dire, tra le altre cose, che il marito era stato trattato con "severità senza precedenti". Il capo dello Stato, un personaggio destinato a incarnare i valori della nazione, ha poi partecipato in Parlamento a una funzione per celebrare l’anniversario della morte di Craxi.
Nelle settimane precedenti la celebrazione, Roma è stata tappezzata di manifesti di commemorazione del leader morto. Politici sia di destra che di sinistra hanno dichiarato che Craxi è stato solo una vittima sacrificale (vale a dire che lo facevano tutti, argomento con il quale Craxi si difese in un discorso al Parlamento, prima di fuggire a Tunisi). E all’inizio di questo mese, segno questo forse più evidente della sua riabilitazione, il sindaco della sua città di elezione, Milano, ha fatto sapere che stava predisponendo per intitolare al suo nome una strada principale o un parco pubblico.
Forse non c’è episodio della recente storia italiana che illustri altrettanto incisivamente la tolleranza da parte dell’Italia della corruzione e dell’illegalità. Ma il mio scopo non è di dare voce allo sgomento o alla condanna, ma di mettere in evidenza il fatto che questo sta accadendo in un paese ricco e che ciò rappresenta una sfida a una ipotesi largamente diffusa.
Per tutto il tempo che posso ricordare, sociologi ed economisti hanno fatto un collegamento tra i livelli di corruzione e di prosperità. Per molto tempo questo sembra essere confermato dalle graduatorie. Una società pulita come la Svezia, per esempio, ha un alto PIL pro-capite.
L’Italia si presenta come un’eccezione. Attualmente, dopo l’ultimo grande riallineamento dei tassi di cambio, è più ricca della Gran Bretagna. Eppure, l’indice di percezione della corruzione elaborato da Transparency International la colloca oggi al 63° posto fra 180 paesi - dopo la Turchia, Cuba e molti paesi africani tra cui Sud Africa, Namibia, Capo Verde e Botswana.
Come l’Italia di Berlusconi sia ben distante dagli standard di moralità pubblica considerati normali nel resto d’Europa, inoltre, prova il fatto che essa è affondata nella classifica. Nel 2008 si trovava al 55° posto nella tabella di Transparency International, ma al 41° l’anno precedente.
Forse la correlazione tra ricchezza e correttezza nella vita pubblica è destinata a raggiungere nella discarica dell’esperienza storica altre verità, proclamate con sicumera. Si è usi a dire che le democrazie non potrebbe sopravvivere all’iperinflazione. Ma poi è arrivata la controprova di Israele nei primi anni ‘80. Si potevano ancora sentire stravaganti commentatori insistere dicendo che le economie non possono crescere oltre un certo punto senza che i politici siano costretti ad accettare la democrazia. Ma se ne sentono molto meno adesso che la seconda economia più grande al mondo è gestita da un partito comunista che non mostra alcun segno di abbandonare la sua presa sul potere.
Il presidente scrive alla vedova dell’ex leader socialista: "La sua figura non puo’ venir sacrificata alle sole responsabilità giudiziare"
"Uno stato democratico non può consentirsi distorsioni e rimozioni sommarie o unilaterali"
Craxi, la lettera di Napolitano alla moglie
"Luci e ombre, ma è figura incancellabile" *
ROMA - "Voglio esprimere la mia vicinanza personale in un momento che è per voi di particolare tristezza, nel ricordo di vicende conclusesi tragicamente". Comincia così la lettera che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano scrive ad Anna Craxi, moglie dell’ex leader socialista. Una missiva attesa. E che arriva nel’anniversario della morte, in esilio, di Craxi. "Ho ritenuto di dover dare al ricordo della figura e dell’opera di suo marito" un contributo "per l’impronta non cancellabile che ha lasciato, in un complesso intreccio di luci e ombre, nella vita del nostro Stato democratico", scrive Napolitano. Figura discussa, quella di Craxi. Protagonista della vita politica italiana, travolto dal ciclone Mani Pulite e morto, in esilio, ad Hammamet.
Quello che è certo, continua il presidente della Repubblica, è che la figura di Craxi "non puo’ venir sacrificata al solo discorso sulle responsabilità sanzionate per via giudiziaria. Il nostro Stato democratico non può consentirsi distorsioni e rimozioni del genere".
Nella missiva Napolitano ripercorre le vicende che portarono all’esilio tunisino il leader socialista. Torna con la memoria ai primi anni ’90 e ricorda "il susseguirsi, in un drammatico biennio, di indagini giudiziarie e di processi, che condussero, tra l’altro, all’incriminazione e ad una duplice condanna definitiva in sede penale" di Craxi. Che, ricorda il capo dello Stato, "decise di lasciare il Paese mentre erano ancora in pieno svolgimento i procedimenti giudiziari nei suoi confronti". Un periodo tormentato che "impone ricostruzioni non sommarie e unilaterali".
Poi Napolitano affronta la spinosa vicenda delle inchieste a cui Craxi venne sottoposto e condannato. "E’ un fatto che il peso della responsabilità per i fenomeni degenerativi ammessi e denunciati in termini generali e politici dal leader socialista era caduto con durezza senza eguali sulla sua persona" continua Napolitano. Ricordando anche una pronuncia della Corte dei Diritti dell’Uomo critica riguardo ai processi contro Craxi. "Non si può dimenticare che la Corte dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo ritenne, con decisione del 2002, che, pur nel rispetto delle norme italiane allora vigenti, fosse stato violato il ’diritto ad un processo equo’ per uno degli aspetti indicati dalla Convenzione europea".
Ciò che resta aperta, scrive il presidente della Repubblica, è la "persistente carenza di risposte sul tema del finanziamento della politica e della lotta contro la corruzione nella vita pubblica". Che, ancora oggi, "è ancora in attesa di riforme".
Per quanto riguarda il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi è probabile che domani partecipi in mattinata ad una commemorazione di Craxi al Senato.
* la Repubblica, 18 gennaio 2010
IL COMMENTO
Il gesto che Bettino non fece
di EUGENIO SCALFARI *
La lettera del Presidente della Repubblica alla signora Anna Craxi nella decennale ricorrenza della morte di quello che è stato il leader del Partito socialista e capo del Governo dal 1983 all’86, non è una missiva privata. È stata pubblicamente diffusa, come è giusto che fosse trattandosi non già di condoglianze per un lutto ma di un documento mirato - come il presidente Napolitano esplicitamente scrive - "a favorire una più serena e condivisa considerazione del difficile cammino della democrazia italiana nel primo cinquantennio repubblicano". In realtà la lettera si occupa del periodo di cui Craxi fu uno dei protagonisti, né poteva essere altrimenti.
Quindi un pubblico documento che, oltre alla vedova di Bettino Craxi, è diretto all’opinione pubblica italiana, autorizzando pertanto una valutazione altrettanto pubblica del suo contenuto.
La lettera è ampia e si può dividere in due parti: la prima si occupa della politica di Craxi nei tre anni di presidenza del Consiglio; la seconda, assai più sommaria, della fase che è stata battezzata "Tangentopoli". La diversa attenzione dedicata ai due argomenti è pienamente comprensibile: si voleva in questa lettera commemorare e privilegiare gli aspetti positivi e soltanto sfiorarne quelli negativi che però non potevano esser taciuti. Anche questo criterio adottato dal nostro Presidente è pienamente accettabile; fa parte di una "pietas" che non è soltanto una privata virtù ma un elemento costitutivo d’una democrazia dove convivono valutazioni diverse e talvolta non condivise né condivisibili, sulle quali la "pietas" soffonde una virtuosa tolleranza.
Tolleranza ma non oblio, che è invece incompatibile se modifica e mistifica il passato rischiando d’inquinare il presente e di compromettere il futuro.
La ricostruzione dell’azione politica di Craxi come leader socialista e per tre anni capo del governo corrisponde alla realtà, né poteva essere altrimenti essendo stata scritta da uno dei testimoni ed attori di quei fatti: la politica estera di Craxi, mirata ad una piattaforma italiana nel Mediterraneo, alla comprensione dei bisogni e dei diritti della Palestina e del mondo arabo, accompagnata peraltro dalla difesa dello Stato d’Israele. Infine una riconfermata e leale adesione all’alleanza nord-atlantica non disgiunta da iniziative volte a dinamizzare lo sviluppo dell’Unione europea.
Tutti elementi positivi, sui quali peraltro è doveroso aggiungere che ciascuno di essi, prima di Craxi, aveva costituito l’essenza della politica estera italiana con Fanfani, con Gronchi, con Aldo Moro, con Cossiga. Nessuno di quegli elementi rappresentò dunque una novità o addirittura una discontinuità, ma semplicemente una prosecuzione.
Qualche riserva si dovrebbe viceversa formulare sul rinnovamento del Concordato con la Santa Sede. Per certi aspetti fu un aggiornamento, per altri la riconferma di privilegi di tipo "temporalistico" che potevano anzi dovevano legittimamente essere invocati dallo Stato e non lo furono affatto.
Infine la grande riforma costituzionale. Craxi ne fece la piattaforma ideologica del suo pensiero ma ne dette una sola immagine: quella di un futuro e auspicato presidenzialismo. Il presidente Napolitano ci permetterà di affermare che un conto è modernizzare la democrazia parlamentare ed un conto del tutto diverso è volerla sostituire con un assetto di tipo presidenziale.
Aggiungiamo che l’azione di Craxi per realizzare l’unità della sinistra italiana nel quadro d’una democrazia compiuta non fu particolarmente efficace.
Anche il Pci ebbe notevoli responsabilità su questo mancato obiettivo (non certo Napolitano che anzi si batté coraggiosamente per realizzarlo), ma Craxi non fu da meno finendo addirittura con lo schierarsi con la parte più conservatrice della Dc.
Infine Tangentopoli. La lettera rievoca il discorso parlamentare in cui Craxi lanciò una chiamata in correità a tutti i partiti. Tutti, disse, avevano violato la legge sul finanziamento dei partiti e tutti, a cominciare dal suo, dovevano quindi assumersene la responsabilità.
Discorso senza dubbio coraggioso se ad esso fosse seguito il necessario sbocco: la chiamata di correo è l’ammissione di un reato in questo caso particolarmente grave. Chi si avventura su quel terreno prosegue dimettendosi dalle cariche che ricopre e mettendosi a disposizione dell’autorità giudiziaria. Non lo fece nessuno, a cominciare da Craxi il quale del resto non fu semplicemente il fruitore passivo del sistema di corruttela ma ne fu un attivo organizzatore con una differenza rispetto agli altri partiti di governo: il leader del Psi non si limitò a fruire delle "dazioni" ma intervenne sulle singole imprese e sulle singole loro operazioni tassandole o facendole escludere dalle gare. Tralasciamo per carità di patria i decreti in favore di Fininvest.
Detto questo, si proceda pure alla toponomastica nei Comuni che nella loro libera capacità di decidere vogliano intestare a Craxi piazze e giardini.
Altra cosa è la condivisione politica e morale, la quale non è parcellizzabile. Si condividano i meriti e si condividano le rampogne per i reati. Dopodiché c’è la "pietas" pubblica, ma non l’oblio.
© la Repubblica, 19 gennaio 2010
Craxi lotta con noi
di Vittorio Zucconi *
Nella lettera di Napolitano alla vedova Craxi c’è un capoverso che alla nostra solita fretta di indignarci, di scandalizzarci o, da parte degli eredi del craxismo, di applaudire, sembra sfuggire, nella sua enorme gravità.
La frase è questa: ” Si deve invece parlare di una persistente carenza di risposte sul tema del finanziamento della politica e della lotta contro la corruzione nella vita pubblica. Quel tema non poteva risolversi solo per effetto del cambiamento (determinatosi nel 1993-94) delle leggi elettorali e del sistema politico, e oggi [....] si è ancora in attesa di riforme che soddisfino le esigenze a cui ci richiama la riflessione sulle vicende sfociate in un tragico esito per l’on. Bettino Craxi”.
Tradotto dal politichese e dal presidentese, questo passaggio vuole ricordarci che l’ordigno infernale del finanziamento dei partiti ancora è in piena azione e la condanna di Craxi, insieme con tutto il polverone di Tangentopoli, non mai ha risolto il problema che sta alla base di tutto e che preferiamo non vedere, se non nei partiti degli altri: chi paga, e in che modo, i costi della politica, a destra come a sinistra o al centro, per i micropartitini come i mega partiti azienda? Il problema non è stabilire se Craxi fosse stato o meno un corrotto/corruttore, domanda alla quale ha già risposto la magistratura in via definitiva, o se lo facessero tutti, argomento che non ha mai nessun valore essendo la responsabilità politica e penale sempre individuale nelle nazioni civile, ma sapere quanti Craxi ci siano oggi, in ogni partito e in piena attività, anche in quelli che strepitano contro la corruzione altrui.
Tempo reale. Il blog del direttore zucconi 18 gen 2010
Ressa di politici (c’è anche Silvio Berlusconi, che ascolta ma non interviene)
al convegno alla biblioteca di Palazzo Madama. Tanti gli ex socialisti
Craxi commemorato in Senato
Schifani: "Fu vittima sacrificale"
E la figlia Stefania dice: "Il messaggio di Napolitano consente la pacificazione"
Insorge l’Italia dei valori: "Vergognosa beatificazione in sede istituzionale"
ROMA - "Craxi era un uomo che sapeva decidere" e "con il suo governo, eccezionale già per la sua durata, dal 1983 al 1987, seppe restituire centralità e autorevolezza a Palazzo Chigi": lo ha detto il presidente del Senato Renato Schifani alla commemorazione del leader socialista, nel decimo anniversario della morte, in corso alla Biblioteca del Senato. "Ruppe le gabbie del consociativismo. Il famoso decreto di S. Valentino del 14 febbraio 1984 - ha aggiunto Schifani - aprì la via a una vera politica dei redditi". E ancora: "Gli anni trascorsi ci consentono un giudizio storico più sereno e obiettivo. A ciascuno di noi il compito di riflettere su Craxi e su una stagione drammatica. Per lui non ci furono sconti, ha pagato più di ogni altro colpe che erano dell’intero sistema politico dell’epoca. Fu una vittima sacrificale".
Il numero uno di Palazzo Madama ha pronunciato queste parole nel corso di un evento affollatissimo, alla presenza di tanti personaggi importanti - a cominciare dal premier Silvio Berlusconi, che ascolta ma non interviene. Ci sono i figli Stefania e Bobo, i sottosegretari alla Presidenza del Consiglio Paolo Bonaiuti e Gianni Letta, i ministri degli Esteri Franco Frattini, della Cultura Sandro Bondi, della Funzione pubblica Renato Brunetta.
E molti altri ex socialisti, come il capogruppo del Pdl alla Camera, Fabrizio Cicchitto e l’ex ministro Gianni De Michelis. Per il Pd è presente il capo della segreteria politica, Filippo Penati, e la capogruppo al Senato, Anna Finocchiaro, che ha lasciato il convegno dopo l’intervento di apertura di Schifani. Conseguenza di tanto affollamento: la biblioteca del Senato non è riuscita riesce a contenere tutti gli invitati ed è stata allestita un’altra sala al primo piano.
Dopo Schifani ha parlato Stefania Craxi, che ha sottolineato l’importanza del messaggio del presidente della Repubblica: "Restituisce a Craxi i suoi meriti e apre la via ad una pacificazione nazionale, che è un auspicio sia di Napolitano che nostro. I provocatori sono rimasti una minoranza. Mio padre fa parte della storia positiva della nostra Repubblica".
Quanto a Berlusconi, a margine del convegno ha abbracciato l’ex governatore dell’Abruzzo, che era finito in carcere per una storia di tangenti, e gli ha detto: "Ho sofferto per te".
Ma c’è chi ha criticato fortemente l’evento di oggi al Senato. "E’ davvero una vergogna la beatificazione di un pregiudicato in una sede istituzionale": così il capogruppo dell’Italia dei valori al Senato, Felice Belisario, ha commentato in una nota la cerimonia.
* la Repubblica, 19 gennaio 2010
La memoria inutile
di Barbara Spinelli (La Stampa, 24.01.2010)
La memoria, che in Italia non è mai diventata musica di fondo della politica come nelle nazioni che con tenacia hanno lavorato sul proprio passato (parliamo in modo speciale della Germania, ma l’esame di coscienza fu approfondito anche in Sud Africa, unendo la sete di verità al bisogno di riconciliazione), è raramente trattata, dalla nostra classe dirigente, come qualcosa che aiuta a capire perché un male è nato, perché si perpetua mutando le forme, perché i rimedi non l’hanno curato ma anzi aggravato. La memoria in Italia rischiara poco il passato e per nulla il presente: è una memoria ancillare, e quasi sempre emiplegica. Ancillare, perché asservita a questa o quella forza politica oltre che a effimere contingenze. Emiplegica, perché chi la strumentalizza fa salire in superficie solo i frammenti di passato che gli permettono di evitare, e tradire, l’esame di coscienza.
Come nel malato emiplegico, una parte della memoria storica resta immersa in un sonno scuro che consente ai ricordi di restare selettivi e che impedisce il giudizio storico. Verso la storia, parecchi politici e giornalisti hanno uno strano atteggiamento: da una parte ammettono che non possono scriverla loro, essendo troppo coinvolti nel presente. Dall’altra pretendono di dirla in prima persona, fingendo olimpiche distanze che non possiedono. Il direttore del Tg1, nel celebrare i dieci anni della morte di Craxi, accampa precisamente tale pretesa: «È arrivato il momento dice di guardare alle vicende di Craxi con gli occhi della storia».
Il ricordo degli anni di Bettino Craxi non è l’unico esempio di memoria tradita. Anche il terrorismo italiano è ricordato con metodi poco corretti, anche la storia del fascismo o di Salò. A partire dal momento in cui la memoria è maneggiata alla stregua di domestica, quel che finisce col prevalere è una visione dei mali italiani radicalmente distorta. Il male che la coscienza impone di esaminare non fu un male in sé: in fondo, lo divenne perché vinto dalla Storia. In molti casi fu perfino nobile, non meno del suo avversario. Il conflitto non è fra ragione e torto, fra giustizia e crimine, ma fra chi ha vinto e chi ha perso. In Italia si è ragionato così su Salò, e anche sul terrorismo. Prima di rientrare da Parigi a Roma per presentarsi alla giustizia, Toni Negri sostenne che il terrorismo era «superato perché vinto», e per questo non era più «di attualità». La lotta armata di per sé non era condannabile.
Lo stesso accade per la memoria di Craxi. La sua battaglia politica è considerata grande e bella, se non fosse per Mani Pulite che gli strappò la vittoria e macchiò questa compatta bellezza. Ovvio, in queste condizioni, che le colpe siano tutte esterne al soggetto («L’inferno, sono gli altri», dice Sartre) come spesso succede nella memoria dei vinti che non guardano dentro di sé, perché inebriati dall’esperienza della vittima.
La memoria selettiva e ancillare ci restituisce in tal modo un Craxi grande statista, soprattutto un modernizzatore, il cui nobile progetto fallì a causa, essenzialmente, dei magistrati. Per riscoprirlo è raccomandato non solo di separare la politica dai fatti di corruzione, ma di estromettere i fatti di corruzione lasciando che resti, del leader, solo la luce. Le inchieste giudiziarie cadono nelle ombre del corpo politico emiplegico. Nietzsche parlava di memoria antiquaria, che ammobilia «con pietà o furia collezionista» un nido familiare chiuso, impenetrabile dall’esterno, conservatore del passato.
Altra cosa la memoria critica, che guarisce trasformandoci: memoria faticosa, perché gli uomini tendono a «darsi un passato da cui si vorrebbe derivare, in contrasto con quello da cui si deriva».
Senza dubbio il leader socialista fu un politico con encomiabili progetti iniziali: unificare le sinistre, rafforzando la componente socialista dell’unione e banalizzando, alla maniera di Mitterrand, l’ingresso dei comunisti nel governo; liberare sinistre e sindacati da formule errate come la scala mobile; legare il Psi al dissenso nei paesi comunisti. La sua opera di modernizzatore fu, secondo molti, la sua più grande virtù. Modernizzazione che tuttavia riuscì solo in parte. Che fu a un certo punto abbandonata, autonomamente. Che si spezzò non solo perché fortemente avversata dai comunisti ma perché Craxi smise di volerla, prepararla, attuarla.
L’azione di Craxi fu in realtà un singolarissimo impasto di intuizioni giuste e coraggiose, di spregio profondo della politica, di intreccio tra politica e mondo degli affari, di uso spregiudicato di mezzi finanziari illeciti. La corruzione non fu un dettaglio inessenziale di tale azione ma un suo torbido elemento costitutivo. Era moderno il politico che si crea spazi di potere con l’aiuto di potentati economici, e in cuor suo ritiene inefficace la via virtuosa. Il motto degli esordi craxiani fu: primum vivere, prima di tutto urge vivere e sopravvivere.
In un’intervista a Eugenio Scalfari, il 3-5-90 su Repubblica, Craxi non nasconde la crisi abissale della democrazia e dei partiti: la società italiana si era irrobustita per conto proprio, dice, mentre il ceto politico era restato una chiusa corporazione, incapace di rinnovarsi. E a Scalfari che gli chiede perché, Craxi replica: «Non ci sono più ideali, si gestiscono interessi».
In fondo non sono diversi i due discorsi tenuti alla Camera durante Mani Pulite, il 3 luglio ’92 e il 9 aprile ’93. Due discorsi che descrivono la corruzione di un intero sistema politico. Questo dice la chiamata di correo del ’92: «Tutti sanno che buona parte del finanziamento politico è irregolare o illegale.(...) Non credo che ci sia nessuno in quest’aula (...) che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro». Nessuno si alzò, e l’atto mancato resta la vergogna dei politici e di una classe dirigente. Una vergogna che in assenza di memoria critica s’è estesa. A Scalfari, Craxi aveva detto: «Non ci sono più ideali, si gestiscono interessi». Oggi, gli interessi particolari sono diventati ideali e il loro conflitto con la politica una cosa normale per tanti.
La modernizzazione di Craxi fallì dunque molto prima di Mani Pulite, a causa del malaffare in cui i partiti, compreso il suo, nuotavano. Fallì perché il Pci si oppose per anni all’alternanza, preferendo compromessi con la Dc che preservavano lo status quo. Fallì per l’immobilità in cui Craxi stesso sprofondò: il primum vivere divenne brama del vivere per vivere, di arraffare frammenti del presente e del potere, di non progettare più nulla. Il socialismo italiano naufragò per colpa dei socialisti, non dei magistrati: e naufragò perché più di altri aveva suscitato sì vaste attese.
Perfino alcuni successi del capo socialista andrebbero narrati in maniera meno edulcorata, censurata. Sigonella non fu un atto di autonomia verso l’America, ma la misera messa in libertà d’un gruppo terrorista (i palestinesi di Abu Abbas) che aveva ucciso proditoriamente, sull’Achille Lauro, un anziano americano in sedia a rotelle, Leon Klinghoffer, solo perché ebreo. Anche in economia Craxi non fu modernizzatore. Lo spiega bene Salvatore Bragantini, sul Corriere del 14 gennaio: sotto la guida sua e dei successori «il nostro debito pubblico è volato dal 60% al 120% del Pil; (...). Nell’escalation del debito ebbe il suo bel peso l’aumento dei costi delle opere pubbliche dovuto alle tangenti, scoperte grazie a Mani Pulite».
Oggi, censurare tanta parte del passato è utile soprattutto a Berlusconi e alla sua offensiva contro la giustizia. Se il duello è tra vincitori e vinti, e non tra buongoverno e governo corruttibile, si tratta di contrattaccare e vincere finalmente la guerra. Oggi ci si difenderà dai processi, ma restando al potere anziché fuggendo come latitanti. Stefania Craxi lo ha detto chiaramente, il 3 gennaio alla televisione: «La storia di Craxi si ripete con Berlusconi. Gli italiani allora non credettero a Craxi, ma a Berlusconi, oggi, credono». A questo serve la politica della memoria in Italia: a perpetuare la melma in cui ci troviamo, senza mai cominciare l’esame di coscienza che da essa ci libererebbe.