L’esperienza della psicoanalisi all’incontro con l’arcipelago gay
«Materiali per un confronto» sulle ipotesi nate dall’osservazione dell’universo omosessuale. L’avvio di un dialogo che tenta di smarcarsi da annosi schematisimi, in una raccolta di saggi curati da Olga Pozzi e Sarantis Thanopulos
di Massimo Fusillo (il manifesto, 21.02.2007)
Fino a qualche tempo fa un titolo come Ipotesi gay sarebbe stato impensabile per un libro scientifico sulla psicoanalisi della omosessualità: a colpire è tanto il termine militante gay, entrato ormai nell’uso comune a indicare nella omosessualità una condizione «normale», sia un sostantivo volutamente debole come ipotesi, che sancisce l’abbandono di modelli interpretativi univoci. Informato anzi tutto da una lucida autocritica, questo libro, che porta come sottotitolo Materiali per un confronto ed è curato da Olga Pozzi e da Sarantis Thanopulos (Borla, pp. 219, euro 22) è importante, tra l’altro, perché riconosce come la psicoanalisi abbia a suo tempo tradito l’apertura che Freud aveva mostrato sul tema dell’omosessualità, per assumere invece posizioni rigide, se non addirittura chiaramente omofobe, come scrive Giovanni De Renzis nella sua densa prefazione.
La scrittura dell’eros
Ma questo orientamento non si risolve - com’è ovvio e come Olga Pozzi sottolinea - nell’abbandono di ogni problematicità: nel corso dell’esperienza analitica con pazienti omosessuali, lungamente raccontata tra queste pagine, non mancano certo aspetti conflittuali e patologici, ma essi non derivano dalla condizione gay di per sé, bensì da problemi più generali che riguardano i processi di identificazione e quelli relativi alle dinamiche intrinseche alle relazioni con gli altri.
Lo stesso Freud, in una nota aggiunta nel 1914 ai Tre saggi sulla teoria sessuale, scriveva che «anche l’interesse sessuale esclusivo dell’uomo per la donna è un problema che va chiarito e niente affatto una cosa ovvia da attribuire a un’attrazione chimica»; una frase che in tempi come i nostri andrebbe fatta girare nelle aule del nostro arretratissimo Parlamento.
Questa visione aperta e antiessenzialista dell’identità sessuale è una costante di tutto il libro, e non a caso porta gli autori a prendere le distanze da uno tra i più autorevoli analisti omosessuali della scena americana, Richard A. Isay (il suo Essere omosessuali è tradotto in Italia da Cortina), il quale sostiene una posizione di chiara matrice rivendicazionista - ossia che i pazienti omosessuali dovrebbero essere curati solo da analisti omosessuali - e tuttavia inaccettabile per la sua rigidità.
Nel saggio più ampio del volume, che si legge con grande passione anche per le sue straordinarie qualità narrative, Sarantis Thanopulos propone, al contrario, una visione basata su quello scambio di correnti incrociate che durante il processo psicoanalitico favorisce tanto la messa in gioco della omosessualità inconscia dell’analista quanto l’evidenziazione della eterosessualità inconscia del paziente omosessuale (e viceversa, a seconda dei casi). È una visione che si nutre dei versi di Saffo e della prosa di Proust, eleggendoli a esempi ineguagliabili della scrittura dell’eros (omo)sessuale, e che va al di là del dato biografico degli autori.
Quel che invece non trova spazio nel volume è la risonanza dei queer studies, che propongono il superamento di una concezione binaria della sessualità, in nome di una visione performativa dell’identità e di una in-differenziazione dei ruoli (agli antipodi dunque della rigidità espressa da Isay).
Forse agli psicoanalisti sembrerà che in queste posizioni (di cui la rappresentante più autorevole è la lacaniana Judith Butler) sia presente un eccesso di ludicità postmoderna, tuttavia anche queste tesi meriterebbero un confronto. Come pure, un altro punto che si avvantaggerebbe di venire ulteriormente sviluppato, è quello che riguarda l’orientamento bisessuale, sul quale nel libro si affiancano posizioni diverse, sebbene non incompatibili.
Se, infatti, Thanopulos ripropone la classica visione freudiana di un polimorfismo originario da cui si preciserebbe poi l’identità di approdo, d’altra parte Malde Vigneri definisce la bisessualità «un deficit di sviluppo del senso dell’identità»; e per parte sua il genetista Riccardo Cortese suggerisce che la vulgata sulla potenziale bisessualità originaria andrebbe rivista sulla base dei dati più recenti.
C’è poi un’altra annosa questione sulla quale il libro sceglie deliberatemente di non prendere posizione, ossia se omosessuali si nasca o si diventi, e come lo si diventi. Riccardo Cortese ricorda studi che vennero compiuti già negli anni ’50 sui gemelli monozigoti allo scopo di indagare una eventuale predisposizione genetica all’omosessualità (in genere maschile), ma aggiunge che gli ipotetici geni responsabili non sono stati ancora identificati.
Dopo un lungo e complesso esame del proprio lavoro analitico, Thanopulos formula una ipotesi secondo la quale l’omosessualità interverrebbe come un atto riparativo della castrazione: sarebbe dunque un atto creativo, che porterebbe a spiegare come mai fra gli omosessuali si trovino tante persone dotate di una inclinazione artistica e intellettuale.
Tra silenzio e fusionalità
Come tutti gli omosessuali militanti, ho sempre provato una certa insofferenza verso tutte le formule, (come la famosa vulgata freudiana sulla madre possessiva e il padre assente, che banalizza Freud), e credo che nel modello di Thanopulos sia ancora presente troppa teleologia, peraltro evidente quando conclude che «il vero spartiacque nel campo della sessualità umana non è tra eterosessualità e omosessualità, ma tra autoerotismo e scelta oggettuale».
È vero, però, che il suo splendido saggio si annuncia sin dall’inizio come uno studio specifico sul rapporto fra autoerotismo e omosessualità, mai presentata come una manifestazione regressiva patologica e da correggere.
Un punto assai delicato è poi quello che riguarda la promiscuità, che alcuni interventi presenti in Ipotesi Gay tentano di leggere sottraendola a una chiave unicamente negativa, o nevrotica: in una nota alla sua introduzione, De Renzis suggerisce l’ipotesi che il silenzio così tipico degli approcci omosessuali ritualizzati possa essere letto come «il tentativo di realizzare magicamente una imperativa fantasia fusionale».
Idea che torna, in parte, nel saggio di Fausto Petrella, dove viene ripresa la metafora del caleidoscopio, utilizzata da André Gide, per visualizzare alcuni tratti dell’immaginario omosessuale, tra cui l’idealizzazione della bellezza, l’assolutizzazione feticistica dell’oggetto parziale, l’inglobazione magica nel corpo del partner.
Sono tutti suggerimenti, questi, che si potrebbero mettere in relazione con la lettura storico-religiosa della visione paolina proposta, sempre tra le pagine di Ipotesi gay, da Marcello Massenzio, secondo il quale l’omosessualità sarebbe la forma piena del sesso, come il pantheon politeista quella piena del mondo; «gli dèi antropomorfi e/o teriomorfi esprimono compiutamente l’esserci del mondo; l’omosessualità dà concretezza alla volontà di essere nel mondo, di radicarvisi». Per quanto disparati e disomogenei siano questi elementi, non si può negare una certa consonanza fra promiscuità, visione caleidoscopica e politeismo.
L’omosessualità femminile
Ma la posizione a mio parere insieme più condivisibile e più pragmatica è quella espressa dal genetista Riccardo Cortese, secondo cui la promiscuità dei maschi omosessuali si estenderebbe agli eterosessuali se non incontrassero le limitazioni che vengono loro imposte dalla diversa concezione che del sesso hanno le donne (come peraltro afferma anche Paolo Zanotti in uno dei saggi più belli sull’omosessualità apparsi di recente, titolato Il gay per Fazi). Il che spinge a riflessioni autonome sulla (omo)sessualità femminile, di cui nel volume parlano soprattutto i saggi di Vigneri e di Petrella, ma che andrebbero ancora indagate, magari fornendo lo spunto per continuare e approfondire il dialogo fra psicoanalisi e omosessualità avviato da Ipotesi gay
Sigmund Freud e l’omosessualità. La lettera ritrovata che svela il suo pensiero: "Non c’è niente di cui vergognarsi"
di Redazione *
Nel 1935, Sigmund Freud scrisse una lettera di risposta a una madre che gli aveva chiesto aiuto per il figlio gay. Nonostante le percezioni più ampie sull’omosessualità a quel tempo Freud aveva un approccio diverso: "Non c’è nulla di cui vergognarsi", scriveva alla donna.
"Deduco dalla tua lettera che tuo figlio è omosessuale. Sono molto colpito dal fatto che non utilizzi questo termine quando dai informazioni su di lui. Posso chiedere perché lo eviti?" scrive Freud. "L’omosessualità non è di certo un vantaggio, ma non c’è nulla di cui vergognarsi, non è un vizio, non è degradante, non può essere classificata come una malattia, riteniamo che sia una variazione della funzione sessuale, prodotta da un arresto dello sviluppo sessuale. Molti individui altamente rispettabili di tempi antichi e moderni sono stati omosessuali, molti dei quali sono stati grandi uomini".
Questa corrispondenza getta una luce sulle opinioni personali di Freud: è noto da tempo che non considerava l’omosessualità come una patologia. Credeva che tutti nascessero bisessuali e più tardi si orientassero verso l’etero o l’omosessualità. Nella lettera, Freud suggerisce che una "terapia" per trattare l’omosessualità può essere possibile, ma dice che il risultato "non può essere previsto".
La lettera è attualmente esposta a Londra nell’ambito della mostra alla Wellcome Collection. [...]
Ecco il testo integrale:
Cara signora,
deduco dalla sua lettera che suo figlio è omosessuale. Sono molto colpito dal fatto che non usi mai questo termine nel darmi le informazioni su di lui. Posso chiedere perché lo evita? L’omosessualità non è certo un vantaggio, ma non c’è nulla di cui vergognarsi, non è un vizio, non è degradante; non può essere classificata come una malattia; riteniamo che sia una variazione della funzione sessuale, prodotta da un arresto dello sviluppo sessuale. Molti individui altamente rispettabili di tempi antichi e moderni erano omosessuali, tra di loro c’erano grandi uomini. (Platone, Michelangelo, Leonardo da Vinci, ecc).
È una grande ingiustizia perseguitare l’omosessualità come un crimine - e anche una crudeltà. Se non mi credete, leggete i libri di Havelock Ellis. Mi chiede se posso aiutarla, intendendo dire, suppongo, se posso sopprimere l’omosessualità e fare in modo che al suo posto subentri l’eterosessualità. La risposta è, in linea generale, che non posso promettere che questo accada.
In un certo numero di casi riusciamo a sviluppare i semi degradati delle tendenze eterosessuali, che sono presenti in ogni omosessuale, ma nella maggior parte dei casi non è più possibile. Dipende dal tipo e dall’età dell’individuo. Il risultato del trattamento non può essere previsto. Quello che l’analisi può fare per suo figlio è un’altra cosa. Se lui è infelice, nevrotico, lacerato da conflitti, inibito nella sua vita sociale, l’analisi può portargli armonia, pace della mente, piena efficienza, sia che rimanga un omosessuale, sia che diventi eterosessuale. Se si decide, può fare l’analisi con me - non mi aspetto che lo farete - lui deve venire a Vienna. Non ho alcuna intenzione di spostarmi da qui. Tuttavia, non trascurate di darmi una risposta.
Cordiali saluti con i migliori auguri,
Freud
Post Scriptum
Non ho trovato difficoltà a leggere la sua scrittura. Spero che non troverete la mia scrittura e il mio inglese difficile da leggere.
Anna Freud con il celebre padre
Quella lunga storia d’amore tra Anna e Dorothy
Il libro di Roberta Calandra sulla relazione tra la figlia di Freud e la sua amica
Oggi la presentazione
di Delia Vaccarello (l’Unità, 05.06.2013)
IN UNA CASA LONDINESE UNA DONNA ANZIANA MOLTO FAMOSA TRASCORRE LE SUE GIORNATE lottando con le forze che a poco a poco l’abbandonano. A riempire di «presente» le sue stanze saranno due ventenni con il loro carico di rabbie, dolori, segreti. Hanno bisogno di lei per trovarsi. Ad aiutarle sarà anche un’immagine. «A circa metà della sequenza scura di scaffali, troneggia una foto di Anna e Dorothy, ormai visibilmente anziane, entrambe vestite di chiaro e con un buffo cappello in testa». Sono Anna Freud e la sua amica.
Narrando gli ultimi giorni di vita della celebre figlia del padre della psicanalisi, Roberta Calandra nel suo romanzo L’eredità di Anna Freud (edizioni Controluce) indaga la relazione di oltre mezzo secolo che la unì ad una donna e legge in questo rapporto un lascito, un messaggio per le nuove generazioni che ognuna raccoglie a modo proprio come segnala il successo a Cannes del film La vie d’Adele.
«Un giorno mi è capitato in mano un link ad un assurdo pamphlet che parlava delle “dieci lesbiche che hanno cambiato il mondo" e mischiava grossolanamente Cristina di Svezia, Maria Antonietta e Anna Freud. Sapere che Anna ha vissuto 54 anni con la sua migliore amica e che accanto a lei ha voluto essere sepolta mi ha toccato: il padre di tutte le nostre presunte idee di normalità e anormalità aveva una figlia che viveva comunque in una situazione così particolare? Mi sono documentata e ho scoperto questa storia che ha risvolti commoventi e sorprendenti», dice l’autrice.
Il libro ripercorre la vita relazionale di Anna Freud, e lo fa attraverso il personaggio di una giovane studentessa di psicologia, Judith, tendente all’autolesionismo, a vivere l’amore come un assoluto, alla distruttività ma che con lucida determinazione vuole «salvarsi» e strappare ad Anna confidenze e racconti. Introducendosi con maniacale voracità nella vita di Anna, la studentessa altera l’equilibrio un po’ sonnolento che si era creato tra la psicoanalista e la giovane badante Sarah. Veniamo a sapere così che Sigmund Freud sostenne la relazione tra la figlia e Dorothy, arrivando a dire di Anna che con Dottie si era «sistemata».
Ancora: «Ho scoperto che Freud faceva trattenere a Budapest in analisi da Ferenczi Robert, il marito pazzo di Dorothy poi morto suicida, per lasciare tranquilla sua figlia e l’amica» aggiunge Calandra. Eppure Anna Freud considerava “anormale” l’omosessualità: «Anna non era tenera con gli omosessuali e non voleva essere confusa con loro, io però credo, come cito in un passo, che ne disprezzava soprattutto il vittimismo e l’autocommiserazione. Ma la sua amicizia con Dottie, la gelosia verso l’unico tentativo di un interesse al maschile, la richiesta di condivisione di un’urna mi fanno pensare all’amore, forse sì asessuato, perché una delle chiavi di Anna mi appare la sublimazione».
Il romanzo (sarà presentato oggi a Roma alle 19.30 alla Libreria del cinema in Trastevere) si muove tra realtà e finzione, ma resta fedele alla biografia di Anna, della quale Calandra ha già scritto traendone il monologo Anna Freud, un desiderio insaziabile di vacanze insignito del premio europeo Tragos. «Se per la storia di Anna mi rifaccio alle fonti, Judith e Sarah sono nate come contrappunto al tema del padre: Anna è stata molto dipendente da Sigmund Freud, Sarah ha un padre stupratore e Judith uno suicida: queste tre figlie dove si fanno ombra, dove si rispecchiano? Mi piaceva suggerire che se Anna avesse avuto l’età di Judith negli anni 80 sarebbe stata simile a lei. E anche che una qualsiasi Judith può applicarsi e diventare Anna Freu»”, aggiunge l’autrice.
Il libro calamita dentro camere segrete: nella biblioteca e nello studio di Freud i misteri delle due giovani donne affiorano e spingono all’azione. Judith e Sarah, prima acerrime rivali si espongono a un contatto con le proprie parti oscure che trasformerà il loro rapporto.
L’autrice riesce a farcele «vedere» grazie a un uso felice dei dialoghi che offre a chi legge l’illusione di stare insieme a loro. Passando al monologo, Roberta Calandra sa restituire la voce interiore di ciascuna, nonché il carattere forte e insieme debole, per l’età, la malattia, le fragilità di sempre, di Anna Freud.
C’è in questa tensione sapientemente resa un desiderio profondo dell’autrice: «È prima di tutto una storia di maestro e discepolo ma declinata al femminile. Queste dimensioni vengono sempre descritte tra uomini. A me le professoresse che amavo hanno quasi salvato la vita».
Chi ha paura dei gay? Anche la psicoanalisi che è rimasta indietro
di Delia Vaccarello (l’Unità, 16 gennaio 2013)
Gli psicoterapeuti possono essere utilizzati come maghi con la sfera di cristallo? E agli attivisti gay sfugge la portata antropologica dei cambiamenti messi in atto? In Francia i toni della discussione sulle nozze gay sono roventi e registrano un pronunciamento degli psicanalisti che compare anche come petizione già firmata da quasi duemila professionisti. «Sosteniamo che non spetta alla psicanalisi mostrarsi moralizzatrice o portatrice di predizioni. Al contrario, nulla nel nostro corpus teorico ci autorizza a prevedere il futuro dei bambini, qualsiasi sia il tipo di coppia che li cresce. La pratica psicanalitica ci insegna da tempo che è impossibile trarre relazioni di cause e effetti tra un tipo di organizzazione sociale o familiare e un destino psichico singolare».
E in Italia? Il dibattito vero sembra chiuso nei sottintesi. Ha visto da una parte gli interventi di alcuni professionisti che invocano modelli vecchi dall’altra le tesi di attivisti gay che fanno fatica ad analizzare la complessità delle situazioni. «Occorre fare appello a un metodo scientifico in quanto tale perfettibile e revocabile sulla base di ricerche e controargomentazioni fondate su una verifica acuta di dati di realtà e di ogni passo metodologico, di ogni oggetto, di ogni assunzione del fare scienza », premette Paolo Rigliano, psichiatra e psicoterapeuta, dirigente di un centro psicosociale a Milano autore di numerosi testi sulla questione gay tra cui l’ultimo Curare i gay? (ed. Cortina, scritto insieme a Jimmy Ciliberto e Federico Ferrari).
Oltre che sulla premessa metodologica, essenziale se pensiamo agli assunti delle terapie riparative non dimostrabili e simili ad articoli di fede, e sulla precisazione «meglio parlare di professionisti di psicologia e psichiatria», Rigliano si sofferma sulle ricadute di vasta portata messe in atto dall’omosessualità tanto più da quella «moderna», vissuta cioè come dimensione centrale della vita a partire dalla quale compiere scelte e mette in campo progetti. «Il punto importante è il seguente: l’omosessualità mette in discussione un assetto antropologico. Dietro la levata di scudi contro le famiglie gay c’è la paura che l’assetto antropologico in cui siamo stati allevati da millenni si esponga a una incertezza piena di pericoli e di possibili danni».
Un’analisi presente in Curare i gay? dove si legge: «tutta la struttura sociale è interrogata, tutto l’ordine “naturale” e chiamato in causa dalla omosessualità» quali siano forma, legittimità, scopo del desiderio, cosa significhino la forma femminile e maschile, quali il valore, il potere, l’identità, il riconoscimento sociale, i diritti e i doveri , che rapporti abbia tutto questo con la filialità.
Nel tono degli interventi di chi è contrario alle famiglie gay i timori, però, restano sottotraccia mentre affiorano gli anatemi. «Lo ripeto, ogni cosa va dimostrata negli atti facendo affermazioni precise e portando dati di realtà altrimenti facciamo sermoni che sembrano “ipse dixit”», continua Rigliano.
Gli attivisti gay, dal canto loro, sembrano concentrati soprattutto sulle conquiste da ottenere. «È un compito dei diversi farsi carico della vulnerabilità che c’è dietro i cosiddetti normali. La questione gay rimette in discussione il maschile e il femminile, cosa è il paterno e cosa il materno. Per affrontare i dibattiti occorre elaborare un pensiero altissimo capace di smontare gli assetti millenari e ricostruirne altri. Non si può eludere la dimensione antropologica annidata nel cuore del problema. Ai militanti gay dico di impegnarsi in uno strenuo lavoro culturale. Pretendere di saltare i passaggi della analisi e della costruzione sociale, simbolica, psichica e relazionale per arrivare alle leggi può essere un rischio che non permette una reale crescita collettiva».
Cosa suggerire ai professionisti della psicoterapia? «Di non chiudersi nelle proprie presunte certezze assumendo, invece, un atteggiamento attentissimo verso la realtà, creativo ed originale, confrontandosi con i dati che la scienza produce. Un atteggiamento aperto informato ed estremamente critico teso a capire con riflessioni a tutto tondo e privo di modelli vecchi che si sono mostrati obsoleti».
PREMESSA SUL TEMA:
La dignità necessaria alle unioni gay
di Bernard-Henri Lévy (Corriere della Sera, 11 gennaio 2013)
Il dibattito sul matrimonio gay ha preso una piega strana e talvolta inquietante. Sorvolo sugli ipocriti che fingono di rimpiangere i bei tempi dell’omosessualità deviante, ribelle, e refrattaria a «entrare nella norma». Sorvolo sulla condiscendenza delle anime belle secondo cui «il popolo», in tempi di crisi, avrebbe altre gatte da pelare piuttosto che queste storie di borghesi bohémien (non si osa dire di pederasti). Sorvolo infine sul comico panico di chi ritiene che il matrimonio gay (ribattezzato a torto matrimonio «per tutti» dai suoi sostenitori troppo prudenti, e privi del coraggio di dire pane al pane, vino al vino) sia una porta aperta alla pedofilia, all’incesto, alla poligamia.
Non si può invece sorvolare su quanto segue.
1) Sul modo in cui è percepito l’intervento delle religioni in tale baruffa. Che le religioni debbano dire il loro parere su una vicenda che è sempre stata, e lo è ancora, al centro della loro dottrina, è normale.
Ma che questo parere si faccia legge, che la voce del gran rabbino di Francia o quella dell’arcivescovo di Parigi sia più di una voce fra tante altre, che ci si nasconda dietro alla loro grande ed eminente autorità per chiudere la discussione e mettere a tacere una legittima domanda di diritti, non è compatibile con i principi di neutralità sui quali, da almeno un secolo, si suppone sia edificata la nostra società. Il matrimonio, in Francia, non è un sacramento, è un contratto.
E se è sempre possibile aggiungere il secondo al primo, e ciascuno può stringere, se lo desidera, un’unione supplementare davanti al prete, non è di questo che tratta la legge sul matrimonio gay.
Nessuno chiede ai religiosi di cedere sulla loro dottrina. Ma nessuno può esigere dal cittadino di regolare il proprio comportamento sui dogmi della fede. Si crede di andare in guerra contro il comunitarismo ed è la laicità ad essere discreditata: che cosa ridicola!
2) Sulla mobilitazione degli psicoanalisti o, in ogni caso, di alcuni di loro, che si ritiene dovrebbero fornire agli avversari della legge argomentazioni scientifiche e, forti della loro autorità, provare che questo progetto causerebbe un altro malessere, stavolta mortale, nella civiltà contemporanea.
Leggete la letteratura sull’argomento. Non ci sono indicazioni, per esempio, che suggeriscano una predisposizione all’omosessualità in caso di adozione da parte di una coppia gay. Non ci sono effetti perversi particolari quando si strappa un bambino da un sordido orfanotrofio e lo si trasferisce in una famiglia con un solo genitore o con genitori omosessuali amorevoli. E se pure questo dovesse provocare un turbamento, lo sguardo che la società impregnata di omofobia porta sul bambino sembra sia infinitamente più sconvolgente della apparente indistinzione dei ruoli nella famiglia così composta...
3) Sulla famiglia, appunto. La sacrosanta famiglia che ci viene presentata, a scelta, come la base o il cemento delle società.
Come se «la» famiglia non avesse già tutta una sua storia! Come se ci fosse un solo modello, e non invece molti modelli di famiglia, quasi omonimi, che si succedono dall’antichità ai nostri giorni, dai secoli classici ai secoli borghesi, dall’età delle grandi discipline (quando la cellula familiare funzionava, in effetti, come ingranaggio del macchinario del controllo sociale) a quella del «diritto alla ricerca della felicità» di cui parlava Hannah Arendt in un testo del 1959 sulle «unioni interrazziali» (in cui il matrimonio diventa un luogo di pienezza e di libertà per il soggetto)!
Come se la banalizzazione del divorzio, la generalizzazione della contraccezione o dell’interruzione volontaria di gravidanza, la moltiplicazione delle adozioni e delle famiglie single, il fatto che oggi siano più numerosi i bambini nati fuori dal matrimonio che da coppie sposate, come se la disgiunzione, infine, del sessuale dal coniugale, non avessero fatto vacillare il modello tradizionale ben al di là di quello che mai farà una legge sul matrimonio gay che, per definizione, riguarderà solo una minoranza della società!
La verità è che gli avversari della legge sempre più difficilmente riescono a dissimulare il fondo di omofobia che governa i loro discorsi.
Preferiamo una posizione di dignità (perché fondata sul principio di universalità della regola di diritto), di saggezza (talvolta il diritto serve a prendere atto di una evoluzione che il Paese ha già voluto e compiuto) e di fiducia nell’avvenire (chissà se non toccherà ai gay sposati, non di impoverire, ma di arricchire le arti di amare e di vivere di una società alla quale, da mezzo secolo, hanno già dato tanto?).
Possa il legislatore decidere serenamente e senza cedere alla pressione delle piazze né all’intimidazione dei falsi sapienti: è in gioco, in effetti, ma non nel senso che ci viene detto, l’avvenire di quella bella illusione che è la convivenza democratica.
(traduzione di Daniela Maggioni)
"I bambini crescono bene anche nelle famiglie gay"
la svolta della Cassazione
di Elsa Vinci (la Repubblica, 12 gennaio 2013)
Basta pregiudizi. «Un bambino può crescere in modo sano ed equilibrato anche con una coppia omosex, non vi sono certezze scientifiche o dati di esperienza che provino il contrario». La sentenza, definita «storica» dall’Arcigay, è quella con cui la Corte di Cassazione ha legittimato l ’affido di un bimbo a una coppia formata da due donne. La presidente della prima sezione civile, Maria Gabriella Luccioli, aveva aperto il solco della giurisprudenza nel marzo dell’anno scorso, quando sancì che «i gay hanno diritto a una vita familiare». Adesso afferma quanto «il mero pregiudizio possa essere dannoso per lo sviluppo di un minore».
Così è stato respinto il ricorso di un padre musulmano. L’uomo, un egiziano che vive a Brescia, si era rivolto alla Suprema Corte per contestare la sentenza d’appello che nel luglio 2011 aveva affidato la figlia alla ex compagna. Il padre lamentava che la donna fosse andata a vivere con una assistente sociale della comunità per tossicodipendenti in cui, anni prima, era andata a disintossicarsi. «Non è idoneo per mia figlia essere educata in un contesto formato da due donne legate da una relazione omosessuale», contestava. Proprio lui che si era allontanato dalla bimba quando aveva solo 10 mesi, si è messo a invocare l’articolo 29 della Costituzione e, sottolineando di essere musulmano, il diritto del minore ad essere educato secondo i principi religiosi di entrambi i genitori.
La Corte gli ha ricordato che con la sua condotta violenta - aggrediva l’ex compagna - è stato lui piuttosto a turbare la figlia. Poi si è sottratto agli incontri protetti con la piccola e ha assunto «un comportamento non improntato a volontà di recupero e poco coerente con la richiesta di affidamento condiviso». Sulla relazione omosessuale dell’ex convivente, la Cassazione ha sottolineato come «alla base delle doglianze del ricorrente non sono poste certezze scientifiche o dati di esperienza, ma solo mero pregiudizio». Insomma «si è dato per scontato ciò che invece è da dimostrare». Maria Gabriella Luccioli, prima donna a essere nominata presidente di sezione della Suprema Corte, è nota per importanti innovazioni nel diritto di famiglia.
Esultano le associazioni omosex, ma restano divisi i politici. E c’è lo sconcerto della Conferenza episcopale: «Non si può costruire una civiltà sui tribunali», dice monsignor Domenico Sigalini, presidente della commissione Cei per il Laicato. Scontate le critiche di Carlo Giovanardi e Maurizio Gasparri del Pdl, ma da un altro esponente del Popolo della libertà, Giancarlo Galan, arriva un giudizio opposto. «Questa sentenza è un passo avanti - dice - Perché lo Stato laico deve ascoltare i cittadini e nessun altro».
Per Ignazio Marino, del Pd, la Corte ha sancito un principio di civiltà: «La capacità di crescere un figlio non è prerogativa esclusiva della coppia eterosessuale ma riguarda anche gli omosessuali e i single. L ’importante è che l’adozione venga disposta nell’interesse del minore». Non è favorevole il ministro dello Sviluppo, Corrado Passera, che auspica però «maggiore tutela per le coppie di fatto». Contrario anche il presidente della Camera, Gianfranco Fini, che nello specifico tuttavia giudica la sentenza «sacrosanta». Medici e specialisti invitano a valutare di volta in volta ma il Movimento italiano genitori invoca «i principi di natura». Mentre la polemica si infiamma, le associazioni omosessuali chiedono alla futura maggioranza di legiferare in merito.
In Europa l’adozione per gli omosessuali è legale in diversi paesi: Gran Bretagna, Spagna, Svezia, Belgio, Olanda. Nel 2008 la Corte di Strasburgo ha stabilito infatti che anche i gay hanno diritto alla genitorialità, lasciando ai paesi dell’Unione la libertà di decidere. Le legislazioni restano molto diverse.
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“Gli psicanalisti devono ascoltare i loro pazienti e non dire la norma”
intervista a Caroline Thompson,
a cura di Nicolas Truong
in “Le Monde” del 9 novembre 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Gli esperti “psi” (psicologi, psichiatri, psicanalisti...) si sono trovati un po’ intrappolati dalla mania di concepire i problemi di società in termini di “a favore o contro”. Ora, una delle forze degli psicanalisti è di avere una posizione più arretrata rispetto all’alternativa del “a favore o contro”. Quando ascoltiamo ciò che ci dice un paziente, non siamo a favore o contro, ma in una neutralità rispetto al contenuto di ciò che può dire. Possiamo sentire cose molto scioccanti, affermazioni razziste, sessiste, fantasie di grande violenza... Non siamo lì per dire “Questo è bene” o “ Questo non è bene”.
È la specificità del nostro mestiere: non essere espressione di una norma. Gli esperti “psi” sono stati attirati come calamite verso ciò che ritenevano di loro competenza, ossia il benessere del bambino e la struttura della famiglia, e il modo in cui questa struttura realizzava l’universo psichico e l’universo del bambino. Ma questo ha immediatamente creato un discorso normativo e paternalista.
È così a causa di una storia complicata tra la psicanalisi e l’omosessualità?
L’omosessualità era considerata come una perversione da Freud, in un senso più medico, certo, della perversione come la si può intendere oggi quando si dice di un individuo: “È un perverso”. Ma è comunque per lui una devianza, nel senso etimologico del termine, cioè che la sessualità “normale”
perché per Freud c’è una sessualità normale - è deviata dal suo oggetto e si dirige verso lo stesso sesso, cioè un oggetto diverso dall’oggetto “normale”, che dovrebbe essere la persona di sesso opposto. Per Freud, l’omosessualità è una devianza di uno sviluppo normale.
Quindi una forma di patologia?
Freud ritiene che l’omosessualità crea delle personalità più infantili o più narcisistiche. E occorre ricordare che fino agli inizi degli anno 80 - anche se non lo si diceva in questo modo - non si era analisti se si era omosessuali. Si nascondeva la propria omosessualità se si voleva diventare analisti, perché si riteneva che un analista omosessuale non avrebbe potuto analizzare bene il transfert. Non si tratta di incriminare Freud, che è stato un geniale esploratore dell’animo umano. Ma non per questo tutto quello che ha fatto è geniale.
C’è un corpus freudiano molto interessante per gli psicanalisti che possono servirsene come un riferimento, ma non certo come delle tavole della legge. Con Freud, si ha la realizzazione di un corpus clinico ancora utile. Ma certi psicanalisti fanno fatica a far entrare la nuova famiglia nel corpus freudiano (sulla genitorialità o sul complesso di Edipo, in particolare). Ne traggono le conclusioni che si debba bloccare il cambiamento familiare e sociale. Ma dimenticano che Freud ha cominciato osservando ciò che c’era attorno a lui, lasciando da parte il giudizio morale. Ma certi psicanalisti dicono che l’omogenitorialità cancellerebbe l’alterità, farebbe scomparire il ruolo del padre e della madre e costituirebbe un attacco all’equilibrio psichico dei bambini.
Questi argomenti sono accettabili?
È vero che il problema della differenza è fondamentale per lo sviluppo dello psichismo del bambino. Nella psicanalisi, questa differenza si fa su quella dei sessi e delle generazioni. La differenza delle generazioni esiste nell’omogenitorialità: non sono persone di 5 anni che adottano persone di 4 anni, sono degli adulti che adottano dei bambini. È evidente che un uomo e una donna sono differenti. Ma Freud ha anche parlato molto della bisessualità psichica - ogni essere è maschile e femminile - spiegando che c’era una differenza tra il maschile e il femminile biologici, esteriori, e il maschile e il femminile psichici, che sono di ordine diverso.
Si riduce il complesso di Edipo ad una realtà esteriore e sociale: un uomo, una donna, papà, mamma... Ora, spesso, i padri che vengono immaginati non sono i padri della realtà biologica. Quindi, quando si dice che occorre avere un padre e una madre per fare un Edipo, penso che questo non corrisponda alla realtà e che, del resto, non è buon freudismo.
Ci potrebbero quindi essere dei “padri” e delle “madri” all’interno delle coppie dello stesso sesso?
In una coppia in cui ci sono due uomini, penso che ci sia in effetti uno dei due che può rappresentare una parte femminile, ma che la femminilità e la mascolinità non si ritrovano necessariamente nella donna biologica e nell’uomo biologico. Quindi due uomini possono offrire ad un bambino quella variazione. Non è perché sono due uomini che ogni differenza viene cancellata. Non si può legare tutto al genere. Nelle coppie di omosessuali, c’è anche una divisione dei compiti: non è perché si è due uomini o due donne che si è identici e a specchio. Anche se è una visione caricaturale dei generi, si vede bene, per esempio, che una si occuperà di portare fuori la spazzatura, mentre l’altra laverà i piatti! Il principio di differenziazione che struttura un bambino può realizzarsi senza fondarsi sulla differenza dei sessi dei genitori.
L’omogenitorialità può turbare lo sviluppo psichico del bambino?
Per definizione, vediamo bambini in difficoltà, indipendentemente dal fatto che siano figlie o figli di eterosessuali o di omosessuali. Non ho visto per il momento una patologia specifica di figli di omosessuali. Ma penso di non essere io più abilitata dei miei colleghi a farne una regola generale per il momento. E sfido chiunque a farlo. Sì, stiamo vivendo un vero cambiamento antropologico, che si inscrive nella continuità della costruzione dell’individuo contemporaneo, che può decidere di tutto da solo, anche della propria sessualità.
Penso quindi che l’argomento che consiste nel dire “Ma quei bambini saranno traumatizzati perché saranno disprezzati dalla società quando andranno a scuola”, è poco accettabile, perché c’è un cambiamento di mentalità nei confronti dell’omosessualità. E il ruolo degli psicanalisti è di accompagnarlo.
Caroline Thompson, psicanalista e terapeuta familiare, servizio di psichiatria del bambino e dell’adolescente della Pitié-Salpêtrière