La pensatrice americana interviene in favore dell’educazione umanistica
Solamente una formazione filosofica e storica può creare buoni cittadini
Il fascino di vedere il mondo con gli occhi degli altri
L’invettiva, tanto cara ai media, non consente di formarsi un’opinione
La mancanza di una coscienza critica danneggia anche l’attività economica
di Martha C. Nussbaum (la Repubblica,15.04.2011)
Dove va oggi l’istruzione? Non si tratta di una domanda da poco. Una democrazia si regge o cade grazie al suo popolo e al suo atteggiamento mentale e l’istruzione è ciò che crea quell’atteggiamento mentale. Malgrado ciò, assistiamo a cambiamenti radicali nella pedagogia e nei programmi scolastici, sia nelle scuole che nelle università, cambiamenti sui quali non si è riflettuto a sufficienza.
La maggior parte dei Paesi moderni, ansiosi di crescere economicamente, hanno cominciato a pensare all’istruzione in termini grettamente strumentali, come ad una serie di utili competenze capaci di produrre un vantaggio a breve termine per l’industria. Ciò che nel fermento competitivo è stato perso di vista è il futuro dell’autogoverno democratico.
Come Socrate sapeva molti secoli fa, la democrazia è «un cavallo nobile ma indolente». Per tenerla sveglia occorre un pensiero vigile. Ciò significa che i cittadini devono coltivare la capacità per la quale Socrate diede la vita: quella di criticare la tradizione e l’autorità, di continuare ad analizzare se stessi e gli altri, di non accettare discorsi o proposte senza averli sottoposti al vaglio del proprio ragionamento.
Oggi la ricerca psicologica conferma la diagnosi di Socrate: la gente ha la preoccupante tendenza a sottomettersi all’autorità e alle pressioni sociali. La democrazia non può sopravvivere se non poniamo un limite a questi pericolosi atteggiamenti, coltivando l’attitudine a pensare in modo curioso e critico. Fin dal tempo in cui Socrate esortava gli ateniesi a non «vivere una vita senza indagine», sono soprattutto gli studi umanistici, e in particolare la filosofia, a permettere di coltivare tali capacità.
Coltivare l’argomentazione di Socrate favorisce inoltre un sano rapporto tra i cittadini nel momento in cui essi discutono di importanti questioni all’ordine del giorno. I mezzi di comunicazione moderni amano le frasi lapidarie e la sostituzione di un’autentica discussione con l’invettiva. Ciò crea una cultura politica degradata.
In un corso di filosofia, invece, gli studenti imparano a sviscerare l’argomentazione dell’avversario e a chiedere quali sono gli assunti sui quali essa si basa. Nel fare ciò, spesso gli studenti scoprono che le due parti, in realtà, hanno molto in comune e sorge in loro la curiosità di vedere in cosa realmente essi divergono, anziché considerare la discussione politica semplicemente un mezzo per segnare punti a favore della propria squadra e di umiliare l’avversario. La filosofia contribuisce così a creare uno spazio realmente deliberativo e questo è ciò di cui abbiamo bisogno, se vogliamo risolvere gli enormi problemi che affliggono tutte le democrazie moderne.
Ai cittadini occorre anche la conoscenza della storia, i fondamentali delle principali religioni e del modo in cui funziona l’economia globale. Ancora una volta, gli studi umanistici sono essenziali a questo sforzo di comprensione globale: lo studio della storia del mondo e delle principali religioni, lo studio comparato della cultura e la comprensione di almeno una lingua straniera, sono tutti elementi essenziali nel favorire una sana discussione circa i pressanti problemi del mondo. Inoltre, questo insegnamento storico deve includere un elemento socratico: gli studenti devono imparare a valutare l’evidenza, a pensare da soli sui diversi modo in cui essa può essere collocata e messa in atto nella realtà attuale. Perciò, per realizzare un’idea soddisfacente di cittadinanza globale, abbiamo bisogno anche della filosofia. Infine, i cittadini devono essere in grado di immaginare come appare il mondo agli occhi di coloro che si trovano in una situazione diversa dalla loro. Gli elettori che prendono in esame una proposta che interessa gruppi diversi (razziali, religiosi, ecc.) all’interno della loro società, devono essere in grado di immaginare le conseguenze che tali proposte hanno sulla vita delle persone reali e ciò richiede un’immaginazione coltivata. In che modo si coltiva l’immaginazione? Tutti noi veniamo al mondo muniti di una rudimentale capacità di positional thinking, di pensare dal punto di vista degli altri, ma tale capacità, solitamente, opera in un ambito limitato, nella sfera familiare, e richiede un ampliamento e un perfezionamento intenzionali. Questo significa che abbiamo bisogno della letteratura e dell’arte, attraverso le quali raffiniamo quello che il grande romanziere afro-americano Ralph Ellison definiva il nostro "occhio interiore", imparare a vedere coloro che sono diversi da noi non soltanto come un minaccioso "altro" ma come esseri umani totalmente eguali, con aspirazioni e obiettivi propri.
Ciononostante, in tutto il mondo, gli studi umanistici, l’arte e persino la storia vengono eliminati per lasciare spazio a competenze che producono profitti, che mirano a vantaggi a breve termine. Quando ciò avviene, le stesse attività economiche ne risentono, perché una sana cultura economica ha bisogno di creatività e di pensiero critico, come autorevoli economisti hanno sottolineato. Di recente, la Cina e Singapore, Paesi che certamente non hanno a cuore lo stato di salute della democrazia, vedendone l’importanza ai fini dell’innovazione e della creazione di un ambiente di lavoro non corrotto, hanno attuato vaste riforme dell’istruzione, tali da conferire maggiore centralità agli studi umanistici e all’arte, sia nei programmi scolastici che in quelli universitari. Dunque, nel lungo termine, la contrazione dell’istruzione in realtà nuoce al benessere economico.
Anche laddove ciò non accade, gli studi umanistici e l’arte sono essenziali per il genere di governo democratico che le nazioni hanno scelto e per il tipo di società che esse desiderano essere. Dobbiamo opporci con forza ai tagli agli studi umanistici, sia nell’istruzione scolastica che in quella superiore, affermando con fermezza che tali discipline apportano elementi senza i quali le democrazie moderne, come quella ateniese prima di Socrate, sarebbero ancora una volta dominate da una mentalità gregaria e dalla deferenza verso i capi carismatici. Questo sarebbe uno scenario terribile per il nostro futuro.
(Traduzione di Antonella Cesarini)
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Premio Nonino 2015
Maestra del nostro tempo
La buona scuola secondo Martha Nussbaum: più logica, pensiero critico, esperienze reali e immaginazione
di Armando Massarenti (Il Sole-24 Ore - Domenica, 25.01.2015)
Martha Nussbaum ha sempre accompagnato la sua opera di storica della filosofia antica a un forte impegno civile e a una elaborazione concettuale capace di incidere profondamente sul dibattito politico contemporaneo. Ciò accade per esempio per la teoria delle capabilities elaborata con Amartya Sen negli anni ’80 e poi sviluppata in una versione autonoma cui la filosofa americana ha legato una riflessione sul ruolo dell’educazione quale strategia fondamentale per riformare la società contemporanea.
Proprio a lei ci siamo ispirati nel lanciare da queste colonne la proposta di introdurre nelle scuole italiane, nell’ambito di Cittadinanza e Costituzione, l’insegnamento obbligatorio della logica, disciplina indispensabile per la formazione del pensiero critico, affinché siano forniti ai cittadini di domani gli strumenti necessari per pensare con la propria testa, formulare opinioni corrette, accettare la pluralità dei punti di vista, provare empatia verso l’altro, o il diverso, sviluppare spiccate capacità deliberative.
In che modo dunque la logica e la retorica - ma anche, pensando ad Aristotele, l’etica e la poetica - possono fornire spunti e strumenti pedagogici a chi insegna oggi o, ancora meglio, a chi intende riformare il sistema educativo? E in quali pensatori del passato possiamo trovare spunti per affrontare i problemi di oggi?
«Tra i molti di diverse epoche e diversi luoghi che potrei citare - risponde Martha Nussbaum - tre mi sembrano importanti: Socrate nei Dialoghi di Platone; la lettera del filosofo stoico romano Seneca sull’ ”educazione liberale”; e la teoria e la pratica del filosofo ed educatore indiano Rabindranath Tagore».
«Socrate - spiega Nussbaum - ha sfidato la democrazia ateniese a condurre una “vita pensata”, a preoccuparsi delle ragioni che diamo per le nostre convinzioni, creando una cultura democratica della ragione e dell’argomentazione, piuttosto che dell’autorità e della pressione dei Pari. La sua sfida è rilevante oggi come allora, le democrazie moderne hanno gli stessi difetti della sua Atene. Ma una “vita pensata”, piena di riflessione e di ricerca, è difficile: implica l’imparare ad argomentare, a curare la precisione, la validità e la struttura logica. Non c’è miglior modo di imparare queste cose che studiare i primi dialoghi di Platone in uno spirito di pedagogia critica e aperta».
E in che modo possono contribuirvi Seneca e Tagore? «Nel primo secolo dopo Cristo, Seneca si trovava di fronte a una forma di educazione dominata dall’apprendimento passivo, in cui le persone assorbivano i testi canonici della loro cultura senza né comprensione né attività reali, e li chiamavano “studia liberalia”, cioè “adatti a un gentiluomo nato libero”. Seneca dice che dovremmo invece preferire gli “studia liberalia” nel senso di studi che ci rendono liberi. Con questo intendeva liberi dalla tradizione e dall’autorità. A tale scopo, raccomandava innanzitutto la filosofia, ma anche la letteratura e la storia. Tagore imparò da entrambi, ma era un poeta e nella famosa scuola che fondò nel 1905 a Santiniketan, usava le arti come mezzi fondamentali per la comprensione. Musica, teatro, danza servivano ad ampliare l’immaginazione degli studenti, così imparavano ad occupare posizioni diverse dalla propria. Mi sembra che questo esempio dia un contributo che manca agli altri due: il valore dell’emozione e dell’immaginazione e come coltivarle attraverso le arti. Artisti ed educatori di tutto il mondo frequentarono la scuola di Tagore, compresa Maria Montessori. Somigliava parecchio alla Scuola-laboratorio di John Dewey e forse i due si erano incontrati, ma non si sa esattamente».
Anche Aristotele pensava che l’apprendimento dovesse essere accompagnato da “esperienze” di vita capaci di dare un senso ai saperi per esseri umani, non per eruditi. E Dewey rimproverava i suoi amici riformatori perché non vedevano quanto la scienza potesse fornire il modello di esperienza più adatto a formare indipendenza di giudizio e rifiuto del principio di autorità.
Eppure in molti, in Italia, tendono ancora a contrapporre saperi umanistici e saperi scientifici.
«La scienza nel senso migliore e più profondo è profondamente immaginativa e rigorosa, quindi ha legami stretti con le materie umanistiche. Purtroppo, quello che molti imparano sotto quell’etichetta non è la scienza di base, ma un insieme di capacità imparate a memoria senza una vera comprensione. Questo è “arido” davvero, ma la scienza non lo è».
Sappiamo, però, che molta della filosofia antica puntava sulla memoria quale funzione cognitiva fondamentale per lo sviluppo della logica così come dell’esperienza delle arti, e non a caso Mnemosyne, la memoria appunto, era la madre delle muse e delle varie arti. La scuola di oggi ha dimenticato il legame strettissimo tra memoria e creatività e ha condannato la memoria, relegandola a un ruolo marginale, anzi sostituendola con strumenti tecnologici di supporto.
Crede che sia una mossa giusta?
«Non mi piace molto usare “antichi” per parlare solo degli “antichi Greci e Romani”. In fondo, ogni civiltà è stata antica e quindi c’è un antico pensiero africano, cinese ecc.
I Greci credo che si affidassero alla memoria in gran parte perché molti erano analfabeti. E non è certo una cosa da incoraggiare nel mondo moderno. Quando la gente sa leggere, non deve mandare a mente un intero dramma di Shakespeare.
Eppure potrebbe esserci un motivo per memorizzarne delle parti, se si vuol ascoltare meglio il ritmo della poesia. In matematica, le calcolatrici sono un vantaggio impareggiabile e forse bisognerebbe chiedere agli insegnanti di matematica se i bambini devono tuttora imparare a fare le somme.
La memoria però è cruciale nel fornire un’architettura o un quadro generale a un pensiero più particolareggiato. Per esempio, la storia va imparata come un’intera narrazione e non solo guardandola a spizzichi e bocconi su Wikipedia. Qui la memoria ha ancora un ruolo. E le posizioni filosofiche vanno interiorizzate come una configurazione di argomentazioni e non mandando a mente solo una riga o l’altra di Platone. L’obiettivo deve essere sempre l’attività e la maestria, e queste sono spesso ostacolate da troppa memorizzazione, come Platone aveva già notato. Ma alcuni tipi di memorizzazione sono produttive».
Pensa che sia utile esercitare la competenza filosofica già nei bambini anche in tenera età?
«Sì, dovrebbero pensare a come si arguisce, a quali sono gli argomenti giusti e così via. C’è parecchia ricerca in proposito: a cinque o sei anni sono già capaci di trovare errori in un ragionamento se il tema è adatto alla loro età e la pedagogia li attira».
Che equilibrio dobbiamo immaginare tra materie che - come il critical thinking, o la logica e la retorica - forniscono agli studenti strumenti universali per differenti usi e quelle materie che invece richiedono approfondimenti e acquisizioni di nozioni e conoscenze?
«Conviene non specializzarsi troppo presto. È uno dei motivi che mi fanno preferire l’educazione universitaria delle “liberal arts”. Consente agli studenti di scegliere una materia principale, ma anche di imparare molto altro. È il modello dominante negli Stati Uniti, in Corea del Sud e in Scozia e vorrei che altri Paesi ne apprezzassero l’importanza».
Sa che l’Italia detiene un triste primato nella classifica Ocse dell’analfabetismo funzionale (functional illiteracy)? Non le pare una grande contraddizione che il Paese che nel mondo è visto come la culla della civiltà e della cultura sia così mal messo dal punto di vista della formazione dei propri cittadini?
«Sono certa però che l’Italia non è prima al mondo in questa categoria! Nei Paesi in via di sviluppo c’è troppa gente che non ha neppure accesso alla scuola. In India, dove lavoro di più per lo sviluppo, il tasso di alfabetizzazione degli adulti è del 65% per gli uomini e di circa il 50% per le donne.
Però gli italiani sembrano avere un problema serio. Non saprei chi ne è responsabile, ma immagino che sia l’educazione elementare. Una cosa che una nazione moderna deve fare è concentrarsi sui bisogni dei bambini con particolari difficoltà, per via della malnutrizione o della povertà, o della violenza fisica a casa, o perché in famiglia la lettura non è incoraggiata. Ogni Paese che accoglie immigranti deve anche provvedere a un insegnamento linguistico adatto ai loro bisogni».
Le neuroscienze cognitive di oggi ci mostrano una serie di errori sistematici che tendiamo a compiere in quanto esseri umani. In che modo i sistemi educativi possono fare tesoro di questo genere di studi?
«Trovo quei risultati molto interessanti. Ci aiutano a resistere alla tentazione di spiegare tutte le nostre norme con le nostre origini evolutive. In alcuni casi, l’evoluzione ci ha attrezzati bene per perseguire obiettivi validi, alcuni dei quali però esigono una resistenza a quanto abbiamo acquisito durante l’evoluzione. Per esempio, l’evoluzione ci fa diffidare degli stranieri e dalla gente il cui aspetto è diverso dal nostro. Ma la natura non è una norma: dobbiamo chiederci per che cosa lottiamo e trovare il modo di arrivarci. Nessuno direbbe mai che, se ci vediamo male, pazienza, dobbiamo vivere come natura ci ha fatti. Non dovremmo mai dire una cosa del genere per la vita morale».
Esiste anche un analfabetismo dei sentimenti. Qual è il modo migliore per sviluppare non solo le capacità logiche e argomentative ma anche le passioni e i sentimenti, evitando nel contempo le trappole che essi comportano?
«Certo. Nasciamo tutti con la capacità di vedere il mondo dal punto di vista altrui, per esempio, ma di solito la sviluppiamo in modo ristretto e selettivo, limitato alla nostra famiglia, al nostro gruppo locale. Ma quella capacità può essere sviluppata sistematicamente con l’educazione storica e artistica, così diventiamo capaci di vedere come appare il mondo da molti punti di vista diversi. Dobbiamo riuscirci per fare scelte politiche responsabili. C’è tanta ricerca su come la letteratura sviluppi questa capacità. Naturalmente questo tipo di empatia non ci dice quali sono gli obiettivi cui mirare, ma, qualunque essi siano, ci aiuta. Per formulare gli obiettivi giusti, abbiamo bisogno di un pensiero normativo rigoroso, in filosofia morale e politica, per avere un’idea di quali emozioni sono utili e quali non lo sono».
Se il lavoro non c’è, perché andare a scuola?
di Giuseppe Caliceti (il manifesto, 8 febbraio 2013)
Perché si va a scuola? Per trovare un lavoro da grandi. Sì, certo, ma se poi da grandi il lavoro non c’è perché siamo in piena crisi del mercato del lavoro, andare a scuola, allora, cosa serve? Risposta: a niente. O meglio: a tenere buoni alunni e studenti. Possibile? Sembra proprio così.
Dunque, andiamo con ordine: negli ultimi venticinque anni si è fatta strada in Italia l’idea che la funzione principale dell’università e dell’intero sistema formativo sia fornire forza-lavoro al mondo del lavoro e dell’economia. Un’idea forte, che ha messo al centro dei processi educativi il concetto di formazione (a breve termine), mettendo nell’ombra quello di educazione (a lungo termine). È un’idea derivata dall’unione fondamentalmente economica dell’Europa. Che ha trovato diversi adepti anche tra pedagogisti e politici, non solo legati al centrodestra ma anche al centrosinistra. Potremmo chiamarla un’idea di politica scolastica di matrice neoliberista.
Anche il linguaggio dell’amministrazione scolastica è cambiato: si è parlato di scuola-azienda, con tutto ciò che questo comporta in termini didattici e pedagogici. Si sono ripetute parole d’ordine come meritocrazia, sorvolando sulla funzione sociale e di uguaglianza delle opportunità di un sistema scolastico statale. Si è provato in ogni modo a proporre test sulla qualità delle scuole e della formazione utili più a ricerche di mercato che a e nuove strategie educative; ricordiamoci sempre che l’Ocse che misura i nostri ragazzi è un organismo economico, non filosofico o pedagogico.
La domanda che pongo è questa: che fine fa la visione di un’università e di una scuola che hanno come stella polare quello di creare forza-lavoro nel tempo della crisi del mercato del lavoro? Dove magari, come accade in Italia, il cui tessuto economico è fatto in gran parte di piccole aziende semiartigianali, il laureato specializzato è meno attraente di un lavoratore non specializzato, magari d’origine straniera e a basso costo?
Non sono domande nuove: negli Stati Uniti e in Inghilterra, quel sistema scolastico anglosassone che noi oggi cerchiamo di replicare fuori tempo massimo in Italia, è già sotto accusa e si sta correndo ai ripari. Intanto il risultato delle cattive politiche scolastiche messe in atto dagli ultimi governi italiani ha portato ai primi cattivi frutti. Uno: la scuola primaria italiana che era prima per qualità in Europa nel 2008, dopo la controriforma Gelmini è precipitata in classifica. Due: oltre 50.000 immatricolazioni universitarie in meno negli ultimi dieci anni; che è assurdo attribuire solo al calo demografico.
Occorre riflettere, specie nel centrosinistra italiano, sulla visione di scuola e università che vogliamo. Magari rivalutando quella pedagogia popolare italiana del Novecento non togata, che va da Gianni Rodari a don Milani a Loris Malaguzzi, che parlavano più di educazione - permanente, civile, della persona - che di formazione temporanea. E che mettevano la scuola al centro della vita sociale e democratica di un Paese, come suo cuore pulsante, piuttosto che subordinarla acriticamente a un mercato o a ideologie.
Il vero profitto Nussbaum, la filosofia del talento
“Investiamo su capacità e diritti”
di Roberto Festa (la Repubblica, 02.03.2012)
«Per troppi anni abbiamo sopravvalutato il Pil, che non è un indicatore reale della qualità della vita. Sono altre le cose importanti, che rivelano la ricchezza di un Paese: sanità, educazione, rispetto delle minoranze, emozioni ed immaginazione». Martha Nussbaum, celebre per i suoi studi su etica, cittadinanza, mondo classico, educazione, sessualità, dice di aver pensato a Creare capacità. Liberarsi dalla dittatura del Pil come a un’introduzione generale alla teoria dell’approccio delle capacità. «Me lo chiedevano insegnanti, lettori, persone impegnate nel settore dello sviluppo». Poi, durante la fase dell’elaborazione e della scrittura, il discorso si è allargato. Le prospettive si sono arricchite. E questa teoria del Welfare, largamente discussa dagli economisti - Amartya Sen, James Foster, Sudir Anand - , utilizzata da grandi istituzioni internazionali come lo United Nations Development Programme, è diventata un modo per approfondire le cose da sempre più importanti per la Nussbaum: giustizia sociale, pluralismo, diritti, libertà di scelta.
Perché il Pil non è un buon indicatore della ricchezza di un Paese?
«Per due ragioni. Anzitutto, il Pil è una media, non prende in considerazione distribuzione della ricchezza e ineguaglianze. Anni fa il Sudafrica aveva un Pil altissimo e pareva lanciato sulla strada di uno sviluppo travolgente. I numeri trascuravano però il fatto che il 90% della popolazione era esclusa da questa ricchezza. In secondo luogo, il Pil non riesce a descrivere aspetti centrali dell’esperienza umana. Ci sono Paesi economicamente molto forti, che trascurano completamente la sanità e hanno un sistema educativo diseguale. È il caso degli Stati Uniti. Ci sono Paesi con ottimi Pil e scarse libertà religiose e politiche. È il caso della Cina».
In che modo l’approccio delle capacità è un modello migliore, più capace di rappresentare la reale ricchezza di un Paese?
«Perché permette di fissarci non più sui redditi, sui beni materiali, sulla percentuale pro capite del prodotto interno lordo, ma sulle "capacità" di uomini e donne: la loro libertà di scelta, le loro opportunità, che sono poi la combinazione delle doti e delle conoscenze di ciascuno all’interno di un determinato contesto sociale, economico, politico».
Lei identifica dieci "capacità", dieci "diritti universali" di cui ogni uomo dovrebbe godere. Tra questi, il diritto alla vita, alla salute, all’appartenenza. Ci sono però elementi - l’immaginazione, le emozioni - che pare difficile considerare diritti di rilievo pubblico...
«Immaginazione ed emozioni sono aspetti centrali dell’esperienza umana, e non fanno semplicemente parte della sfera privata. Pensiamo per esempio ai problemi di salute emotiva delle donne. Violenza domestica, stato di minorità sociale, paura di aggressioni e stupri nutrono e guastano le emozioni delle donne. Perché le donne non possono camminare la notte, da sole, senza provare spesso un sentimento di terrore? Perché la sfera pubblica - polizia, politica, leggi - non le tutela a sufficienza. Stesso discorso per l’immaginazione. Se la scuola educa i ragazzi costringendoli a una memorizzazione piatta, non stimola l’immaginazione. Con grave danno per la società e l’economia, dove la capacità di innovare e immaginare soluzioni nuove è cruciale».
Cosa risponde a chi rimprovera a questo modello un’eccessiva concentrazione sulle opportunità, piuttosto che sulle realizzazioni?
«Guardi, io non credo alla necessità di dire alla gente come comportarsi e vivere. Credo si debbano rimuovere gli ostacoli, offrire opportunità. Poi ognuno decide, sulla base delle proprie competenze, tradizioni, predilezioni. L’approccio delle capacità dice che ogni essere umano deve godere di un certo diritto alla salute, alle libertà politiche e religiose. Non chiede alle persone di agire in un certo modo, né si immischia con le coscienze individuali. Le faccio un esempio: l’obbligo di votare. Ci sono religioni, come quella degli Amish negli Stati Uniti, che impongono di non partecipare alla vita politica. È un loro diritto. Quello che le istituzioni statali e di governo devono fare è offrire strumenti di partecipazione, un’educazione adeguata, il diritto di arrivare fisicamente al seggio, la trasparenza delle procedure di voto. Poi, spetta al singolo decidere se collocare la scheda nell’urna».
L’approccio delle capacità è più un modello di rilevazione della ricchezza o più una teoria di giustizia sociale?
«È entrambe le cose. Per gli economisti, è stato un modello utile a misurare la qualità della vita nell’ambito di una teoria di Welfare avanzato. Per me, è stato un modello di giustizia e un appello all’azione. Quando si usa il termine giustizia e si afferma che un Paese che non rispetta determinati standard su sanità ed educazione non è giusto, si dà un enorme impulso all’azione. Penso al caso del Giappone, per decenni in cima a tutte le tabelle del Pil, ma che precipitò nelle classifiche, quando le istituzioni di sviluppo mondiali cominciarono a prendere in esame indicatori come il gender, il genere. Be’, negli ultimi anni molto è stato fatto in Giappone per migliorare la condizione delle donne. La teoria dell’approccio delle capacità, con la lista dei diritti che devono essere garantiti a ogni persona, ha fissato gli standard minimi per una vita decente ed è stata una grande alleata del movimento mondiale per i diritti umani».
Lei, Amartya Sen, gli altri teorici delle capacità rilanciate una teoria del Welfare in un momento di riduzione della spesa sociale in tutto il mondo. Non vi sembra una posizione antistorica?
«No. Sicuramente l’approccio delle capacità non corrisponde a certi trend del mio Paese, gli Stati Uniti. Ma sono convinta che, nonostante le difficoltà, l’Europa rappresenti ancora un luogo dove sicurezza e protezione sociale sono beni da tutelare. È a quel mondo che guardano quelli come me».
Eppure in Italia è aperta una discussione politica e culturale sull’abolizione dell’articolo 18. Per alcuni è una necessità, renderebbe più dinamico il mercato del lavoro. Per altri è un attacco a un diritto essenziale. Cosa risponde, sulla base dell’approccio delle capacità?
«Rispondo che il lavoro è un diritto ineliminabile di ogni uomo, e quindi lo Stato deve fare di tutto per garantirlo, al più alto numero di uomini e donne e per buona parte della loro vita. Penso per esempio al caso dell’India, dove il Congresso ha votato un numero minimo e stabilito di giornate di lavoro annue per ogni famiglia di agricoltori. Non vivere attraverso il proprio lavoro compromette la dignità umana. Per essere giuste, le politiche devono essere rivolte alla piena occupazione».
Come insegnare ai ragazzi il desiderio di nuovi mondi
Lo psicoanalista riflette sulla crisi del discorso educativo e sulla ridefinizione del docente: una figura che deve animare la curiosità
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 29.04.2011)
Il lavoro degli insegnanti è diventato oggi un lavoro di frontiera: supplire a famiglie inesistenti o angosciate, rompere la tendenza all’isolamento e all’adattamento inebetito di molti giovani, contrastare il mondo morto degli oggetti tecnologici e il potere seduttivo della televisione, riabilitare l’importanza della cultura relegata al rango di pura comparsa sulla scena del mondo, riattivare le dimensioni dell’ascolto e della parola che sembrano totalmente inesistenti, rianimare desideri, progetti, slanci, visioni in una generazione cresciuta attraverso modelli identificatori iperedonisti, conformistici o apaticamente pragmatici.
Gli insegnanti consapevoli ce lo dicono in tutti i modi: "Non ascoltano più!", "Non parlano più!", "Non studiano più!", "Non desiderano più!". Cosa può dunque tenere ancora vivo il motore del desiderio? Non è forse questa la missione che unisce tutte le figure (a partire dai genitori) impegnate nel discorso educativo? Mestiere impossibile decretava Freud. Aggiungendo però a questa profezia pessimistica una buona notizia: i migliori sono quelli che sono consapevoli di questa impossibilità, quelli che non si prendono per davvero come padri o insegnanti educatori. I migliori sono quelli che hanno contattato la loro insufficienza. Sono quelli che hanno preso coscienza dell’impossibilità e del danno che provocherebbe porsi come gli educatori migliori.
Proviamo ora a fare un esperimento mentale: chi sono gli insegnanti che non abbiamo mai dimenticato? Sono quelli che hanno saputo incarnare un sapere, sono quelli che ricordiamo non tanto per ciò che ci hanno insegnato ma per come ce lo hanno insegnato. Ciò che conta nella formazione di un bambino o di un giovane non è tanto il contenuto del sapere, ma la trasmissione dell’amore per il sapere. Gli insegnanti che non abbiamo dimenticato sono quelli che ci hanno insegnato che non si può sapere senza amore per il sapere. Sono quelli che sono stati per noi uno "stile".
I bravi insegnanti sono quelli che hanno saputo fare esistere dei mondi nuovi con il loro stile. Sono quelli che non ci hanno riempito le teste con un sapere già morto, ma quelli che vi hanno fatto dei buchi. Sono quelli che hanno fatto nascere domande senza offrire risposte già fatte. Il bravo insegnante non è solo colui che sa ma colui che, per usare una bella immagine del padre sopravvissuto celebrato da Cormac McCarthy ne La strada, "sa portare il fuoco".
Portare il fuoco significa che un insegnante non è qualcuno che istruisce, che riempie le teste di contenuti, ma innanzitutto colui che sa portare e dare la parola, sa coltivare la possibilità di stare insieme, sa fare esistere la cultura come possibilità della comunità, sa valorizzare le differenze, la singolarità, animando la curiosità di ciascuno senza però inseguire alcuna immagine di "allievo ideale", ma esaltando piuttosto i difetti, persino i sintomi, di ciascuno dei suoi allievi, uno per uno. È, insomma, come scrisse un grande pedagogista italiano quale fu Riccardo Massa, qualcuno che "sa amare chi impara". Tutti ne abbiamo conosciuto almeno uno. Questa è la vera prevenzione primaria che servirebbe ai nostri figli: incontrarne almeno uno così. Dobbiamo, invece che ironici, essere riconoscenti all’esercito civile di chi ha scelto di vivere nella Scuola, a coloro che hanno autenticamente e appassionatamente scelto di amare chi impara.
Mi è capitato di voler continuare ad insegnare mentre venivo interrotto in aula dagli studenti che protestavano per la Legge Gelmini. Avevano ragione, ma ho insistito nel difendere le mie ragioni. La democrazia è fatta di queste divergenze, di questi conflitti tra prese di posizione diverse che possono convivere mantenendosi tali. Volevo proseguire nella lezione perché un’ora di lezione non è un automatismo svuotato di senso, non è routine senza desiderio come invece sembrava pensassero i miei interlocutori. Certo questo è il morbo della Scuola, è la patologia propria del discorso dell’Università che ricicla un sapere che tende anonimamente alla ripetizione annullando la sorpresa, l’imprevisto, il non ancora sentito e il non ancora conosciuto.
Il vero nemico dell’insegnante è la tendenza al riciclo e alla riproduzione di un sapere sempre uguale a se stesso. È lo spettro che sovrasta e può condizionare mortalmente questo mestiere: adagiarsi sul già fatto, sul già detto, sul già visto. Ridurre l’amore per il sapere a pura routine. A quel punto non c’è più trasmissione di una conoscenza viva ma burocrazia intellettuale, parassitismo, noia, plagio, conformismo. Un sapere di questo genere non può essere assimilato senza generare un effetto di soffocamento, una vera e propria anoressia intellettuale. Eppure la Scuola continua ad essere fatta di ore di lezione che possono essere avventure, esperienze intellettuali ed emotive profonde. Di fronte ai giovani che protestavano ho voluto continuare ad insegnare e l’ho fatto per tutti i maestri che mi hanno insegnato che un’ora di lezione può sempre aprire un mondo.
Il nostro tempo segnala una crisi senza precedenti del discorso educativo. Le famiglie appaiono come turaccioli sulle onde di una società che ha smarrito il significato virtuoso e paziente della formazione rimpiazzandolo con l’illusione di carriere prive di sacrificio, rapide e, soprattutto, economicamente gratificanti. Come può una famiglia dare senso alla rinuncia se tutto fuori dai suoi confini sospinge verso il rifiuto di ogni forma di rinuncia? Per questa ragione di fondo la Scuola viene invocata dalle famiglie come un’istituzione "paterna" che può separare i nostri figli dall’ipnosi telematica o televisiva in cui sono immersi, dal torpore di un godimento "incestuoso", per risvegliarli al mondo. Ma anche come una istituzione capace di preservare l’importanza dei libri come oggetti irriducibili alle merci, come oggetti capaci di fare esistere nuovi mondi.
Capissero almeno questo i suoi censori implacabili. Capissero che sono innanzitutto i libri - i mondi che essi ci aprono - ad ostacolare la via di quel godimento mortale che sospinge i nostri giovani verso la dissipazione della vita (tossicomania, bulimia, anoressia, depressione, violenza, alcoolismo, ecc). Lo sapeva bene Freud quando riteneva che solo la cultura poteva difendere la Civiltà dalla spinta alla distruzione.
La Scuola contribuisce a fare esistere il mondo perché un insegnamento, in particolare quello che accompagna la crescita (la cosiddetta scuola dell’obbligo), non si misura certo dalla somma nozionistica delle informazioni che dispensa, ma dalla sua capacità di rendere disponibile la cultura come un nuovo mondo, come un altro mondo rispetto a quello di cui si nutre il legame familiare. Quando questo mondo, il nuovo mondo della cultura, non esiste o il suo accesso viene sbarrato, come faceva notare il Pasolini luterano, c’è solo cultura senza mondo, dunque cultura di morte, cultura della droga. Se tutto sospinge i nostri giovani verso l’assenza di mondo, verso il ritiro autistico, verso la coltivazione di mondi isolati (tecnologici, virtuali, sintomatici), la Scuola è ancora ciò che salvaguarda l’umano, l’incontro, le relazioni, gli scambi, le amicizie, le scoperte intellettuali. Un bravo insegnante non è forse quello che sa fare esistere nuovi mondi?
(L’autore ha scritto "Cosa resta del padre?" per Raffaello Cortina)
Perché la scuola pubblica fa paura a Berlusconi?
di Maria Rosa Panté *
la cara e buona imagine paterna
di voi quando nel mondo ad ora ad ora
m’insegnavate come l’uom s’etterna:
(Inferno, XV)
Dante Alighieri così ricorda il suo maestro, Brunetto Latini. L’uomo dalla cara immagine paterna e che insegnò a quell’allievo “come l’uom s’etterna”. In pochi versi com’è nella poesia di Dante (insuperata) ecco non solo il ritratto di un professore, ma la scopo, il fine, il traguardo cui un professore e tutta la scuola dovrebbe giungere: insegnare ai ragazzi “come l’uom s’etterna”.
Cosa vuol dire? Brunetto Latini fu un grande maestro per Dante perché gli diede i mezzi, gli strumenti per far fiorire al massimo la sua umanità. Lo fece diventare un vero essere umano, un uomo a tal punto grande e completo da essere eterno, insomma una persona che lascia traccia di sé. Per Dante fu attraverso la poesia, per altri attraverso modi molto diversi, anche i più umili. Ogni vera persona lascia traccia di sé e una persona diviene tale crescendo, avendo una famiglia, degli amici e un buon maestro, una buona scuola.
Una persona che vive bene la scuola, cioè che arriva a imparare come l’uom s’etterna è una persona libera, intelligente, attiva, una persona che ha propri pensieri e non si lascia condizionare. Una persona che pensa e ragiona.
Contro tutto questo, contro questo tipo di persona si scaglia Berlusconi nei suoi attacchi alla scuola pubblica.
Certo c’è anche il fine di ingraziarsi una Chiesa sempre più imbarazzata dai suoi eccessi. Una Chiesa che, da cristiana, mi auguro abbia al più presto forza profetica e abbandoni una persona e una parte politica così sinistri.
Dico sinistri non a caso, giacché le accuse di Berlusconi contro la scuola pubblica si concentrano sul fatto che gli insegnanti sono per la maggior parte di sinistra e dunque inculcano valori contrari a quelli delle famiglie.
Non sto ad analizzare una tale somma di fesserie e di incongruenze.
Cerco di rispondere a domande quali: perché tali attacchi alla scuola? Perché tanti tagli alla scuola e all’istruzione? Perché un ministro così palesemente incapace (ha sul gobbo una miriade di condanne per le decisioni prese) e per giunta arrogante?
La mia risposta è questa: Berlusconi e quelli come lui non vogliono che i ragazzi imparino “come l’uom s’etterna”. Questo sì è un valore che non si apprende, se non raramente in famiglia; questo è compito della scuola. Berlusconi vuole essere eterno solo lui e non vuole contraddittori, la scuola gli fa paura, fa paura a quelli come lui.
La scuola terrorizza chi non ha idee e basa il suo potere sul vuoto mentale. Proprio per questo credo che i docenti debbano sentire la responsabilità e l’orgoglio del loro difficilissimo (sempre più difficile) lavoro. I docenti sappiano che, se sono nel mirino di certe persone, è perché sono i membri più importanti della società, sono gli educatori, loro sono sulla breccia, sulle barricate. Quando si vuole distruggere uno Stato, infatti, si distrugge prima di tutto il pensiero e l’educazione al pensiero. Insomma i docenti se lo ripetano quando sono stanchi, demotivati, davanti a ragazzi che non studiano, che addirittura sono maleducati; davanti a famiglie che difendono i loro rampolli, davanti all’attuale Presidente del Consiglio. Se lo ripetano con orgoglio: io ho un compito grande, il più grande, insegnare come l’uom s’etterna. Qualcuno dei miei allievi lo imparerà!
1911-2011: l’Italia della scienza negata
di Armando Massarenti (Il Sole-24 ore, 17 aprile 2011)
Immaginate di vivere in un paese in cui l’egemonia culturale è dettata dallo spirito di un uomo che non eccelle solo nel proprio ambito, la matematica, ma è dotato anche di una visione generale, storica, critica, dei diversi saperi scientifici; e che ama ricollocarli, nel loro continuo intrecciarsi e progredire, entro una visione unitaria del sapere. Un uomo che, senza disdegnare le discipline umanistiche, è ben consapevole di quanto la scienza abbia contribuito, e potrà in futuro contribuire, alla crescita dell’industria, dell’istruzione generale, del vivere civile.
Quest’uomo ha anche in mente, fin nei dettagli, un sistema educativo critico e costitutivamente aperto - proprio come i saperi che intende rafforzare e veicolare, e come il "metodo" che ha già portato a scoprire fondamentali leggi di natura - e vuole mettere tutto ciò al servizio di una scuola al passo coi tempi, che non sia concepita solo per una piccolissima élite, ma che sappia stimolare l’intelligenza e la creatività del più ampio numero possibile di persone.
Ora pensate invece a un paese in cui l’egemonia è dettata da una filosofia che considera la scienza, e persino la matematica, come una sorta di menomazione dell’intelletto, frutto di menti settoriali e limitate, soprattutto se confrontata con le vette altissime di un sapere le cui leggi universali sono attingibili a livello Metafisico da poche menti elette, le sole capaci di nutrirsi di arte, filosofia e letteratura, cioè degli ingredienti dell’unica cultura davvero degna di questo nome. E ora scegliete. In quale di questi due paesi preferireste essere nati?
Certo, direte, nessuno dei due esiste allo stato puro. Somigliano più a dei modelli archetipici che a descrizioni di mondi reali. Però, se avete scelto il secondo, spero vi sia almeno chiaro che, nelle sue linee generali, è proprio quello in cui state vivendo. Almeno da un secolo a questa parte, da quando a Bologna si consumò uno dei confronti culturali più drammatici della nostra storia.
Il 6 aprile 1911 si tenne il congresso della Società filosofica italiana, fondata e presieduta dal grande matematico Federigo Enriques, un formidabile organizzatore culturale, autore di libri di storia della scienza, cofondatore della casa editrice Zanichelli (con cui pubblicò buona parte delle sue opere) e di riviste filosofiche e scientifiche.
Enriques riteneva che una filosofia degna di una società moderna non potesse che essere pensata in stretta connessione con l’avanzare delle scienze. Sapeva di porsi così in aperto contrasto con l’emergente idealismo di Benedetto Croce e Giovanni Gentile, con i quali cercò di ingaggiare un confronto civile, ma rimase sconcertato dalla violenza con cui questi condussero la disputa. Enriques aveva denunciato il loro atteggiamento nei confronti dei saperi scientifici proprio in quanto genericamente liquidatorio e, in definitiva, antifilosofico.
Quella degli idealisti non era la critica filosofica delle scienze, postpositivista, che egli auspicava, capace di entrare nel merito delle competenze di ambiti specifici e di contribuire alla loro crescita, ma un modo apodittico di negare il connubio tra scienza e filosofia, come se Leibniz e Cartesio non fossero stati insieme filosofi e scienziati, oltre che fondatori della filosofia moderna.
Ma fu proprio quel tono sprezzante e liquidatorio a inasprirsi durante la disputa e a segnare la sconfitta di Enriques. Gli fu dato platealmente dell’incompetente. E non solo in campo filosofico. Fu invitato, in maniera insultante, a parlare solo della sua materia, cioè di matematica, un sapere non per veri filosofi ma per quegli «ingegni minuti» che sarebbero appunto gli scienziati. Ma il suo dilettantismo abbracciava anche la scienza. Come si poteva concepire una rivista - notò Gentile - «che discorra, in uno stesso fascicolo, dell’elettro-magnetismo dell’universo, della medianità, dei rapporti tra chimica e biologia, del bisogno di luce che hanno le piante, della coscienza, della scuola economica austriaca, delle principali leggi della sociologia, delle origini del celibato religioso, della riforma dell’insegnamento di matematica elementare eccetera»? «Secondo me, non può incoraggiare se non il dilettantismo scientifico, di cui non so quanto sia per giovarsi la scienza».
Peccato che né Croce né Gentile potessero apprezzare il valore dei "dilettanti" che scrivevano su «Scientia», membri di quella comunità scientifico-filosofica internazionale che, grazie a intellettuali come Enriques, comprendeva anche il nostro giovane stato nazionale. Qualche nome? Mach, Poincaré, Carnap, Cassirer, Rutherford, Lorentz, Russell, Einstein.
La sconfitta di Enriques ha avuto conseguenze durature. Ha portato ad esempio alla costruzione del sistema educativo gentiliano. Che, beninteso, ha avuto i suoi indiscutibili pregi: il liceo, benché antiscientifico nello spirito, ha comunque contribuito a formare una classe dirigente che talvolta è riuscita a eccellere anche in ambiti scientifici. L’insegnamento della filosofia, scientifica o antiscientifica che sia, unito a una solida cultura classica, è comunque un’eccellente palestra del pensiero e una porta di accesso per un’ampia gamma di competenze. Ma oggi che anche i licei classici non sono più quelli di una volta, non sarebbe giusto pensare a una scuola più direttamente improntata ai saperi necessari alla società di oggi? Non potremmo, nel nome di Enriques, provare a proiettarci in un futuro diverso da quello che ci è toccato in sorte un secolo fa?
Messaggio del premier alla riunione dell’Associazione delle mamme: "Ora potete scegliere liberamente quale educazione dare ai vostri figli e sottrarli ai professori di sinistra". Insorge l’opposizione: "Parole ignobili" *
PADOVA - Silvio Berlusconi, in un messaggio inviato a Padova a una riunione dell’Associazione nazionale delle mamme, ha sottolineato che i genitori oggi possono scegliere liberamente "quale educazione dare ai loro figli e sottrarli a quegli insegnamenti di sinistra che nella scuola pubblica inculcano ideologie e valori diversi dal quelli della famiglia".
Un attacco frontale contro la scuola pubblica che richiama quello già fatto dal premier alla fine dello scorso febbraio in un intervento al congresso dei cristiano riformisti 1. In quell’occasione il presidente del Consiglio, citando a sua volta il suo discorso del ’94 in occasione dell’avvio del suo impegno politico, aveva detto: "Libertà vuol dire avere la possibilità di educare i propri figli liberamente, e liberamente vuol dire non essere costretti a mandarli in una scuola di Stato, dove ci sono degli insegnanti che vogliono inculcare principi che sono il contrario di quelli dei genitori".
Il premier oggi, parlando poi dell’azione del governo ha ricordato l’introduzione di leggi contro la violenza sessuale e il reato di stalking. Si è detto quindi convinto delle grandi capacità delle donne: "siete più brave di noi uomini, a scuola, sul lavoro, siete più puntuali , più precise e più responsabili. Anche per questo ho voluto che nel nostro governo ci fossero ministri donne e mamme che sono attivissime
e bravissime".
"Care mamme - ha concluso - vi garantisco che il governo continuerà a lavorare con lo stesso entusiasmo e con lo stesso impegno per valorizzare il vostro ruolo nella famiglia nel mondo del lavoro e nella società". Berlusconi nella nota si è congedato con "un bacio e un saluto affettuoso a tute voi con l’augurio che possiate realizzare tutti i progetti e i sogni che avete nella mente e nel cuore".
L’intervento del premier ha fatto subito scattare le proteste dell’opposizione. "Le parole di Berlusconi sulla scuola pubblica sono un ignobile attacco, privo di qualsiasi giustificazione reale. Il capo del governo - afferma il capogruppo Idv alla Camera Massimo Donadi - dovrebbe difendere e valorizzare il pilastro educativo del paese, non additarlo come esempio negativo. Queste parole aiutano a comprendere la vera missione che il governo ha portato avanti in questi anni: tagliare i fondi alla scuola pubblica per aiutare quelle private. L’istruzione pubblica è un valore costituzionale da difendere e ampliare. Berlusconi chieda scusa a tutti gli insegnanti, che, pur in condizioni difficili, continuano a svolgere egregiamente il loro ruolo".
"Con il governo Berlusconi - rincara la responsabile politiche per la famiglia e terzo settore del Pd Cecilia Carmassi - ogni donna che aspetta un figlio è a rischio licenziamento". "Sulla famiglia e sulle donne, solo retorica e falsità - aggiunge - non so con quale faccia, Berlusconi possa affermare di sostenere e tutelare la maternità quando uno dei primi atti del suo governo è stato quello di cancellare il divieto delle dimissioni in bianco: con il governo Berlusconi ogni donna che aspetta un figlio è a rischio licenziamento attraverso la pratica di far firmare alle donne, al momento dell’assunzione, un foglio di dimissioni in bianco".
Dura anche la presa di posizione dei rappresentanti del mondo della scuola. Le parole di Silvio Berlusconi sulla scuola pubblica pronunciate a Padova, denuncia il segretario generale Flc-Cgil, Mimmo Pantaleo, "sono eversive perché mirano a cancellare la libertà d’insegnamento". "Sappia Berlusconi - avverte il sindacalista - che non riuscirà a trasformare gli insegnanti in suoi portavoce o nelle veline delle sue televisioni". Per Pantaleo si tratta di "un ulteriore attacco ai valori della Costituzione: appare chiaro come le controriforme della Gelmini mirino unicamente a distruggere l’istruzione pubblica e la libertà nelle scuole e nelle università pubbliche. Un presidente del Consiglio e un governo moralmente impresentabili non hanno alcun diritto di attaccare il diritto allo studio e la dignità dei docenti". Pantaleo ha annunciato che il sindacato risponderà "con lo sciopero generale del 6 maggio e con una mobilitazione immediata nelle scuole e nelle università".
Anche l’Unione degli studenti definisce le parole del presidente del Consiglio "immonde e indegne". "Siamo stanchi di questo governo - aggiunge una nota - che taglia miliardi alla scuola pubblica e se ne vanta, mentre migliaia di docenti precari non trovano lavoro, mentre si abbassa il livello della formazione, mentre centinaia di migliaia di studentesse e studenti vivono il dramma di tasse, trasporti, libri di testo che hanno costi elevatissimi".
* la Repubblica, 16 aprile 2011
Elogio dell’imparare
Impara la cosa più semplice! Per quelli
il cui tempo è venuto
non è mai troppo tardi!
Impara l’abbiccì. Non basta, è vero.
Ma imparalo! Non avvilirti!
Comincia! Devi sapere tutto!
Tocca a te prendere la direzione.
Impara, uomo all’ospizio!
Impara, uomo in prigione!
Impara, donna in cucina!
Impara, sessantenne!
Tocca a te prendere la direzione.
Frequenta la scuola; senzatetto!
Procurati sapere, tu che hai freddo!
Affamato, impugna il libro: è un’arma.
Tocca a te prendere la direzione.
Compagno, non temere di chiedere!
Non far credito a nulla,
Controlla tu stesso!
Quello che non sai di tua scienza
In realtà non lo sai.
Verifica il conto:
Tocca a te pagarlo.
Poni il dito su ogni voce.
Chiedi cosa significa.
Tocca a te prendere la direzione