San Giovanni in Fiore (Cosenza) - Su “il Cittadino” del settembre ‘95 c’è una pagina dedicata a don Franco Spadafora, all’epoca nuovo parroco di Santa Maria delle Grazie-Abbazia florense. Dino Trabalzini, allora vescovo di Cosenza, lo nominò al posto di don Vincenzo Mascaro, che nel 1989 restituì l’Abbazia florense al culto, grazie alla collaborazione della politica.
Nel settembre di quell’anno, poco prima della caduta del Muro di Berlino, il cardinale Ugo Poletti, che presiedeva la Cei, presenziò alla riapertura dell’Abbazia, ristrutturata con fondi del Tesoro. La Dc mobilitò Carmelo Pujia, più volte sottosegretario di Stato e vicino a Giulio Andreotti. Il Pci partecipò con Antonio Acri e Mario Oliverio, rispettivamente assessore provinciale a Cosenza e all’Agricoltura regionale. Il Psdi convenne con Giuseppe Atteritano; il Centro internazionale di Studi gioachimiti concorse con l’allora presidente, Salvatore Oliverio. Tutti insieme, per una settimana di celebrazioni religiose e civili, con un fitto comitato di autorità, il Banco del Mutuo Soccorso e la banda musicale dei carabinieri.
Tra passato e presente, un ex amministratore del luogo ci fornisce un quadro preciso sull’Abbazia florense, monumento oggi dimenticato sul quale pesano individualismi, giochi remoti della politica, logiche spartitorie, invidie e appetiti. Una lunga storia, che partì dalla denigrazione di don Mascaro con un episodio grottesco. La notte in cui si festeggiava all’Hotel Dino’s la nomina a cavaliere della Repubblica di Benedetto Agostino Iaquinta, patron dell’albergo, diversi politici locali rimossero con forza, ubriachi, la targa all’ingresso della navatella di sinistra dell’Abbazia, apposta da don Mascaro in memoria di Luca Campano, biografo di Gioacchino da Fiore. Seguirono articoli ingenerosi contro don Mascaro, che per la causa dell’Abbazia s’indebitò perfino in proprio.
Nella stessa pagina del citato mensile, figurano due pezzi non firmati. Uno, che è contro don Mascaro, indirettamente tacciato d’arroganza, apre a don Spadafora, ritenuto “subito disponibile”. L’altro, invece, critica così l’avvicendamento: “Certamente sarebbe stato più facile lasciare le cose come in passato: l’Abbazia è stata da sempre parte della parrocchia S. Maria delle Grazie e la sua riapertura al culto si deve a uno dei pastori succedutisi in questa comunità”.
L’intera pagina è un esempio dei rapporti pubblici: qui la “macchina del fango” procede nell’ambiguità. Senza nomi, protagonisti, autori. Più che la Calabria delle collusioni, dove il teatro della forma mantiene una certa, diffusa tranquillità, San Giovanni in Fiore vive nel finto buonismo, una sorta di cappa sociale in cui si mescolano sacro e profano, ispirazione cattolica e opportunismo malcelato. Questa cultura, questo costume, questo modo è la causa del mancato sviluppo, delle pesanti diseguaglianze e dello spreco di denaro pubblico, di risorse locali e umane; con assistenzialismo, clientelismo e irregolarità impunite.
Don Spadafora è stato condannato per truffa e appropriazione indebita, pagando debolezze personali sfruttate in ambienti politici. Peraltro, fu protagonista della cessione a privati della casa di riposo in Abbazia. Ora lì c’è una rsa, con lucro e senza corresponsioni al Comune, proprietario dei locali, per decenni in comodato alla Chiesa, che vi faceva carità.
Angelo Gentile, ex consigliere comunale dei Socialisti di Zavettieri, dice che la proprietà del Comune è indubbia, e lo abbiamo verificato consultando un inventario pubblico del 1959. Gentile aggiunge che l’accreditamento della struttura in Regione è viziato, essendo invariata la destinazione d’uso. All’Ufficio tecnico comunale risulta una destinazione B1, per uffici. A riguardo, Gentile accusa il sindaco Antonio Barile (Pdl) di reticenze, “perché lì fa il medico il presidente del Consiglio comunale”, Luigi Astorino (Pdl).
Si distinguono azioni punite dal codice penale e interessi, movimenti di oligarchie che rispondono in primo luogo alla coscienza. Individuale e collettiva. Don Mascaro è morto da anni, vilipeso al punto da cedere, proprio per la sistemazione dell’Abbazia florense; contesa, negli anni Novanta, fra Comune e Chiesa.
La lunga vicenda parrocchiale di don Spadafora a San Giovanni in Fiore ha da fare col recente restauro dell’Abbazia, finanziato dall’Unione europea e sospeso per motivi amministrativi, penali e civili. Andiamo per ordine, iniziando dalle novità sul caso.
I tre progettisti e direttori dei lavori, Domenico Marra, Giovanni Belcastro e Salvatore Marazita, sono sotto processo a Cosenza con l’ex responsabile del procedimento, Pasquale Tiano, già dirigente dell’Ufficio tecnico comunale. L’accusa contesta opere in assenza dei pareri delle Soprintendenze. Non ci risultano imputazioni per gli incarichi; conferiti in violazione delle norme, secondo l’Autorità di vigilanza sui Lavori pubblici, dagli esecutivi di centrosinistra di Riccardo Succurro e Antonio Nicoletti.
Nostre fonti ci hanno sussurrato l’archiviazione per le irregolarità sugli incarichi, ma la notizia non è certa.
In un’informativa degli inquirenti sono contenuti possibili reati contro la P.A., di cui sarebbero responsabili gli ex amministratori, firmatari delle delibere di giunta con le quali, senza un bando pubblico, furono scelti i professionisti. Questi ricevettero l’incarico dal parroco don Spadafora. Di seguito, il Comune recepì con delibera; prassi del tutto ignota all’allora responsabile dell’Autorità di vigilanza, Attilio Fralleone, “in tutta la carriera”.
In procura vige il massimo riserbo, e, nella fattispecie, la giustizia sarebbe rallentata dal trasferimento di Adriano Del Bene, magistrato molto serio, già titolare delle indagini sull’Abbazia florense.
Vale ricordare che, in proposito, sono due le questioni da accertare:
1) se l’esecuzione dei lavori è avvenuta secondo legge;
2) se la procedura per il conferimento degli incarichi tecnici, irregolare per l’Autorità di vigilanza, ha - e in teoria dovrebbe avere - profili penalmente rilevanti.
Rischierebbero, se non c’è stata archiviazione, i firmatari delle delibere di giunta n. 883/1996 e n. 146/2005, per cui l’Autorità rilevò “inosservanza delle disposizioni di cui agli artt. 7, c.7, 17, c. 12, e 27 della legge 104/94, nel testo vigente all’epoca dei fatti, e delle disposizioni di cui agli artt. 123 e ss. e dell’art. 224 del D.P.R. n. 554/99, nonché dei princìpi di correttezza, trasparenza e libera concorrenza sanciti dall’ordinamento interno e comunitario”.
Nei giorni scorsi, durante una conferenza stampa dei Socialisti in merito al Palazzo dello Sport, c’è stato un richiamo a un nostro presunto silenzio sul restauro dell’Abbazia. Noi non siamo politica, siamo stampa. E loro hanno un consigliere comunale, Salvatore Lopez, all’opposizione; oltre che un ex sindaco, Nicoletti, con un ruolo nella vicenda.
L’indagine della Procura di Cosenza e le conclusioni dell’Autorità di vigilanza - qualche volta vale l’esercizio collettivo di memoria - hanno avuto origine dalle denunce. La parallela inchiesta giornalistica, condotta a lungo su “il Crotonese” e riportata su "la Voce di Fiore", ha raccontato i fatti; con documenti, testimonianze degli organi amministrativi e interventi di istituzioni della Repubblica e della cultura: dai parlamentari Angela Napoli (Fli) e Franco Laratta (Pd) all’allora presidente della commissione del parlamento europeo per il controllo dei Bilanci, Luigi De Magistris; dal Nobel Dario Fo all’intellettuale di destra Marcello Veneziani.
Il punto, ad oggi, è che il restauro dell’Abbazia florense è ancora fermo e il monumento ha lesioni evidenti; già rilevate dalla Sbap di Cosenza, che riferì di condizioni peggiori rispetto alla perizia di Francesco Bencardino, perito dell’appaltatore Ati Lufraco.
Bencardino rappresentò problemi di stabilità. Di recente, l’abate don Germano Anastasio ha denunciato l’abbandono e i problemi dell’edificio. Gli ha replicato Laratta, garantendone la stabilità. Ciononostante, i lavori di sicurezza ordinati dal ctu Luigi Ascione e autorizzati dalla Procura di Cosenza il 19 settembre 2009 non sono mai stati eseguiti; il finanziamento europeo è congelato presso la Regione Calabria ed è saltata la composizione della controversia fra il municipio e l’appaltatore. Questi avrebbe chiuso, spese comprese, a circa 1.100.000-1.200.000 euro. Il Comune a guida Barile ne ha offerti 630.000, sulla base della consulenza di Franco Valente, ingegnere di San Giovanni in Fiore. La causa civile, in corso a Cosenza, andrà avanti. Se il Comune dovesse soccombere, dovrebbe pagare con fondi propri e non con le risorse europee.
Speriamo che la politica ritrovi quell’unità e quella saggezza del passato, quando, superato l’antico conflitto ideologico Dc-Pci, seppe ritrovarsi con la Chiesa per il bene collettivo.
Intanto, sarebbe giusto ricordare, facendone tesoro, l’opera e la lungimiranza di don Mascaro, che può essere un riferimento per rimuovere gli ostacoli pre-giuridici al rilancio urgente dell’Abbazia florense. Che è il vero futuro della città.
Emiliano Morrone
Beni fantasma, spese poco trasparenti
Così l’Italia non tutela i capolavori
La Corte dei conti: «Manca una stima delle opere possedute dai musei»
di Sergio Rizzo (Corriere della Sera, 09.07.2012)
ROMA - Il nome in codice era «Giacimenti culturali». E ancora oggi rimane un dubbio. Al progetto di catalogazione del patrimonio artistico e monumentale italiano avevano dato quel nome consapevoli che si stava parlando del nostro petrolio, o perché sapevano che l’operazione si sarebbe rivelata una miniera d’oro per società di informatica private? Le tracce di tutti quei soldi (2.110 miliardi di lire, pari a circa 2,1 miliardi di euro di oggi) stanziati a partire dal 1986 (al governo c’era Bettino Craxi) si sono ormai perse.
Ventisei anni dopo resta un’amara considerazione della Corte dei conti, rintracciabile a pagina 310 della memoria del procuratore generale Salvatore Nottola al giudizio sul rendiconto dello Stato approvato il 28 giugno: «Nonostante vari tentativi di giungere a una stima attendibile dei beni culturali, non esiste oggi una catalogazione definitiva specie per i reperti archeologici. Inoltre, per i grandi musei statali non esiste una stima del valore delle opere possedute». Molte delle quali, fra l’altro, restano chiuse nei magazzini. Un caso? Il museo più visitato d’Italia, e uno dei più frequentati del mondo, considerando il numero dei turisti in rapporto alla superficie. Ovvero, la Galleria degli Uffizi di Firenze.
Ricorda però il giudice contabile Francesco D’Amaro, autore del capitolo sui beni culturali della memoria di Nottola, che il museo fiorentino espone al pubblico 1.835 opere mentre «ne conserva in deposito circa 2.300, offrendo in visione solo il 44%» di quelle possedute. Problemi di spazi espositivi, ma non soltanto.
E dire che gli Uffizi, secondo uno studio di The European house Ambrosetti, hanno una quantità di visitatori per metro quadrato quattro volte maggiore del Louvre (45,8 contro 11,8). Anche se i numeri assoluti non sono certo confrontabili con quelli del museo parigino. L’anno scorso la Galleria degli Uffizi ha staccato un milione 369.300 biglietti, a cui si sono aggiunti 397.392 ingressi gratuiti. Incasso: 8,6 milioni di euro. Al Louvre sono entrati invece in più di 8 milioni, per un introito superiore a 40 milioni. C’è chi dice che il nostro è un problema di abbondanza. Troppi beni architettonici, troppi siti archeologici, troppe opere d’arte da tutelare.
Dice sempre la Corte dei conti che abbiamo 3.430 musei, di cui 409 in Toscana, 380 in Emilia-Romagna, 346 in Lombardia, 302 nel Lazio. Poi ci sono 216 siti archeologici, 10 mila chiese, 1.500 monasteri, 40 mila fra castelli, torri e rocche, 30 mila dimore storiche, 4 mila giardini, 1.000 centri storici importanti... A tutta questa roba si devono aggiungere i 4.381 immobili del demanio storico artistico che sono utilizzati come uffici pubblici. E di quelli, almeno, si conosce il valore esatto. Sono a libro per 16 miliardi 697 milioni 86.283 euro. Ovvio che tutto questo immenso patrimonio sia complicato da gestire. E che responsabilità nei confronti del resto del mondo, se si considera che l’Italia ha il maggior numero di beni tutelati dall’Unesco come patrimoni dell’umanità: 45 su 911.
Ma il modo in cui trattiamo tutto questo ben di Dio è comunque sconfortante. A cominciare dalla «diffusa perdurante carenza dello stato di manutenzione delle aree archeologiche, spesso oggetto di gestioni commissariali con possibilità di deroga rispetto all’ordinaria amministrazione, che determinano», sono parole della Corte dei conti, «poca trasparenza nelle procedure di spesa». Un chiaro riferimento alla vicenda del commissariamento di Pompei, che era stato già bombardato di critiche dalla stessa magistratura contabile. Ma i giudici, dopo aver concesso che causa di tale situazione sono anche i tagli al personale e alle risorse destinate alla manutenzione decisi dal ministero dell’Economia, non risparmiano nemmeno alcune soprintendenze, quando sottolineano «una certa incapacità di spesa degli organi periferici del ministero dei Beni culturali, che ha generato la formazione di una consistente giacenza di cassa, sia pure in parte determinata dalla lentezza delle procedure di gara e dal ritardo nell’accreditamento dei fondi statali».
Vero è che quando si devono fare le nozze con i fichi secchi non è sempre facile. I fondi pubblici per i beni artistici e culturali sono ormai ridotti al lumicino: la Corte dei conti segnala che si è scesi allo 0,19% della spesa pubblica, contro lo 0,34% di «pochi anni fa» e lo 0,21% del 2010. Questo mentre lo stato francese ha un budget cinque volte superiore al nostro (oltre 7 miliardi di euro contro 1,4 miliardi) e la Germania ha aumentato quest’anno gli stanziamenti del 7 per cento. Non bastasse, se il dicastero del Collegio romano era stato risparmiato dai tagli «lineari» decisi dalle ultime manovre di Giulio Tremonti, ci ha pensato il governo di Mario Monti a pareggiare i conti con gli altri ministeri. Dirottando alle carceri 57 dei 140 milioni dell’8 per mille destinati ai beni culturali con il decreto sull’emergenza delle prigioni approvato in fretta e furia alla vigilia di Natale del 2011.
Un giro di vite al quale non si è rimediato neppure in seguito. A dispetto delle dichiarazioni ufficiali. Da quando esiste il dicastero dei Beni culturali non c’è mai stato un ministro che non abbia detto pubblicamente come l’attuale, Lorenzo Ornaghi, «la cultura deve agire come volano reale per la crescita». Ma la verità è probabilmente quella che si è fatta sfuggire il segretario generale del ministero Roberto Cecchi qualche mese fa, prima di essere nominato sottosegretario: «In Italia la cultura non è vista come uno strumento per lo sviluppo del Paese. Ci s’inalbera contro il vandalismo, come contro i musei che non sono perfettamente all’altezza della situazione. Ma poi quando si tratta di investire, non si investe».
Regola osservata anche in questa occasione. Nel decreto sviluppo appena sfornato dal governo Monti, non c’è traccia di interventi per i beni culturali e il turismo.
"LIBER FIGURARUM" DI GIOACCHINO DA FIORE. Vedere la Tav. XV: "Le Ruote (del carro) di Ezechiele" - con al centro della grande "ruota", la parola: CHARITAS.
FILOLOGIA E TEOLOGIA. A KAROL WOJTYLA, IN MEMORIA. "Se mi sbalio, mi coriggerete" (Giovanni Paolo II)
PER RATZINGER, PER IL PAPA E I CARDINALI, UNA LEZIONE DI GIANNI RODARI. L’Acca in fuga
DA TUTTA LA CALABRIA (DA SAN GIOVANNI IN FIORE, DA SEMINARA, DA PAOLA), DALLA TOSCANA (DA CERTALDO, DA FIRENZE, DA PISA), DALL’ITALIA INTERA E DALL’EUROPA, PER UN APPELLO E UNA MOBILITAZIONE INTERNAZIONALE.
Note sul tema:
MELCHISEDECH A SAN GIOVANNI IN FIORE, TRA I LARICI “PISANI”.
Federico La Sala
di Mario Pirani (la Repubblica, 14 maggio 2012)
Con una sua frequenza atemporale, di tanto in tanto, la rivista Arel fa la sua ricomparsa. Ci soffermiamo allora a sfogliarla con l’amore intellettuale e la nostalgia che seguitiamo a nutrire per il suo compianto fondatore, Beniamino Andreatta, e con gratitudine per quanti, a cominciare da Enrico Letta, hanno mantenuto vivo quel piccolo ma fervido focolare di idee non precostituite. Ma quel che soprattutto smuove l’animo dei pochi reduci di una generazione politica ormai sperduta penso sia il poter recuperare uno di quei luoghi fattisi rari dove ancora trova spazio il libero formarsi di un pensiero eterodosso e lo svolgersi di una dialettica di creatività democratica priva di barriere. Un tempo vi erano testate di riferimento, da Nord Sud a Tempo presente, da Civiltà delle Macchine al Politecnico, e molte altre. A quei giardini del pensiero è subentrato il rapidissimo disseccarsi nell’immediatezza effimera mass-mediatica di innesti senza fioritura
Ecco perché questa settimana nella rubrica mi soffermo su un discorso non usuale nella tematica politica ma che un ministro ha voluto far proprio, riportandoci a quell’atmosfera di ricchezza di pensiero che nel passato nutriva in un colloquio incrociato politici e artisti, filosofi e giornalisti, grandi maestri e intellettuali appena sbarcati da Matera o da Palermo, che si sentivano impegnati d’ufficio in una ricerca la cui finalità immediata era spesso sfuggente.
Il "tempo" è il tema che Arel in questo denso numero propone ad Andrea Riccardi, ministro della Cooperazione internazionale e dell’integrazione, (che, però, rifiuta l’aggettivo tecnico: «Non so in che senso sono tecnico, qualche volta dico che sono pirotecnico, nel senso che sono un uomo che ha una esperienza di umanità...»). «La sensazione è che siamo in un tempo in cui conta solo il presente. Ci troviamo, infatti, in un momento in cui sembra mancare il tempo futuro. Abbiamo paura del futuro, perché temiamo sia un tempo di crisi maggiore.... Soprattutto temiamo il futuro perché mancano le visioni. Karol Wojtyla in un verso dei grigi anni polacchi, diceva: "L’uomo soffre soprattutto per mancanza di visione. Mi sembra sia proprio questa la sofferenza italiana ed europea, la mancanza di visione. Manca la visione perché si è bloccati dalla paura. Cosa sarà il domani?" Vorrei aggiungere che c’è una crisi del tempo passato. Che è una crisi della memoria. Non sappiamo da dove veniamo. Ci troviamo alle spalle questo tempo della Seconda Repubblica che mi appare un tempo circolare, non un tempo lineare. Io credo che l’Occidente abbia perso l’idea di poter fare la storia e, quindi, di poter determinare il futuro del mondo. Credo che dovremmo ritrovare il senso del tempo presente come premessa del futuro. Eppure nelle nostre società c’è una carenza di speranza. Siamo dominati dalla paura».
Riccardi recita qui parole che sono anche le nostre e pone domande simili, ma le risposte restano ardue. «Se penso, ci dice, all’Italia della mia giovinezza, all’Italia del boom, rivedo un paese che andava verso il futuro. Quale? C’era una visione utopica comunista e c’era una speranza cattolica, ma c’era soprattutto l’idea che bisognava costruire la società di domani. Oggi mi chiedo se esiste più un tempo della nazione? Con la globalizzazione che ha coinciso con la Seconda Repubblica mai nata? Con la globalizzazione i tempi nazionali si sono avviliti, ridotti ed è ricominciato un tempo globale. Ma esiste questo tempo globale? Come si fa a disegnarlo? Come si fa a scrivere la storia del futuro globale?».
Sembra che questo intelligente ministro non si chieda se sia possibile ancora scrivere la storia dopo il dissolversi di ogni filosofia della storia, di ogni ideologia. La sua risposta non ci basta. Non basta ripetere: «Allora occorrono visioni. Occorre la capacità di coniugare il tempo nazionale con il tempo globale; diversamente si sprofonda in un caos ciclico».
Il Mezzogiorno rassegnato che somiglia a Chicago
di Tomaso Montanari (il fatto quotidiano on-line, 15 maggio 2012)
«Architettura di rassegnazione. Fotografie dal Mezzogiorno». Il titolo dell’ultima raccolta di fotografie di Jay Wolke* (capo del dipartimento di arte e design del Columbia College a Chicago) potrebbe essere inteso in senso metaforico: si potrebbe, cioè, pensare ad una serie di ‘istantanee’, cioè di racconti e cronache, capaci di rappresentare quella struttura di rassegnazione (morale, civile, politica) che imprigiona una grande parte del nostro Paese. E non si sbaglierebbe, in fondo: giacché il senso ultimo del libro di Wolke è proprio questo. Ma ‘architettura’ e ‘fotografie’ vanno intese in senso letterale: perché questo reportage, anzi questo acuto trattato di sociologia della disgregazione, è composto da fotografie che ritraggono concrete architetture contemporanee che sfigurano l’Italia, da Roma giù giù fino alla Sicilia.
Wolke le ha scattate tra il 2000 ed il 2007 in un lungo e amaro Grand Tour in cui l’amore per il Bel Paese non si è impantanato nell’eterna oleografia dietro cui cerchiamo, da secoli, di nascondere la nostra inarrestabile decadenza (chi non ricorda il patetico Francesco Rutelli del promo istituzionale noto attraverso il suo piagnucoloso e imbarazzante refrain: «Please, visit Italy»?)
Grazie al formato à la page e alla carta patinata, il libro di Wolke si insinua come una lama sottile tra i coffee table books che smerciano l’Italia da cartolina, smentendo all’istante ogni cliché sugli americani creduloni e superficiali.
Per un’adeguata ecfrasis di queste fotografie, di sorprendente nitore formale, ci vorrebbe la penna di un marchese De Sade, o di uno Sciascia. Ma solo Fellini potrebbe mettere in scena il mausoleo romano dell’Appia pieno di spazzatura, tra cui troneggia un inconcepibile materasso azzurro.
A Trapani le case abitate si alternano ai ruderi; a Napoli le Vele di Scampia svettano su nature morte di monnezza; a Colleferro la fontana civica è un inimmaginabile trionfo di ferraglia e cemento; la ‘Finestra sul mare’ a Santo Stefano (Sicilia) o la chiesa incompiuta di Gibellina Nuova ridiventano, da pretese opere d’arte, enormi rifiuti di cemento. Le infrastrutture della guerra, mai rimosse in settant’anni, si sommano alle ferite di un’industrializzazione clientelare e agli squallidi templi di un turismo d’accatto. In una perversa inversione di senso, anche i luoghi della cultura diventano simboli di un inarrestabile degrado civile: dall’orribile interno di un museo di Latina, alla schiera dei motori di condizionatori d’aria che devasta l’Orto Botanico di Messina. Dovunque l’incompiuto, l’abusivo e l’illegale si manifestano nell’osceno, nell’improbabile, nel mostruosamente kitsch: non-luoghi senza abitanti, visto che nessuna ‘figurina’ umana potrebbe redimere queste nuovissime, terrificanti vedute della decadenza italiana.
Non di rado di fronte a questi scatti viene da pensare che si potrebbe trattare di qualche brano di periferia estrema di qualche città americana: e forse una chiave potrebbe essere proprio lo stupore del fotografo di Chicago che ritrova nella culla della civiltà il peggio del proprio paese.
Architettura e fotografia - forse le uniche due arti ancora capaci di una vera funzione civile - si incontrano, anzi si scontrano, nel libro di Wolke, dove la seconda denuncia il tradimento della prima. Sarebbe bello pensare ad un’edizione italiana del libro, anzi ad una mostra di quelle fotografie itinerante attraverso il nostro Mezzogiorno. Ma - in una sorta di perverso comma 22 - siamo troppo rassegnati per lasciarci scuotere da un ritratto della nostra rassegnazione scattato da un americano di Chicago. Come scrive, con terribile esattezza, Roberta Valtorta nell’introduzione: «There is a moment for every society: the Italian moment seems to have come to an end».
*Jay Wolke, Architecture of Resignation. Photographs from the Mezzogiorno. With essays by Roberta Valtorta and Tom Bamberger, Chicago, Center for American Places at Columbia College Chicago, 2011