"Questioni di vita".
Una rassegna a Piacenza
"Pericle insegnami che cos’è la legge"
La legge e le sue ragioni
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 26.09.2008)
«DIMMI, Pericle, mi sapresti insegnare che cosa è la legge?» chiede Alcibiade a Pericle. Pericle risponde: «Tutto ciò che chi comanda, dopo aver deliberato, fa mettere per iscritto, stabilendo ciò che si debba e non si debba fare, si chiama legge». E prosegue: «Tutto ciò che si costringe qualcuno a fare, senza persuasione, facendolo mettere per iscritto oppure in altro modo, è sopraffazione piuttosto che legge». Se non ci si parla, non ci si può comprendere e, a maggior ragione, non è possibile la persuasione.
Questa è un’ovvietà. Per intendere però l’importanza del contesto comunicativo, cioè della possibilità che alle deliberazioni legislative concorra un elevato numero di voci che si ascoltano le une con le altre, in un concorso che, ovviamente, non è affatto detto che si concluda con una concordanza generale, si può ricorrere a un’immagine aristotelica, l’immagine della preparazione del banchetto. In questa immagine c’è anche una risposta all’eterna questione, del perché l’opinione dei più deve prevalere su quella dei meno.
Il principio maggioritario è una semplice formula giuridica, un espediente pratico di cui non si può fare a meno per uscire dallo stallo di posizioni contrapposte (E. Ruffini)? È forse solo una «regoletta discutibile» (P. Grossi) che trascura il fatto che spesso la storia deve prendere atto, a posteriori, che la ragione stava dalla parte delle minoranze, le minoranze illuminate (e inascoltate)? Oppure, si tratta forse non di una regoletta ma di un principio che racchiude un valore? Non diremo certo che la maggioranza ha sempre ragione (vox populi, vox dei: massima della democrazia totalitaria), ma forse, a favore dell’opinione dei più, c’è un motivo pragmatico che la fa preferire all’opinione dei meno. A condizione, però, che «i più» siano capaci di dialogo e si aggreghino in un contesto comunicativo, e non siano un’armata che non sente ragioni.
In un passo della Politica di Aristotele (1281b 1-35), che sembra precorrere la sofisticata «democrazia deliberativa» di Jürgen Habermas e che meriterebbe un esame analitico come quello di Senofonte al quale ci siamo dedicati, leggiamo: «Che i più debbano essere sovrani nello Stato, a preferenza dei migliori, che pur sono pochi, sembra che si possa sostenere: implica sì delle difficoltà, ma forse anche la verità. Può darsi, in effetti, che i molti, pur se singolarmente non eccellenti, qualora si raccolgano insieme, siano superiori a ciascuno di loro, in quanto presi non singolarmente, ma nella loro totalità, come lo sono i pranzi comuni rispetto a quelli allestiti a spese di uno solo. In realtà, essendo molti, ciascuno ha una parte di virtù e di saggezza e quando si raccolgono e uniscono insieme, diventano un uomo con molti piedi, con molte mani, con molti sensi, così diventano un uomo con molte eccellenti doti di carattere e d’intelligenza». Dunque, inferiori presi uno per uno, diventano superiori agli uomini migliori, quando è consentito loro di contribuire all’opera comune, dando il meglio che c’è in loro. Più numeroso il contributo, migliore il risultato.
Naturalmente, quest’immagine del pranzo allestito da un «uomo in grande» non supera questa obiezione: che nulla esclude che ciò che si mette in comune sia non il meglio, ma il peggio, cioè, nell’immagine del pranzo, che le pietanze propinate siano indigeste. Ma questa è un’obiezione, per così dire, esterna.
Dal punto di vista interno, il punto di vista dei partecipanti, è chiaro che nessuno di loro ammetterebbe mai che il proprio contributo all’opera comune è rivolta al peggio, non al meglio. Ognuno ritiene di poter contribuire positivamente alle decisioni collettive; l’esclusione è percepita come arbitrio e sopraffazione proprio nei riguardi della propria parte migliore. Ora, accade, e sembra normale, che il partito o la coalizione che dispone della maggioranza dei voti, sufficiente per deliberare, consideri superfluo il contributo della minoranza: se c’è, bene; se non c’è, bene lo stesso, anzi, qualche volta, meglio, perché si risparmia tempo. Le procedure parlamentari, la logica delle coalizioni, la divisione delle forze in maggioranza e opposizione, il diritto della maggioranza di trasformare il proprio programma in leggi e il dovere delle minoranze, in quanto minoranze, di non agire solo per impedire o boicottare, rendono comprensibile, sotto un certo punto di vista, che si dica: abbiamo i voti e quindi tiriamo innanzi senza curarci di loro, la minoranza.
Ma è un errore. Davvero la regola della maggioranza si riduce così «a una regoletta». Una regoletta, aggiungiamo, pericolosa. Noi conosciamo, forse anche per esperienza diretta, il senso di frustrazione e di umiliazione che deriva dalla percezione della propria inutilità. Si parla, e nessuno ascolta. Si propone, e nessuno recepisce. Quando la frustrazione si consolida presso coloro che prendono sul serio la loro funzione di legislatori, si determinano reazioni di auto-esclusione e desideri di rivincita con uguale e contrario atteggiamento di chiusura, non appena se ne presenterà l’occasione. Ogni confronto si trasformerà in affronto e così lo spazio deliberativo comune sarà lacerato. La legge apparirà essere, a chi non ha partecipato, una prevaricazione.
La «ragione pubblica» - concetto oggi particolarmente studiato in relazione ai problemi della convivenza in società segnate dalla compresenza di plurime visioni del mondo - è una sfera ideale alla quale accedono le singole ragioni particolari, le quali si confrontano tramite argomenti generalmente considerati ragionevoli e quindi suscettibili di confronti, verifiche e confutazione; argomenti che, in breve, si prestino a essere discussi. Le decisioni fondate nella ragione pubblica sono quelle sostenute con argomenti non necessariamente da tutti condivisi, ma almeno da tutti accettabili come ragionevoli, in quanto appartenenti a un comune quadro di senso e di valore.
Contraddicono invece la ragione pubblica e distruggono il contesto comunicativo le ragioni appartenenti a «visioni del mondo chiuse» (nella terminologia di John Rawls, che particolarmente ha elaborato queste nozioni, le «dottrine comprensive»). Solo nella sfera della «ragione pubblica» possono attivarsi procedure deliberative e si può lavorare in vista di accordi sulla gestione delle questioni politiche che possano apparire ragionevoli ai cittadini, in quanto cittadini, non in quanto appartenenti a particolari comunità di fede religiosa o di fede politica.
Un sistema di governo in cui le decisioni legislative siano la traduzione immediata e diretta - cioè senza il filtro e senza l’esame della ragione pubblica - di precetti e norme derivanti da una fede (fede in una verità religiosa o mondana, comunque in una verità), sarebbe inevitabilmente violenza nei confronti del non credente («l’infedele»), indipendentemente dall’ampiezza del consenso di cui potessero godere. Anzi, si potrebbe perfino stabilire la proporzione inversa: tanto più largo il consenso, tanto più grande la violenza che la verità è capace di contenere. Sotto questo aspetto, dire legge non violenta equivale a dire legge laica; al contrario, dire legge confessionale equivale a dire legge violenta. La verità non è di per sé incompatibile con la democrazia, ma è funzionale a quella democrazia totalitaria cui già sì è fatto cenno.
L’esigenza di potersi appellare alla ragione pubblica nella legislazione, un quanto si voglia sconfiggere la violenza che sempre sta in agguato nel fatto stesso di porre la legge, spiega la fortuna attuale dell’ etsi Deus non daretur, la formula con la quale, quattro secoli fa, Ugo Grozio invitava i legislatori a liberarsi dall’ipoteca confessionale e a fondare il diritto su ragioni razionali; invitava cioè a lasciar da parte, nella legislazione civile, le verità assolute. Mettere da parte Dio e i suoi argomenti era necessario per far posto alle ragioni degli uomini; noi diremmo: per costruire una sfera pubblica in cui vi fosse posto per tutti.
Naturalmente, da parte confessionale un simile invito ad agire indipendentemente dall’esistenza di Dio non poteva non essere respinto. Per ogni credente, Dio non si presta a essere messo tra parentesi, come se non ci fosse. Ma l’esigenza che ha mosso alla ri-proposizione di quell’antica espressione (G. E. Rusconi) non è affatto peregrina. È l’esigenza della «ragione pubblica». A questa stessa esigenza corrisponde l’invito opposto, di parte confessionale, rivolto ai non credenti affinché siano loro ad agire veluti si Deus daretur (J. Ratzinger). Altrettanto naturalmente, anche questo invito è stato respinto. Per un non credente in Dio, affidarsi a Dio (cioè all’autorità che ne pretende la rappresentanza in terra) significa contraddire se stessi. Ma questa proposta-al-contrario coincide con la prima, nel sottolineare l’imprescindibilità di un contesto comune, con Dio per nessuno o con Dio per tutti, nel quale la legge possa essere accettata generalmente in base alla persuasione comune.
Entrambe le formule non hanno dunque aiutato a fare passi avanti. Sono apparse anzi delle provocazioni, ciascuna per la sua parte, alla libertà, autenticità e responsabilità della coscienza. In effetti, non si tratta affatto di esigere rinunce e conversioni di quella natura, né, ancor meno, di chiedere di agire come se, contraddicendo se stessi. Non è questa la via che conduce a espungere la violenza dalla legislazione.
Un punto deve essere tenuto fermo: la legge deve essere aperta a tutti gli apporti, compresi quelli basati su determinate assunzioni di verità. La verità può trovare posto nella democrazia e può esprimersi in «legislazione che persuade», perché la democrazia non è nichilista. Ma solo a patto però - questo è il punto decisivo - che si sia disposti, al momento opportuno, quando cioè ci si confronta con gli altri, a difendere i principi e le politiche che la nostra concezione della verità a nostro dire sostiene, portando ragioni appropriatamente pubbliche (J. Rawls). Così, i sistemi religiosi, filosofici, ideologici e morali non sono esclusi dalla legislazione, ma vi possono entrare solo se hanno dalla propria parte anche buone ragioni «comuni», su cui si possa dissentire o acconsentire, per pervenire a decisioni accettate, pur a partire da visioni del mondo diverse, come tali non conciliabili. La legislazione civile, in quanto si intenda spogliarla, per quanto è possibile, del suo contenuto di prevaricazione, non può intendersi che come strumento di convivenza, non di salvezza delle anime e nemmeno di rigenerazione del mondo secondo un’idea etica chiusa in sé medesima.
Il divieto dell’eutanasia può essere argomentato con una ragione di fede religiosa: l’essere la vita proprietà divina («Dio dà e Dio toglie»); l’indissolubilità del matrimonio può essere sostenuta per ragioni sacramentali («non separare quel che Dio ha unito»). Argomenti di tal genere non appartengono alla «ragione pubblica», non possono essere ragionevolmente discussi. Su di essi ci si può solo contare. La «conta», in questi casi, varrà come potenziale sopraffazione.
Ma si può anche argomentare diversamente. Nel primo caso, ponendo il problema di come garantire la genuinità della manifestazione di volontà circa la fine della propria esistenza; di come accertare ch’essa permanga tale fino all’ultimo e non sia revocata in extremis; di come evitare che la vita, nel momento della sua massima debolezza, cada nelle mani di terzi, eventualmente mossi da intenti egoistici; di come evitare che si apra uno scivolamento verso politiche pubbliche di soppressione di esseri umani, come dicevano i nazisti, la cui vita è «priva di valore vitale».
Alla fine, se ne potrà anche concludere che, tutto considerato, difficoltà insormontabili e rischi inevitabili o molto probabili consigliano di far prevalere il divieto sul pur molto ragionevole argomento dell’esistenza di condizioni di esistenza divenute umanamente insostenibili.
Oppure, viceversa. Nel secondo caso, si potrà argomentare sull’importanza della stabilità familiare, nella vita e nella riproduzione della vita delle persone e delle società; a ciò si potrà contrapporre il valore della genuinità delle relazioni interpersonali e la devastazione ch’esse possono subire in conseguenza di vincoli imposti. Su questo genere di argomenti si può discutere, le carte possono mescolarsi rispetto alle fedi e alle ideologie, le soluzioni di oggi potranno essere riviste domani. Chi, per il momento, è stato minoranza non si sentirà per questo oggetto di prevaricazione.
Qualora poi le posizioni di fede non trovino argomenti, o argomenti convincenti di ragione pubblica per farsi valere in generale come legge, esse devono disporsi alla rinuncia. Potranno tuttavia richiedere ragionevolmente di essere riconosciute per sé, come sfere di autonomia a favore della libertà di coscienza dei propri aderenti, sempre che ciò non contraddica esigenze collettive irrinunciabili (questione a sua volta da affrontare nell’ambito della ragione pubblica).
Tra le leggi che impongono e quelle che vietano vi sono quelle che permettono (in certi casi, a certe condizioni). Le leggi permissive, cioè le leggi di libertà (nessuno oggi pensa - in altri momenti si è pensato anche questo - che l’eutanasia o il divorzio possano essere imposti) sono quelle alle quali ci si rivolge per superare lo stallo, il «punto morto» delle visioni del mondo incompatibili che si confrontano, senza che sia possibile una «uscita» nella ragione pubblica. Anzi, una «ragione pubblica» che incorpori, tra i suoi principi, il rigetto della legge come violenza porta necessariamente a dire così: nell’assenza di argomenti idonei a «persuadere», la libertà deve prevalere. Questa è la massima della legge di Pericle.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Festival del Diritto 2016 *
Festival del Diritto
Il tema della IX edizione: Dignità
Piacenza, 23-25 settembre 2016
Dignità significa rispetto. Ma non, come nel mondo antico, per un particolare status, che assicura un rango e una condizione di privilegio. Al contrario, la dignità nel mondo moderno implica il riconoscimento di ciò che ci accomuna in quanto essere umani, l’impossibilità di trattare gli altri come mezzi e non come fini.
Oggi si parla molto di dignità, ma essa di fatto è continuamente violata. Eppure si tratta di una delle parole d’ordine che hanno determinato la rivoluzione costituzionale dell’ultimo dopoguerra. Questa ha dato vita al paradigma dello Stato costituzionale democratico e sociale, che ha consentito - almeno nell’Europa occidentale - di includere larghe masse nella cittadinanza democratica di Stati pluriclasse, superando quella guerra civile europea che aveva trascinato il mondo in un rovinoso conflitto totale. Non a caso, la dignità si trova in cima alla Carta tedesca, che si apre proprio con le parole: «La dignità umana è inviolabile».
La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea si apre affermando lo stesso principio. La Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1948 integra la forma tradizionale «tutti gli uomini nascono liberi e uguali» aggiungendo «in dignità e diritti».
L’art. 3 della Costituzione italiana afferma che «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale», arricchendo la nozione di dignità di una fondamentale connotazione sociale: essa non deve essere riconosciuta solo alla persona in quanto tale, ma anche nella relazione con gli altri. -Ciò significa che non si tratta solo di affermare un principio morale astratto, ma di concretizzare il riconoscimento dell’uguale valore delle persone - soprattutto quando sono più esposte e vulnerabili - nei contesti in cui si svolge la loro vita: nell’ambiente di lavoro, nei luoghi di cura, a scuola, in famiglia. La vulnerabilità dell’umano implica una presa in carico da parte del diritto, che avviene all’insegna dell’idea di dignità: ciò significa dare più forza a chi ne ha meno, impedire discriminazioni e prevaricazioni, in tutte le forme in cui possono manifestarsi.
Le conseguenze economiche e sociali di questa impostazione sono evidenti: nessun dogma tecnocratico né interesse geopolitico può giustificare un allentamento delle garanzie della dignità tale da minarne l’efficace protezione. Ciò significa che politiche pubbliche e prassi istituzionali le quali svuotino di fatto i diritti fondamentali, tanto civili quanto sociali e politici, sono prive di legittimità, perché incompatibili con il costituzionalismo più avanzato, affermatosi nella seconda metà del Novecento, quello appunto della dignità.
Nella società moderna, la dignità non indica un’essenza immutabile, magari da contrapporre polemicamente ad altre visioni della natura umana, ma le condizioni e le modalità di un esercizio della libertà in condizioni di effettiva parità. È il progetto di società della democrazia costituzionale, difficile, mai compiuto, destinato a scontrarsi costantemente con logiche di dominio - sia simbolico sia materiale - che opponendosi alla ridistribuzione di potere sociale ripropongono, anche nel mondo globale, un paradigma profondamente gerarchico.
La lotta per la dignità è la lotta per i diritti quali strumenti di liberazione sociale e personale: qui può essere la leva per impedire che il caos geopolitico ed economico nel quale siamo gettati abbia esiti esiziali per la democrazia. Soprattutto l’Europa deve risvegliarsi e ritrovare le proprie radici costituzionali, se non vuole condannarsi all’impotenza e alla disgregazione, e perciò ad essere fattore non di razionalità politica, ma di regresso civile.
Le questioni dei rifugiati e delle migrazioni, quelle relative al tipo di risposta (se emergenziale o politica) da dare al terrorismo fondamentalista, le preoccupazioni connesse alle guerre ai nostri confini (le cui conseguenze entrano sempre di più all’interno dell’Europa) si legano ai problemi della sicurezza sociale, agli effetti della disoccupazione (soprattutto giovanile) e della svalutazione del lavoro. Questo cortocircuito non solo continua ad alimentare la crisi, ma produce una radicale delegittimazione degli ordinamenti politici e costituzionali. La saldatura tra paure, rabbia sociale e sfiducia può condurre ad avventure.
A questo non si risponde rinserrandosi nell’oligarchia, ma raccogliendo le sfide per la dignità sociale che provengono dal basso. Se il diritto riannoda questo filo, potrà contribuire a superare il divorzio governati-governanti e a costruire un nuovo habitat per realizzare forme di liberazione (che saranno sempre parziali e provvisorie, ma non per questo meno irrinunciabili) dall’oppressione del potere arbitrario e dal bisogno: solo così è plausibile l’idea, altrimenti retorica e ingannevole, di una società nella quale, realmente, tutti possano essere liberi.
Il Festival del diritto 2016, attraverso la bussola della “dignità”, punterà a offrire un quadro critico delle grandi sfide che attendono il diritto nel tempo presente, che rendono necessarie innovazioni coraggiose, ma nelle consapevolezza profonda dei fondamenti, inscritti nella tradizione del razionalismo giuridico moderno, sui quali costruire. Quelle sfide investono ambiti molto concreti della vita delle persone, mutandone l’esperienza: dal mondo del lavoro agli effetti delle migrazioni, dalla rivoluzione delle donne e dei diritti di genere alle trasformazioni della famiglia, dalla tutela dell’ambiente a quella della salute, dal funzionamento della giustizia al potere dei media. Come ogni anno, il Festival sarà un lavoro comune e aperto, che vedrà il contributo plurale di associazioni di volontariato, scuole, autorevoli studiosi (giuristi e non) e testimoni della contemporaneità.
Stefano Rodotà, responsabile scientifico
*FONTE: EDITORI LATERZA
La lezione di Jules Isaac, un inno alla libertà oggi sempre più attuale
Da Atene a Auschwitz, chi ha tradito la democrazia
Parla delle vicende narrate da Tucidide ma ha negli occhi i collaborazionisti
Sua moglie e sua figlia moriranno ad Auschwitz, lui si salverà per un caso
di Ezio Mauro (la Repubblica, 21.04.2016)
LO splendore eterno della democrazia, tutta la fragilità della sua miseria sono rinchiusi nella vecchia borsa da professore che Jules Isaac si trascina dietro tra i campi e i boschi, i piccoli alberghi e i fienili della Francia meridionale, tra Aix-en-Provence, Chambon-sur-Lignon, Riom e Royat, scappando per nascondersi. Tutt’attorno, il governo di Vichy, l’umiliazione francese del collaborazionismo di Pétain con l’occupante nazista, la deportazione degli ebrei con tre convogli di mille persone che partono ogni settimana per i campi di sterminio. Isaac ha appena subito un rovesciamento totale della sua vita e non ha ancora visto il peggio. Ebreo laico di famiglia alsaziana, padre e nonno decorati con la Legion d’Onore per meriti militari, lui stesso ferito nella Prima guerra mondiale dopo 30 mesi di trincea.
Allievo di Bergson e compagno di Charles Péguy, scrive il manuale di storia su cui studieranno quattro generazioni di francesi e diventa Ispettore generale del ministero dell’Educazione Nazionale. Dal 1940, per le leggi razziali, il maresciallo Pétain che gli aveva chiesto di diventare il suo storiografo lo destituisce da ogni incarico, lo caccia dall’università, lo radia dall’Ordine della Legione. Il professore è bandito, deve lasciare Parigi, non sa dove andare. Ha un amico letterato che insegna ad Aix, lo raggiunge chiedendo rifugio. Mentre attraversa la linea di demarcazione, con la moglie Laure e i tre figli, legge il cartello del bando di regime: «Passaggio vietato ai negri e agli ebrei».
Cravatta, baffetti grigi, camicia bianca dal colletto floscio, Jules si salva quasi inconsapevolmente passando di mano in mano tra un intellettuale che lo protegge e un professore che lo nasconde, mentre a Parigi l’accademico Abel Bonnard denuncia lo scandalo di vedere «la storia di Francia insegnata ai giovani dai libri di un Isaac».
Nella semiclandestinità di Vichy la famiglia cambia nome, si chiama Marc. Ma la Gestapo si avvicina. Daniel, il figlio più grande, collabora con la Resistenza, i Marc finiscono sotto osservazione. All’inizio di ottobre del ’43 la polizia arresta il figlio minore, Jean-Claude, con la sorella Juliette e il marito. La madre parte subito per Vichy chiedendo notizie dei suoi: il giorno dopo la Gestapo verrà a Riom per arrestarla insieme col marito. Jules Isaac è fuori, sfugge per una casuale combinazione del destino al campo di Auschwitz dove moriranno la moglie, la figlia e il genero, mentre il figlio riesce a fuggire.
Solo, senza più libri né famiglia, il professore sopravvive scrivendo. Anzi, scrivendo trova la forza per resistere, il suo modo per testimoniare. A Aix-en-Provence aveva iniziato un lavoro sulla caduta della democrazia di Atene per mano degli oligarchi. Tra gli spettri di Vichy il saggio entra e esce dalla cartella, trova tavoli di fortuna, luci notturne, angoli rubati alla disperazione. Si dilata nel suo spazio morale, i piani della tragedia contemporanea e del dramma dell’antichità si confondono e si sovrappongono, mentre la lezione di civismo si unifica in un atto di fede disperato nella democrazia che testimonia se stessa, morendo.
Si può fare storia, nell’abisso di Vichy? Si deve, dice a se stesso Isaac, perché è l’unico modo che lui ha per restare se stesso mentre è privato di tutto, e soprattutto è il modo più giusto per interpretare il presente. «Voglio mostrare quale fu il ruolo del partito oligarchico di Atene, nemico mortale della democrazia - spiega nella prima pagina degli Oligarchi, ora pubblicato da Sellerio - Nel 404 avanti Cristo Atene dovette piegare le ginocchia davanti a Sparta. È nel 1942 dopo Cristo, nella Francia soggiogata dalla Germania hitleriana, che queste pagine sono state scritte. Duemilatrecentoquarantasei anni - la metà dei tempi storici - separano l’autore dal suo soggetto. Piuttosto che nello spazio ha scelto di fuggirsene nel tempo. Ed ecco quel che vi ha trovato».
La libertà, vista dal fondo del vortice nazista, è il cuore di ciò che Atene ha perduto e di ciò che aveva costruito negli anni della sua felicità insolente, con l’avorio, il marmo e l’oro dell’Acropoli che riflettevano la maestà imperiale di una democrazia sfavillante nella trinità senza mistero del potere, della ricchezza, delle belle arti riunite davanti al Pireo sui cui banconi si raccoglievano tutti i prodotti dell’universo. Se Sparta è quasi una creatura ideologica, incarnando nella sua durezza l’idealtipo oligarchico, Atene resta l’archetipo dell’ideale democratico, ingigantito nel suo fascino dallo splendore della città. Ma la bellezza non salva da sola la democrazia. Anzi, la bellezza si espone agli dei vendicatori che «per realizzare i loro disegni trovano sempre gli uomini adatti, all’ora adatta, quella del disastro».
Gli uomini sono gli oligarchi. La descrizione di questa classe-setta di Atene nel 404 a.C. vale per il potere collaborazionista del 1942, ma vale anche oggi, settant’anni dopo. Non sono la maggioranza moderata dell’aristocrazia ateniese (fatta di uomini d’ordine conservatori e moderati, nemici della violenza) ma il suo cuore radicale e ideologico, settario, nemico del popolo e della democrazia, trascinato da una capacità d’odio talmente assoluta da spingerli a puntare ogni volta sul peggio, a sognare il disastro da cui trarre profitto, invocando persino la guerra sperando che finisca male.
Le parole d’ordine sono quelle eterne dell’ideologia conservatrice d’ogni tempo, Natura e Forza, con Callicle che nel Gorgia di Platone spiega come «la legge sia fatta dai deboli e per loro. Ma la natura stessa dimostra che per essere giusti colui che vale di più deve prevalere su colui che vale di meno, il capace sull’incapace». Se dunque la democrazia è questa istituzione contronatura da abbattere a tutti i costi e senza rimorsi, occorre ancora l’occasione, quel “vento cattivo” capace di gonfiare le vele dell’oligarchia. Insieme, come nota oggi Luciano Canfora in una bellissima prefazione, a due cedimenti nella democrazia ateniese che si riprodurranno anche negli anni di Vichy: una forte corrente politica interna al Paese stremato pronta ad accogliere il “nuovo ordine”, il trasformismo opportunistico dei capi popolari pronti sia in Francia che ad Atene a passare con gli estremisti del nuovo potere.
Quando la flotta ateniese della spedizione di Sicilia è annientata, con la città in lutto, ecco per gli oligarchi l’occasione, anzi “la divina sorpresa”, come Charles Maurras nel 1942 saluterà l’arrivo al potere a Vichy del maresciallo Pétain: «Nel disastro e nella rotta le nostre idee si trovavano molto vicine a giungere al potere». Ad Atene “la divina sorpresa” è un’opinione pubblica sconcertata e provata dalla guerra, pronta a tutto.
Guardandosi attorno nelle campagne di Vichy, Isaac annota il clima del terrore ateniese: «Conversioni, servilismi verso i nuovi padroni, una splendida fioritura di vigliaccheria », mentre i Trenta oligarchi divideranno i pieni poteri, la violenza, la sopraffazione, perché è fatale che l’usurpazione finisca in repressione, finché i cittadini si ribellano e Atene intera giura nuovamente fedeltà alla democrazia. Ma ecco nel 406 il processo agli strateghi, con i membri delle famiglie degli equipaggi delle triremi morti senza sepoltura che prendono posto in Assemblea vestiti di nero e con la testa rasata a zero, insieme testimoni, vittime e accusatori dei sei strateghi schiacciati dalla forza simbolica della loro presenza. Così quando Callisseno chiede un verdetto collettivo, una sola sentenza che vincoli tutti gli accusati nella colpa mandandoli insieme al supplizio, a nulla vale il richiamo alla legge, al giuramento democratico, agli dei.
«Come presa da follia la democrazia era caduta nella trappola in cui i suoi nemici l’avevano attirata», scrive Isaac. Meno di un anno dopo Lisandro annienta la flotta di Atene che dopo l’assedio e la fame capitola accettando di subordinarsi a Sparta su terra e in mare: «Era la libertà nella schiavitù».
La Francia collaborazionista con Hitler che la occupa spiega a Jules Isaac quel che è potuto accadere alla democrazia ateniese: come quando un uomo perde conoscenza per uno choc violento, scrive, così capita che un popolo precipitato dalla sua grandezza resti come inerte, privo di coscienza, alla mercé delle canaglie o dei fanatici.
Così ad Atene il colpo di Stato va in scena «con il demos incatenato e il nemico all’Acropoli», come vogliono gli oligarchi. A loro infine si rivolgerà Trasibulo dopo aver sacrificato alla dea gratitudine per la città ritrovata dopo il terrore e l’arbitrio: «Ditemi, dunque, su che cosa voi fondate la vostra superiorità? Il popolo vale molto più di voi, dimentico del male che avete fatto saprà mantenere il suo giuramento».
La malvagità dei cosiddetti “buoni”, nota Isaac, sarà stata superata solo dalla clemenza dei “cattivi”. Da allora, aggiunge, «sono trascorsi 2344 anni, e mentre sto scrivendo queste ultime righe da qualche parte in Francia - quella che fu la Francia - il sabato 17 ottobre 1942, i “buoni” sono sempre così malvagi, resta da sapere se i “cattivi” saranno così magnanimi».
Nelle stesse ore i giornali fascisti di Vichy spiegavano le ragioni dei “buoni”. Basta scorrere gli articoli di Robert Brasillach su Je suis partout scritti proprio in quei giorni e appena ripubblicati in Italia da Settimo Sigillo: «Il dottor Goebbels ha pronunciato parole che sarebbe uno sbaglio non meditare sui popoli che si ripiegano su se stessi, sui popoli che sognano solo della passata opulenza e non si rendono conto dello sforzo che fa la Germania ». Ma «il cancelliere Hitler ha agito in fretta. In mezzo agli innumerevoli impegni che l’ultimo cavaliere dell’ordine teutonico ha nel suo territorio orientale, egli ha avuto per la Francia questo pensiero simbolico, significativo e pratico. Non siamo spariti dal campo d’azione del mondo nuovo». Tuttavia «l’attendismo non paga». «Per andare d’accordo con il nuovo mondo ci vuole una Francia nuova. Per andare d’accordo con l’Europa fascista ci vuole una Francia fascista».
Era l’11 settembre 1942 quando Brasilach scriveva questa esortazione. Da qualche parte nella campagna, probabilmente di notte, Jules Isaac tirava fuori dalla sua borsa per un’ultima volta il manoscritto degli Oligarchi per la correzione finale. Da poco aveva cominciato a rileggere i Vangeli in greco, grazie al prestito di un curato di paese, e a ragionare sullo scarto tra gli scritti evangelici e l’insegnamento della Chiesa sugli ebrei. Incomincia a lavorare sul testo di Gesù e Israele, il libro in base al quale chiederà nel ’49 a Pio XII di rivedere la preghiera del Venerdì Santo, offensiva per gli ebrei, finché nel ’60 sarà ricevuto in udienza privata da Giovanni XXIII, ispirandogli la revisione fondamentale della Nostra Aetate.
In quei giorni un secondo manoscritto cresce dunque nella cartella del professore che si muove alla macchia, sulla strada tra Riom e Clermond Ferrand con indosso l’ultimo vestito che gli è rimasto, nascondendosi di giorno per scrivere di notte, fedele a quel messaggio che la moglie gli ha lasciato sull’ultimo biglietto prima dell’arresto, e che lui tiene nel portafoglio: «Mio caro, prenditi cura di te, abbi fiducia e finisci il tuo lavoro. Il mondo lo aspetta».
Riflessioni (in)attuali
Uno sguardo psicoanalitico sulla vita comune
di Sarantis Thanopulos
L’ARROGANZA INCOMPIUTA DELL’OCCIDENTE
(PSYCHIATRY ON LINE 8 febbraio 2016)
La decisione del governo di Danimarca, condivisa dalla maggioranza dei danesi, di confiscare ai rifugiati i loro beni superiori al valore di circa 1350 euro, come contributo alle spese del loro mantenimento, qualche senso di colpa l’avrà provocato anche tra i suoi sostenitori.
Tuttavia, i sensi di colpa si inchinano sempre alla “forza maggiore” (le reazioni impulsive alle difficoltà) e sono assai utili nell’arredo dell’auto-assoluzione: se si diventa inumani per “necessità”, si torna umani con un po’ di dolore. Se le ferite che infliggiamo ai più deboli, sfociassero dentro di noi in un senso di vergogna, invece che di colpa, le cose nel mondo andrebbero meglio.
La vergogna è la trasformazione della ferita dell’altro in ferita del nostro amor proprio: ci umilia la sua umiliazione. L’incapacità di vergognarsi, di cui diamo prova ampia, è coperta con un principio considerato di buon senso: si deve rispettare la casa di cui si è ospiti perché l’ospitalità possa essere offerta. Questo non è chiaro come possa valere quando le relazioni di scambio e di buon vicinato sono sconvolte e mentre la casa gli uni la mantengono, gli altri l’hanno perduta. Le regole della buona educazione e del rispetto reciproco non valgono, quando le loro premesse sono sconvolte.
Gran parte dell’Occidente è tentata a far sentire la voce del padrone con i suoi ospiti: “A casa mia comando io”. Sennonché, le regole di gestione della propria casa non sono più valide, se cambia rapidamente la composizione di chi la abita e diventa anche confusa la distinzione tra interno e esterno. In queste condizioni, l’unica alternativa al caos e all’arbitrio è il principio della fraternità universale: tutte le persone sono pari sul piano del desiderio, indipendentemente dalla loro differenza sul piano dei bisogni, delle capacità fisiche e mentali, del sesso, delle scelte sessuali, della cultura, della religione e della concezione del mondo.
Ogni conflitto, derivante dalla differenza, può essere realmente risolto solo all’interno di questa prospettiva, che vede la differenza come condizione della persistenza e dell’appagamento del desiderio.
La differenza ci fa confliggere ma ci fa anche sentire desideranti e vivi.
A due condizioni:
a) che la differenza non sia confusa con l’estraneità, quando il più forte annienta il più debole che gli attraversa la strada;
b) che la differenza identitaria dell’uno non domini quella dell’altro, trasformando la loro coesistenza in annessione e sfruttamento. In entrambi i casi, la differenza di fatto svanisce: essa non ama la supremazia dell’uno sull’altro; cresce nell’eguaglianza.
L’occidente è convinto della supremazia dei suoi valori. La sua autoreferenzialità è contraddetta dal fatto che i valori fondamentali, dai quali emanano tutti gli altri (se non sono funzioni normative, strumentali), sono espressione della materia viva dell’umanità, non sono fabbricati da una cultura che li possiede.
Coloro a cui condizioni storico-culturali hanno consentito un miglior riconoscimento e inquadramento di questi valori, dovrebbero spogliarsi di ogni senso di superiorità e diffonderli con umiltà, rispettandoli nelle loro relazioni con gli altri. La supremazia occidentale poggia su un potere economico, politico e militare che dei valori etici fa tranquillamente a meno.
È la grande contraddizione storica della democrazia: con l’esercizio del potere nelle sue relazioni esterne viola palesemente i principi della sua costituzione.
Manifestazione di un’ambiguità del suo funzionamento interno, incompiutezza che l’Atene di Pericle ha compensato con l’arroganza. Non è andata bene.
Un principe in democrazia. L’Atene di Pericle senza miti
Potere personale e capacità di legittimarsi furono le armi principali di un leader paragonabile ad Augusto per la sua abilità
Ma fu anche bersaglio di critiche spietate
di Luciano Canfora (Corriere della Sera, 26.08.2015)
La fioritura urbanistica, architettonica, teatrale, oratoria, prodottasi in Atene in concomitanza con i decenni in cui Pericle fu dominante sulla scena politica (463-430 a.C.), ha determinato l’equazione - divenuta senso comune - grandezza di Atene/Atene di Pericle . È in realtà soltanto un punto di vista, e neanche inoppugnabile. Un altro punto di vista consolidato è che, sotto il suo governo, si sia realizzata la pienezza della democrazia, del «governo di popolo». Un terzo punto di vista - alquanto stridente rispetto al precedente - è che, morto lui, si sia instaurata la democrazia «radicale», che portò la città alla rovina. Nessuno di questi tre «pensieri consolidati» regge alla critica, ma è utile chiedersi come siano nati.
Pericle era nato tra il 500 e il 495 a.C. Era un nobile (eupatrida), apparteneva alla famiglia degli Alcmeonidi, potente e ambigua. Erano stati, gli Alcmeonidi, alleati di Pisistrato (il «capo popolare divenuto tiranno» come lo definisce Aristotele nella Costituzione di Atene ), poi avevano rotto quell’alleanza politico-familiare e avevano lottato, da esuli, contro la «tirannide». Con l’aiuto di Sparta e la complicità dell’oracolo delfico opportunamente corrotto, Clistene, leader della famiglia alcmeonide, era rientrato e aveva cacciato Ippia, figlio ed erede del «tiranno». Ippia si era rifugiato in Persia. Ma a Maratona neanche gli Alcmeonidi fecero una bella figura, anzi ammiccarono all’invasore (lo puntualizza Erodoto, pur «cliente» ormai di Pericle). Ciò non impedì a Pericle venticinquenne (nel 472 a.C.) di pagare le spese per l’allestimento dei Persiani di Eschilo, dramma sommamente patriottico.
Plutarco, il quale scriveva 5 secoli dopo ma con ottime fonti, all’inizio della Vita di Pericle (tutt’altro che ditirambica!) dà una notizia molto importante: Pericle da principio fu a lungo incerto se far politica appoggiandosi al popolo ovvero ai ricchi. Si favoleggiava di una sua somiglianza fisica con Pisistrato e questo lui temeva potesse nuocergli. Suo maestro di musica, ma in realtà di politica, fu il sofista Damone, che - dice Plutarco - molti pensavano lo «addestrasse alla tirannide». Del resto, quando era saldamente al potere e ogni anno riusciva a farsi rieleggere stratego (così evitando il rendiconto del proprio operato), i poeti comici gli gridavano, dalla scena: «Deponi la tirannide!»; e chiamavano «Pisistratidi» i suoi figli (Plutarco, Pericle , 16).
Mettendo insieme questi ed altri elementi, Plutarco approda alla diagnosi che il governo di Pericle fu «aristocratico». E porta a sostegno di ciò il giudizio che un grande storico e uomo politico più giovane di Pericle e suo ammiratore (quantunque appartenente ad un clan familiare avverso), Tucidide, aveva espresso nella sua Storia , come bilancio dell’opera di Pericle: «A parole fu una democrazia, di fatto il governo del princeps ( protos anèr )». E noi preferiamo tradurre col termine augusteo quelle parole («primo uomo») perché l’intento di Tucidide è di definire il potere pericleo come un ben saldo potere personale abilmente rivestito di legittimazione. Che è - su scala molto più grande - la escogitazione costituzionale attuata da Augusto, quando «restaura» la Repubblica, ma assicura a sé il continuativo e di fatto intoccabile ruolo di princeps . Perciò Cicerone, che sognava l’affermarsi di un princeps in re publica (e fu da Augusto nelle sue Memorie assunto come «profeta») definì Pericle « princeps nella sua città» ( De re publica ).
Come si vede, questo tipo di governo non ha molto a che fare con la democrazia: «democrazia solo a parole». E anche nell’orazione funebre per i morti nel primo anno di guerra, che Tucidide fa pronunciare a Pericle poche pagine prima, «democrazia» - come osservò Jacqueline De Romilly - è parola usata con molta circospezione.
Ma per il clan politico-familiare cui appartenevano Platone e suo zio Crizia, capo riconosciuto dell’oligarchia dei «Trenta», non solo le leggi di Clistene lasciavano molto a desiderare, ma proprio Pericle era stato, come già Temistocle un «corruttore del popolo», un demagogo (Platone, Gorgia ): con riferimento alla sua politica edilizia da «Stato sociale» (strumento formidabile di consenso) e più in generale di elargizioni di denaro pubblico. Senza dimenticare episodi gravi di corruzione, come il torbido affaire Fidia (Partenone, statua di Zeus coperta d’oro, ruberie di Fidia stesso sull’oro di proprietà pubblica etc.). E Aristotele, nella già ricordata Costituzione di Atene , mette Pericle tra i faziosi, non tra i politici sui quali il giudizio è concordemente positivo; anzi tra questi colloca il più accanito dei suoi avversari, il figlio di Melesia anche lui di nome Tucidide.
A questo punto anche il divario tra Pericle e «quelli che vennero dopo di lui» (che per Tucidide fu abissale) si accorcia. E rischia di scomparire del tutto se dalla vita pubblica si passa alle imprese militari. Pericle totalizzò quasi solo sconfitte, ivi compreso il disastroso intervento in favore dell’Egitto in rivolta contro la Persia; fu più capace suo nipote ed erede politico Alcibiade, con le strepitose vittorie sulla flotta spartana degli anni 411-409. Il divario tra i due molto si attenua poi sul piano della morale privata. Se di Alcibiade la «scostumatezza» fu proverbiale (rovinosa per la città secondo Tucidide) Pericle fu bollato dai comici come «il re dei satiri», capace di farsela - secondo il malevolo Stesimbroto di Taso - persino con la donna di suo figlio.
Stabile convivente sua fu Aspasia, che «allevava ed educava in casa sua giovani etère», secondo Aristofane e secondo Plutarco, che parla di una vera e propria «struttura» educativa ( ergasía ). Pericle fu costretto, per tale passione, ad umiliarsi dinanzi all’assemblea quando Aspasia fu bersagliata da una denunzia per «empietà», dopo essere stata bersaglio costante della scena comica. Anche in questo si coglie la distanza tra milieu pericleo, raffinatamente «tirannico» e intellettualmente progredito, e la bieca grettezza dell’«ateniese medio». Aspasia - osserva Plutarco, pio ma anche saggio - aveva conquistato Pericle «con la sua saggezza e acutezza anche politica». E Socrate la frequentava talvolta con i suoi discepoli, «i quali portavano ad ascoltarla persino le loro mogli».
NEL PERICLE DI TUCIDIDE Una critica dissimulata della retorica democratica e della violenza imperiale
LA CONDANNA DI SOCRATE Calpestate le forme alte di arte e cultura eliminando gli uomini che le incarnano
Atene, il vizio d’origine della democrazia
Corruzione, cattivo governo, repressione del dissenso: nel suo nuovo libro Canfora smonta il mito del sistema politico-sociale inventato 2500 anni fa
L’orazione funebre di Pericle per i caduti nel primo anno della guerra del Peloponneso, che impegnò Atene e Sparta per quasi trent’anni, dal 431 al 404 a.C (dipinto di Philipp von Foltz).
«Il nostro sistema politico», disse in quella occasione il leader della democrazia ateniese, secondo quanto riporta Tucidide, «non si propone di imitare le leggi di altri popoli: noi non copiamo nessuno, piuttosto siamo noi a costituire un modello per gli altri. Si chiama democrazia, poiché nell’amministrare si qualifica non rispetto ai pochi, ma alla maggioranza».
«La chiamano democrazia ma in realtà è un’aristocrazia con l’appoggio delle masse», ribatteva l’antidemocratico Platone nella parodia di quell’epitafio affidata nel Menesseno alla voce di Aspasia
di Silvia Ronchey (La Stampa, 19.12.2011)
Che cos’è la democrazia? Noi occidentali viviamo convinti che sia «la peggiore forma di governo, a eccezione di tutte le altre sperimentate», secondo il detto reso famoso da Churchill. Al punto che ci adoperiamo spesso per «esportarla», dando per scontato che quel «potere di tutto il popolo» che la parola etimologicamente indica non sia un mito, un equivoco, una costruzione retorica o propagandistica diversamente declinata a seconda delle epoche, ma esista come realtà e come tale si applichi. Anzitutto nel mondo greco in cui nacque e nella politica di una polis di 2500 anni fa: Atene.
Eppure già Tucidide definiva il lungo governo di Pericle «democrazia solo a parole, ma di fatto una forma di principato». Che cos’era dunque la democrazia per i suoi antichi inventori? Le frasi in cui Tucidide parafrasa e in parte ricrea il cosiddetto epitafio di Pericle tradiscono in realtà una cupa ironia e una neppure troppo recondita critica della retorica democratica e di quella «violenza imperiale esercitata dagli ateniesi ovunque nella terra» attraverso la demagogia, che certo il primo accurato diagnosta delle convulsioni della politica non avrebbe mai menzionato come lode. Ma a lungo sono state prese alla lettera da chi non ha saputo riconoscervi quel fondersi di critica del potere e simulato encomio che dall’antichità a Bisanzio, fino a Stalin, intesse i discorsi dell’intelligencjia.
È a questo primo chiarimento che Luciano Canfora affida l’esordio del risolutivo Il mondo di Atene (Laterza, pp. 518, 22), vera summa di tutto ciò che si dovrebbe sapere sulla cosiddetta democrazia ateniese; e dunque sulla democrazia tout court nel suo scenario primo. Un micidiale dossier che documenta con sistematica chiarezza le tesi di Canfora, già autore, sul tema, di rigorose analisi talvolta mascherate da pamphlet.
«La chiamano democrazia ma in realtà è un’aristocrazia con l’appoggio delle masse», chiariva l’antidemocratico Platone nella feroce parodia dell’epitafio di Pericle affidata nel Menesseno alle labbra di Aspasia. Ma è nel breve dialogo Sul sistema politico ateniese, tradizionalmente attribuito a Senofonte, in realtà opera di Crizia, che Canfora indica «il vero e proprio antiepitafio» di Pericle, dove tutti i punti toccati dal tradizionale elogio «vengono capovolti e presentati nella cruda luce della sopraffazione quotidiana di cui si sostanzia il sistema politicosociale ateniese» per mostrare che la democrazia di Atene «è in realtà violenza di classe, cattivo governo, regno della corruzione e della sopraffazione anzitutto in tribunale, regno dello spreco e del parassitismo», e che calpesta le forme alte di cultura e d’arte «con l’eliminazione stessa degli uomini che le incarnano».
È questo il punto in cui anche le più devote espressioni di fede dei moderni nella democrazia, basate sull’esperimento ateniese, si incagliano. Quasi per una nemesi prometeica, «Atene», scriveva Moses Finley in La democrazia degli antichi e dei moderni, «pagò un prezzo terribile: la maggiore democrazia greca diventò soprattutto famosa per avere condannato a morte Socrate». E suquesto punto - la repressione del dissenso - si arena, simmetricamente, anche la scuola opposta, quella che esaltala moderna democrazia proprio in virtù della sua distinzione rispetto all’antica. Benjamin Constant, fondatore all’inizio dell’Ottocento di questa dottrina, nel discorso Sulla libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni sottolineava che l’antica idea di libertà era limitativa in primo luogo del diritto alla fruizione della ricchezza; ma al tempo stesso riconosceva che l’egemonia della «repubblica commerciale» ateniese (Montesquieu) nasceva proprio dalla circolazione della ricchezza. Nell’ammettere dunque che «tra tutti gli Stati antichi Atene è quello che riuscì più simile ai moderni», tanto meno rassicurante gli appariva che la più «moderna» delle democrazie antiche fosse la città dell’ostracismo, della censura, del suicidio coatto di Socrate.
È il primo dei nodi cruciali del trattato di Canfora: la polarità istituita da Constant (e sulla sua scia dai politologi moderni) tra una «libertà oppressiva» (la democrazia antica) e la «libertà libera» dei moderni, «si sfascia quando si tratta di Atene. È lì che il teorema si inceppa perché Atene è le due cose insieme». È libertà oppressiva: schiavista, tra l’altro, come già sottolineato da Tocqueville e come ribadito a oltranza dalla storiografia marxista. Ed è insieme libertà «libera» nel senso moderno: basata sul diritto alla fruizione della ricchezza e perciò esposta a tutto ciò che ne consegue, tra cui l’inevitabile deriva imperialista (fondamento del benessere sociale anche nella lettura socialista di Arthur Rosenberg) e il suo sfociare in oligarchia finanziaria, se non in dittatura finanziaria.
È molto più vasta la ricognizione del mito della «democrazia» ateniese che Canfora conduce attraverso le sue metamorfosi, attualizzazioni, consapevoli e inconsapevoli strumentalizzazioni nelle diverse fasi del dibattito storico e filosofico moderno e contemporaneo, per poi rispalancare al lettore, vaccinato dalla credulità, l’accesso pieno all’antichità, ai suoi conflitti palesi o segreti. Per far rivivere, sul palcoscenico dell’antico dramma ateniese, quella remota «scena primaria» che l’ambigua parola democrazia insieme sigilla e preclude. Per rintracciare la vera origine del distorto mito della democrazia ateniese nella politica non più della Grecia ma di Roma: nell’esigenza romana di screditare il grande e comune avversario macedone. L’integrazione tra Oriente e Occidente e le altre epocali innovazioni dell’impero di Alessandro, intuite da Cesare e Antonio, sarebbero continuate in Bisanzio. Rinnegate dalla reazione augustea, la loro eclissi avrebbe lasciato al medio e poi al moderno evo europeo una livida eredità di guerre barbariche, nazionalismi e conflitti etnici, non ancora estinta.
Pericle. Il suo discorso agli ateniesi come esempio di malafede
di Umberto Eco (la Repubblica, 14 gennaio 2012)
Si stava celebrando in piazza del Duomo, strapiena di festanti, la vittoria di Pisapia alle amministrative, si succedevano sul palco politici, cantautori, attori, artisti, e uno dei nostri comedians più bravi mi stava dicendo che andava a leggere il discorso di Pericle agli ateniesi, come elogio della democrazia. Io gli avevo detto: "Stai attento, perché Pericle era un figlio di puttana". Lui aveva preso il mio giudizio come una boutade, aveva riso, ed era salito. Dopo, quando era disceso, mi aveva detto: "Sai, mentre leggevo mi accorgevo che avevi ragione".
Pericle era un figlio di buona donna o, come avrebbero detto ai suoi tempi, per esprimersi in modo più gentile, figlio di una etera. Non più di tanti altri politici e, tanto per dire, Machiavelli lo avrebbe ampiamente giustificato, per carità. Ma il suo discorso agli ateniesi è un classico esempio di malafede.
All’inizio della prima guerra del Peloponneso, Pericle fa il discorso in lode dei primi caduti. Usare i caduti a fini di propaganda politica è sempre cosa sospetta, e infatti sembra evidente che a Pericle i caduti importavano solo come pretesto: quello che egli voleva elogiare era la sua forma di democrazia, che altro non era che populismo - e non dimentichiamo che uno dei suoi primi provvedimenti per ingraziarsi il popolo era stato di permettere ai poveri di andare gratis agli spettacoli teatrali. Non so se dava pane, ma certamente abbondava in circenses. Oggi diremo che si trattava di un populismo Mediaset.
Ricorda Plutarco (Vita di Pericle) che "Pericle governando si dedicò al popolo, preferendo le cose dei molti e poveri a quelle dei ricchi e pochi, contro la sua natura che non era affatto democratica". Vale a dire, se le parole hanno un senso, che, aristocratico di buona condizione economica, era attaccato alla sua classe ma usava il ricorso al favore popolare come strumento di potere. Al punto tale che, visto che Cimone, più ricco di lui, spendeva un sacco di soldi suoi per iniziative popolari, ne aveva intraprese altrettante, ma coi soldi pubblici.
Ricorda ancora Plutarco che secondo molti a causa di queste elargizioni senza criterio il popolo fu abituato male e divenne dissoluto e spendaccione anziché moderato e lavoratore. Non solo, ma in certe occasioni Pericle aveva usato i beni pubblici per le sue elargizioni demagogiche, così che "avendo allentato le redini del popolo, si occupava di politica per ingraziarselo, provvedendo che in città ci fosse sempre qualche spettacolo pubblico, o banchetto o processione, intrattenendo la città con piaceri non rozzi, inviando sessanta triremi ogni anno, sulle quali molti cittadini navigavano stipendiati per otto mesi, praticando e insieme imparando l’arte nautica. (...)
Pericle, che si voleva campione di democrazia, non poteva usare con gli ateniesi la forza, ma doveva richiederne il consenso, e per ottenere il consenso popolare non è indispensabile essere nel giusto, basta usare delle accorte tecniche di persuasione. E Pericle si era allenato sin da giovane ad essere oratore convincente ed affabile, che sapeva sostenere anche fisicamente la sua fama di persona affidabile, visto che, come ci dice ancora Plutarco "non solo ebbe una mente grave e un linguaggio elevato immune da volgare e comune loquacità, ma anche l’espressione del volto inflessibile al riso, la mitezza dell’andatura e la decenza della veste che non si agitava per alcun trasporto nel parlare, la modulazione quieta della voce".
Il discorso di Pericle (riportato da Tucidide, in Guerra del Peloponneso) è stato inteso nei secoli come un elogio della democrazia, e in prima istanza è una descrizione superba di come una nazione possa vivere garantendo la felicità dei propri concittadini, lo scambio delle idee, la libera deliberazione delle leggi, il rispetto delle arti e dell’educazione, la tensione verso l’uguaglianza. Ma che dice in realtà Pericle?
Prima naturalmente fa portare in scena le bare (in cipresso) dei caduti, compresa una per quella che chiameremmo oggi il Milite Ignoto, poi così parla: (...) «Io, dato che non voglio fare lunghi discorsi, lascerò perdere, fra questi fatti, le imprese compiute durante le guerre, grazie alle quali furono conquistati i singoli possedimenti, o quando noi o i nostri padri respingemmo con valore il nemico barbaro o greco che ci attaccava (...). Utilizziamo infatti un ordinamento politico che non imita le leggi dei popoli confinanti, dal momento che, anzi, siamo noi ad essere d’esempio per qualcuno, più che imitare gli altri. E di nome, per il fatto che non si governa nell’interesse di pochi ma di molti, è chiamato democrazia; per quanto riguarda le leggi per dirimere le controversie private, è presente per tutti lo stesso trattamento; per quanto poi riguarda la dignità, ciascuno viene preferito per le cariche pubbliche a seconda del campo in cui sia stimato, non tanto per appartenenza ad un ceto sociale, quanto per valore; e per quanto riguarda poi la povertà, se qualcuno può apportare un beneficio alla città, non viene impedito dall’oscurità della sua condizione».
Come discorso populista non è male salvo che Pericle non menziona il fatto che in quei tempi ad Atene c’erano, accanto a 150.000 abitanti, 100.000 schiavi. E non è che fossero solo barbari catturati nel corso di varie guerre, ma anche cittadini ateniesi. Infatti una delle leggi di Solone stabiliva di togliere dalla schiavitù i cittadini diventati servi a causa dei debiti verso i latifondisti. Segno che erano servi anche altri cittadini, caduti in schiavitù per altri motivi. E d’altra parte, circa cent’anni dopo Aristotele avrebbe scritto (Politica I): «Un essere che per natura non appartiene a se stesso ma a un altro, pur essendo uomo, questo è per natura schiavo (...). Comandare ed essere comandato non solo sono tra le cose necessarie, ma anzi tra le giovevoli, e certi esseri, subito dalla nascita, sono distinti, parte a essere comandati, parte a comandare. (...) Ora gli stessi rapporti esistono tra gli uomini e gli altri animali: gli animali domestici sono per natura migliori dei selvatici e a questi tutti è giovevole essere soggetti all’uomo, perché in tal modo hanno la loro sicurezza. Così pure nelle relazioni del maschio verso la femmina, l’uno è per natura superiore, l’altra inferiore, l’uno comanda, l’altra è comandata - ed è necessario che tra tutti gli uomini sia proprio così. Quindi quelli che differiscono tra loro quanto l’uomo dalla bestia (e si trovano in tale condizione coloro la cui attività si riduce all’impiego delle forze fisiche ed è questo il meglio che se ne può trarre), costoro sono per natura schiavi» (...).
Ma ogni epoca ha le sue debolezze, e lasciamo a Pericle di celebrare questa sua democrazia di schiavi. Però il nostro così prosegue: «Noi... ci procurammo moltissime occasioni di svago dalle fatiche, per il nostro spirito, dato che celebriamo secondo la tradizione giochi e sacrifici per tutto l’anno e grazie a case e suppellettili eleganti, il cui godimento quotidiano allontana lo sconforto». E qui siamo di nuovo al populismo Mediaset e all’elogio del consumismo.
Ma andiamo avanti. A che cosa mira questo elogio della democrazia ateniese, idealizzata al massimo? A legittimare l’egemonia ateniese, sugli altri suoi vicini greci e sui popoli stranieri. Pericle dipinge in colori affascinanti il modo di vita di Atene per giustificare il diritto di Atene a imporre il proprio dominio sugli altri popoli dell’Ellade (...). Segue l’elogio militare degli ateniesi che combattono sempre bravamente per difendere la loro terra. Pericle si dimentica di rilevare che (e proprio sotto il suo governo) erano stati riconosciuti come cittadini ateniesi solo coloro che avevano tutti e due i genitori ateniesi. Quindi c’erano gli schiavi, i veri cittadini ateniesi e i meteci, qualcosa come degli extracomunitari con diritto di soggiorno, che non erano cittadini a pieno diritto e non potevano votare - anche se tra coloro possiamo annoverare personaggi come Ippocrate, Anassagora, Protagora, Polignoto, Lisia o Gorgia.
Ma non è finita: «Non ci procuriamo gli amici ricevendo benefici, ma facendone. Dunque chi fa un favore è un amico più sicuro, tanto da conservare il favore dovuto grazie alla riconoscenza di colui al quale egli l’ha dato». Il che francamente mi sembra un principio mafioso.
Tornato poi ai defunti, Pericle osserva che bellamente sono morti per difendere una città che è di modello a tutto il mondo (e cara grazia che abbia lasciato a un suo futuro collega il compito di celebrare il proprio "popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di navigatori"). (...) Comunque i genitori dei caduti, ascesi all’olimpo degli eroi, non si debbono dolere perché li deve animare «la speranza di avere altri figli, per coloro che sono ancora in età adatta per avere figli: infatti, su un piano privato, i nuovi figli costituiranno per alcuni la possibilità di dimenticare quelli che non ci sono più, per la città, poi, sarà utile in due modi, contro il divenire spopolati e per la sicurezza: infatti non è possibile che prendano decisioni imparziali e giuste coloro che corrono dei rischi senza esporre al pericolo anche i propri figli come gli altri».
Il che mi pare solo sfacciataggine, ma sembra che ai dolenti questa oratoria piacesse. Così che l’oratore può concludere con «Ora, dunque, dopo aver compianto ciascuno il proprio parente, tornate alle vostre case», che - traducendo alla buona - significa «e ora smammate e non rompete più le scatole con i vostri piagnistei» (...).
Ecco perché bisogna sempre diffidare del discorso di Pericle e, se lo si dà da leggere nelle scuole, occorrerà commentarlo, ricordando che molti padri di tante patrie sono stati figli di un’etera.
Un esistere oltre noi stessi
di Valeria Cesaroni (BombaCarta, 1 Febbraio 2021)
Cosa succede quando si riduce la dimensione dell’esperienza a quella dell’esperimento? Ci si mette al sicuro, in primo luogo. Al riparo dalle perdite, dalle contaminazioni, dai rischi, dalle cadute, dalle ferite e dalla casualità che invece contraddistinguono la vita vera, agita, rispetto ad una vita immaginata o vissuta a distanza di sicurezza. A prima vista può sembrare che con questa mossa si possa vincere tutto senza perdere nulla, e invece il prezzo che si paga può essere più consistente del rischio che si voleva evitare. Nel saggio Elogio dell’amore. Intervista con Nicolas Truong, il filosofo Alain Badiou sostiene che il concetto di amore attualmente in vigore nella nostra società sia contraddistinto da una connotazione securitaria: come l’idea della “guerra a morte zero” dei conflitti della nostra epoca, così l’amore è oggi pensato e proposto come un esperimento più che come esperienza, come un evento cioè reversibile, privo di rischi, calcolabile, ripetibile e seriale, in cui tutto è, proprio come in un laboratorio, perfettamente sotto controllo. Prova ne sarebbero gli slogan di alcune agenzie pubblicitarie per siti di incontri che promettono “l’amore senza l’innamoramento”, o “l’amore privo di rischi” ovvero senza quella caduta che la lingua inglese conserva perfettamente nell’espressione “to fall in love”.
Ciò che accomuna tanto l’amore securitario con l’idea della guerra a rischio zero è secondo Badiou la concezione per la quale viene eliminata la componente dell’esperienza, la quale è caratterizzata invece da un rischio intrinseco. Ciò che la visione securitaria dell’amore cerca di dimostrare è che il rischio che il soggetto corre nell’esperienza (in questo esempio dell’amore) sia inutile, anziché essere il rischio stesso l’elemento attraverso cui l’esperienza in quanto tale si dà.
Se l’amore è una caduta, in primis al di là di noi stessi, che infligge una ferita al nostro solipsismo e ci costringe ad un’apertura all’altro, e in quanto tale dunque è uno scossone violento e dirompente per la nostra singolarità; è però anche in questa lacerazione, in questo donarsi alla contingenza della vita e dell’altro, che l’Io ritrova un senso di sé e del mondo più profondo e più ampio rispetto al mero vissuto monadico-individuale.
Nel romanzo di Emily Brontë Cime tempestose, Catherine esprime così il suo sentimento per Heathcliff:
L’amore provato da Catherine è innanzitutto esperito come una perdita dei confini del proprio Io: ella perde, nell’amore, il senso di sé come autoriferimento per approdare ad un senso di sé che ha un riferimento invece nell’altro, in questo caso nell’altro amato. Attraverso questa dinamica di perdita e di ferita alla propria individualità, Catherine riesce non solo a trovare sé nell’altro, ma acquisisce anche un nuovo e diverso sguardo sul mondo, uno sguardo a partire dal due, anzichè dall’uno. L’esperienza amorosa permette cioè, per dirla ancora con Badiou:
Ma cosa significa pensare l’amore come un’esperienza personale di una universalità possibile? La dinamica amorosa ci mostra come il processo di realizzazione dell’Io sia una dinamica tra un perdere e un ritrovare, mostra il nesso indissolubile tra una ferita ad un Io autofondato e la possibilità di costruzione di un Noi. Questa dinamica, lungi dall’essere prerogativa esclusiva dell’esperienza amorosa, è alla radice della possibilità di formazione stessa della nostra soggettività e del rapporto tra individuo e comunità.
Secondo Hegel, filosofo che fa dell’esperienza della perdita e del ritrovare il leitmotiv della sua filosofia, la formazione stessa della soggettività avviene attraverso una dinamica complessa che si gioca tra la consapevolezza del nesso tra indipendenza e dipendenza che abbiamo rispetto agli altri, tra perdita del riferimento a sé e conquista del riferimento a sé attraverso l’altro. Nella Fenomenologia dello Spirito l’autocoscienza, per divenire reale, comprende che deve superare l’autoriferimento, “l’immota tautologia dell’Io = Io” per rivolgersi ad un’altra autocoscienza, dalla quale soltanto può scaturire il riconoscimento di sé come autocoscienza vera e reale.
L’Io cioè non può prodursi da solo, non può costitutivamente essere bastevole a se stesso. Così l’autonomia, l’indipendenza e l’autoriferimento si dileguano come illusioni. L’Io riesce a essere reale quando, per dirla con Kojève:
Ed è in questa dimensione di smarrimento di se stessa che l’autocoscienza si ritrova in un’essenza diversa, nella quale riconosce se stessa solo attraverso il riconoscimento dell’altro:
La dialettica dell’Io come alterità porta Hegel a porre nel cuore stesso della soggettività l’esperienza di lacerazione della propria autoreferenzialità ed indipendenza, dischiudendo così la possibilità di arrivare ad una dimensione che ci permetta di realizzare “un Io che è un Noi ed un Noi che è un Io”.
Questa dinamica, lungi dall’essere una irenica visione dei rapporti tra soggetti, in cui l’antagonismo scompare e si assicura la relazione e la differenza, è in realtà una storia di fallimenti, di battute di arresto, di cadute e di scontri: il servo e il signore infatti, figure idealtipiche della Fenomenologia hegeliana, mostrano il fallimento del riconoscimento; e l’amore provato da Catherine si rivela essere una forza distruttrice e mortifera, piuttosto che conciliante e pacifica.
D’altronde, è proprio questo che caratterizza la maturazione di un’esperienza: solo confrontandosi con situazioni “non a rischio zero” si può accedere ad una dimensione di reale formazione ed apertura rispetto ai propri limiti e barriere.
Lasciamo le brughiere inglesi di Cime tempestose e il panorama filosofico tedesco per immergerci nella realtà ateniese del V secolo, in cui questo “esistere oltre noi stessi” di cui abbiamo parlato è al centro della costruzione della collettività: nel famoso Epitaffio di Pericle, quello che doveva essere un discorso di commemorazione funebre in onore dei soldati caduti nella difesa della pòlis contro i Persiani, diviene invece un vero e proprio elogio di Atene e del suo progetto politico più innovativo: la democrazia. La democrazia ateniese non viene elogiata però in quanto mera architettonica politica, ma come quel progetto collettivo che in quanto tale riesce a dare un significato inedito alla morte:
Non più dunque l’aedo che canta le sorti dell’eroe, singolo e solitario, donandogli così l’immortalità, ma il progetto politico collettivo garantisce l’esistere oltre la propria individualità, inaugurando un pericoloso gioco di equilibrio di valorizzazione tra l’esistenza individuale e quella collettiva che sarà caratteristico delle costruzioni politiche antiche e non.
Al culmine del suo discorso Pericle, invita l’uditorio, composto quindi da coloro che hanno perso qualcuno durante le guerre persiane, ad amare, non però i loro cari, ma ciò che dei loro cari sopravvive: la città.
Nota:
PER UNA "SCIENZA NUOVA" DELL’AMORE E DELLA POLITICA...
PER NON CADERE (di nuovo e ancora, dopo millenni) NELLA TRAPPOLA DELLA TRACOTANZA E DELLA MALAFEDE DI PERICLE ("Non abbiamo bisogno di alcun Omero che canti la nostra gloria"), E NON DIMENTICARE CHE LA SUA LINEA POLITICA SEGNA L’INIZIO DELLA FINE DELLA GLORIA E DEL "PROGETTO POLITICO" DI ATENE, forse, è opportuno riconsiderare il valore delle riflessioni di Umberto Eco su "Pericle il populista" (del 2012): "Il discorso di Pericle (riportato da Tucidide, in Guerra del Peloponneso) è stato inteso nei secoli come un elogio della democrazia, e in prima istanza è una descrizione superba di come una nazione possa vivere garantendo la felicità dei propri concittadini, lo scambio delle idee, la libera deliberazione delle leggi, il rispetto delle arti e dell’educazione, la tensione verso l’uguaglianza. Ma che dice in realtà Pericle?" (http://www.lavocedifiore.org/SPIP//forum.php3?id_article=3554&id_forum=702397) e al contempo, volendo, ripensare la storica lezione di Giambattista Vico sulla questione "Omero" e sulla "Scienza Nuova" (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5634). O no?
Federico La Sala
L’OCCUPAZIONE DELLA LEGGE E DELLA LINGUA ITALIANA: L’ITALIA E LA VERGOGNA.
Perché l’eguaglianza è ancora rivoluzionaria
Così si garantisce il legame sociale
Di questo tema si discute da domani al terzo Festival del diritto di Piacenza. Per difendere uno dei principi fondamentali bisogna capire come si è evoluto. Le diversità culturali religiose e di genere sono un banco di prova. Resta un concetto centrale rispetto ad ogni tentativo di distorcere la democrazia
di Stefano Rodotà (la Repubblica, 21.09.2010)
Quando, alla fine del Settecento, sulle due sponde del Lago Atlantico le dichiarazioni dei diritti pronunciano le parole «tutti gli uomini nascono liberi e eguali», si manifesta pubblicamente la fondazione di un’altra società e d’un altro diritto, e "la rivoluzione dell’eguaglianza" diviene un tratto caratteristico della modernità. Per l’eguaglianza comincia una nuova storia, nella quale si riconoscono riflessioni millenarie e diffidenze mai sopite, con una ritornante contrapposizione della libertà all’eguaglianza. È una vicenda che attraversa due secoli, non è conclusa, nel Novecento ha conosciuto tragedie, ma ha pure generato una promessa che ancora ci sfida e attende d’essere adempiuta.
Con questi dilemmi si misurano, nel momento fondativo della Repubblica, i costituenti italiani. Riconciliare libertà e eguaglianza è tra i loro obiettivi. E nasce un capolavoro istituzionale, l’art. 3 della Costituzione, frutto di un incontro tra consapevolezza politica e maturità culturale oggi impensabile. Muovendo da qui, si possono indicare sinteticamente alcuni itinerari da seguire perché davvero si possa essere liberi e eguali.
1) Un esercizio di memoria, anzitutto. La triade rivoluzionaria «libertà, eguaglianza, fraternità» vede precocemente dissolto il legame tra libertà e eguaglianza dal ruolo attribuito alla proprietà (Napoleone, nel proclama del 18 Brumaio, parlerà di «libertà, eguaglianza, proprietà»). La proprietà si presenta come presidio della libertà: solo il proprietario è davvero libero, e così torna il germe della diseguaglianza che sarà all’origine delle tensioni dei decenni successivi.
2) Proprio il tema delle diseguaglianze economiche, e più in generale "di fatto", caratterizza l’art. 3 della Costituzione, dove si prevede che compito della Repubblica sia quello di rimuoverle. In questo riconoscimento dell’eguaglianza sostanziale, che segue quello dell’eguaglianza formale, si sono visti «due modelli contrapposti di struttura socio-economica e socio-istituzionale», «l’uno per rifiutarlo, l’altro per instaurarlo». Ma non possiamo più dire che si tratta di una norma a due facce, l’una volta verso la conservazione dell’eredità, l’eguaglianza formale; l’altra rivolta alla costruzione del futuro, l’eguaglianza sostanziale. Già l’inizio dell’art. 3, che parla di dignità sociale, dà evidenza a un sistema di relazioni, al contesto in cui si trovano i soggetti dell’eguaglianza, poi esplicitamente considerato dalla seconda parte della norma. Questa lettura unitaria dell’articolo non ne depotenzia la forza "eversiva", ma dice che la stessa ricostruzione dell’eguaglianza formale non può essere condotta nell’indifferenza per la materialità della vita delle persone. E la concretezza dell’eguaglianza ha trovato riconoscimento nella versione finale della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, dove il riferimento astratto "tutti" è stato sostituito da "ogni persona".
3) Il riferimento alla dignità dà ulteriori indicazioni. Descrivendo il tragitto che ha portato all’emersione dell’eguaglianza come principio costituzionale, si è parlato di un passaggio dall’homo hierarchicus a quello aequalis. Ora quel tragitto si è allungato, ci ha portato all’homo dignus e la rilevanza assunta dalla dignità induce a proporne una lettura che la vede come sintesi di libertà e eguaglianza, rafforzate nel loro essere fondamento della democrazia. L’antica contrapposizione tra libertà e eguaglianza è respinta sullo sfondo dalla loro esplicita associazione nell’art. 3. A questo si deve aggiungere l’«esistenza libera e dignitosa» di cui parla l’art. 36. Dobbiamo concludere che l’ineliminabile associazione con la libertà è la via che immunizza dagli eccessi dell’eguaglianza e dalle ambiguità della dignità, che tanto avevano inquietato nel secolo passato e che proiettano ancora un’ombra sulle discussioni di oggi?
4) L’eguaglianza oggi è alla prova delle diversità, e più radicalmente della differenza di genere. La Carta dei diritti fondamentali «rispetta la diversità culturale, religiosa e linguistica» e stila l’elenco fino a oggi più completo dei divieti di discriminazione. Il rispetto delle diversità diventa così fondamento dell’eguaglianza, in palese connessione con il libero sviluppo della personalità, dunque con una rinnovata affermazione del nesso tra eguaglianza e libertà. E l’eguaglianza si dirama in due direzioni. Da una parte, si presenta come rimozione delle cause che producono diseguaglianza; dall’altra, come accettazione/legittimazione delle differenze, rendendo esplicita la sua vocazione dinamica, "inclusiva".
5) Si distingue tra eguaglianza delle opportunità o dei punti di partenza e eguaglianza dei punti di arrivo. Negli ultimi tempi, ponendo l’accento sulla difficoltà delle politiche redistributive, si è quasi cancellato il momento dei risultati con un riduzionismo improponibile. Un solo esempio: per la tutela della salute si può prescindere dall’effettiva disponibilità dei farmaci? Altrimenti si rischia di consegnare al cittadino "eguale" una chiave che apre solo una stanza vuota.
6) L’eguaglianza riguarda l’accesso ai beni della vita. Alla conoscenza, superando ogni "divario", e non solo quello digitale. Alla salute e al cibo, che non possono essere affidati alle disponibilità finanziarie. Al lavoro, che non può subire le esigenze della globalizzazione fino a cancellare la dignità della persona. Altrimenti, il peso delle diseguaglianze, associato alla pura logica di mercato, fa rinascere la cittadinanza censitaria. E la disponibilità crescente di opportunità tecnologiche, l’avvento del post-umano, impongono una attenzione forte per eguaglianza e dignità, insieme a una libertà declinata come autodeterminazione.
7) L’associazione di eguaglianza, libertà e dignità può metterci al riparo dal rischio dell’eguaglianza assoluta o estrema, che dissolve la società e attenta ai diritti delle persone. Ma le difficoltà antiche e nuove delle politiche egualitarie, la pressione delle identità possono indurre ad un pericoloso realismo che accantoni l’eguaglianza come inservibile. Errore politico e culturale clamoroso. La costruzione infinita della persona eguale rimane tema ineludibile. L’eguaglianza non significa solo divieto di leggi ad personam, ma garanzia del legame sociale. Proprio quando è negata, è lì ad ammonirci, a inquietare le coscienze. Rimane un potente strumento di azione culturale e lotta politica, "eversivo" rispetto a ogni tentativo di restaurare gerarchie sociali e di distorcere la democrazia.
COSTITUZIONE, LINGUA E PAROLA.....
La colpa di chi fa
le leggi per se stesso
di GUSTAVO ZAGREBELSKY *
"Un dio o un uomo, presso di voi, è ritenuto autore delle leggi?" chiede l’Ateniese ai suoi ospiti venuti da Creta e da Sparta. "Un dio, ospite, un Dio! - così come è perfettamente giusto". Queste parole aprono il grande trattato che Platone dedica alle Leggi, i Nòmoi. Il problema dei problemi - perché si dovrebbe obbedire alle leggi - è in tal modo risolto in partenza: per il timor degli Dei. Le leggi sono sacre.
Chi le viola è sacrilego. Tra la religione e la legge non c’è divisione. I giudici sono sacerdoti e i sacerdoti sono giudici, al medesimo titolo. Oggi non è più così. Per quanto si sia suggestionati dalla parola che viene dal profondo della sapienza antica, possiamo dire: non è più così, per nostra fortuna. Abbiamo conosciuto a sufficienza l’intolleranza e la violenza insite nella legge, quando il legislatore pretende di parlare in nome di Dio. Ma, da quella scissione, nasce la difficoltà. Se la legge ha perduto il suo fondamento mistico perché non viene (più) da un Dio, ma è fatta da uomini, perché dovremmo prestarle obbedienza? Perché uomini devono obbedire ad altri uomini? Domande semplici e risposte difficili.
Forse perché abbiamo paura di chi comanda con forza di legge? Paura delle pene, dei giudici, dei carabinieri, delle prigioni? Se così fosse, dovremmo concludere che gli esseri umani meritano solo di esseri guidati con la sferza e sono indegni della libertà. In parte, tuttavia, può essere così. In parte soltanto però, perché nessuno è mai abbastanza forte da essere in ogni circostanza padrone della volontà altrui, se non riesce a trasformare la propria volontà in diritto e l’ubbidienza in dovere. Ma dov’anche regnasse la pura forza, dove regna il terrore, dove il terrorismo è legge dello Stato, anche in questo caso ci dovrà pur essere qualcuno che, in ultima istanza, applica la legge senza essere costretto dalla minaccia della pena, perché è lui stesso l’amministratore delle pene. In breve, molti possono essere costretti a obbedire alla legge: molti, ma non tutti. Ci dovranno necessariamente essere dei costrittori che costringono senza essere costretti. Ci dovrà essere qualcuno, pochi o tanti a seconda del carattere più o meno chiuso della società, per il quale la legge vale per adesione e non per costrizione. In una società democratica, questo "qualcuno" dovrebbe essere il "maggior numero possibile".
Che cosa è, dove sta, da che cosa dipende quest’adesione? Qui, ciascuno di noi, in una società libera, è interpellato direttamente, uno per uno. Se non sappiamo dare una risposta, allora dobbiamo ammettere che seguiamo la legge solo per forza, come degli schiavi, solo perché la forza fa paura. Ma, appena esistono le condizioni per violare la legge impunemente o appena si sia riusciti a impadronirsi e a controllare le procedure legislative e si possa fare della legge quel che ci piace e così legalizzare quel che ci pare, come Semiramìs, che "a vizio di lussuria fu sì rotta, che libito fé licito in sua legge, per tòrre il biasmo in che era condotta" (Inferno, V), allora della legge e di coloro che ancora l’invocano ci si farà beffe.
Possiamo dire, allora, che la forza della legge, se non si basa - sia permesso il banale gioco di parole - sulla legge della forza, si basa sull’interesse? Quale interesse? La moralità della legge come tale, indipendentemente da ciò che prescrive, dovrebbe stare nell’uguaglianza di tutti, nel fatto che ciascuno di noi può rispecchiarvisi come uguale all’altro. "La legge è uguale per tutti" non è soltanto un ovvio imperativo, per così dire, di "giustizia distributiva del diritto". È anche la condizione prima della nostra dignità d’esseri umani. Io rispetto la legge comune perché anche tu la rispetterai e così saremo entrambi sul medesimo piano di fronte alla legge e ciascuno di noi di fronte all’altro. Ci potremo guardare reciprocamente con lealtà, diritto negli occhi, perché non ci sarà il forte e il debole, il furbo e l’ingenuo, il serpente e la colomba, ma ci saranno leali concittadini nella repubblica delle leggi.
Questa risposta alla domanda circa la forza della legge è destinata, per lo più, ad apparire una pia illusione che solo le "anime belle", quelle che credono a cose come la dignità, possono coltivare. È pieno di anime che belle non sono, che si credono al di sopra della legge - basta guardarsi intorno, anche solo molto vicino a noi - e che proprio dall’esistenza di leggi che valgono per tutti (tutti gli altri), traggono motivo e strumenti supplementari per le proprie fortune, economiche e politiche. Sono questi gli approfittatori della legge, free riders, particolarmente odiosi perché approfittano (della debolezza o della virtù civica) degli altri: per loro, "le leggi sono simili alle ragnatele; se vi cade dentro qualcosa di leggero e debole, lo trattengono; ma se è più pesante, le strappa e scappa via" (parole di Solone; in versione popolare: "La legge è come la ragnatela; trattiene la mosca, ma il moscone ci fa un bucone"). Anche per loro c’è interesse alla legalità, ma la legalità degli altri. Poiché gli altri pagano le tasse, io, che posso, le evado. Poiché gli altri rispettano le procedure per gli appalti, io che ho le giuste conoscenze, vinco la gara a dispetto di chi rispetta le regole; io, che ho agganci, approfitto del fatto che gli altri devono attendere il loro turno, per passare per primo alla visita medica che, forse, salva la mia vita, ma condanna quella d’un altro; io, che posso manovrare un concorso pubblico, faccio assumere mio figlio, al posto del figlio di nessuno che, poveretto, è però più bravo del mio; io, che ho il macchinone, per far gli affari miei sulla strada, approfitto dei divieti che chi ha la macchinina rispetta; io, che posso farmi le leggi su misura, preparo la mia impunità nei casi in cui, altrui, vale la responsabilità.
L’ultimo episodio della vita di Socrate, alle soglie dell’autoesecuzione (la cicuta) della sentenza dell’Areopago che l’aveva condannato a morte, è l’incontro con Le Leggi. Le Leggi gli parlano. Qual è il loro argomento? Sei nato e hai condotto la tua vita con noi, sotto la nostra protezione nella città. Noi ti abbiamo fatto nascere, ti abbiamo cresciuto, nutrito ed educato, noi ti abbiamo permesso d’avere moglie e figli che cresceranno come te con noi. Tutto questo con tua soddisfazione. Infatti, non te ne sei andato altrove, come ben avresti potuto. E ora, vorresti ucciderci, violandoci, quando non ti fa più comodo? Così romperesti il patto che ci ha unito e questo sarebbe l’inizio della rovina della città, le cui leggi sarebbero messe nel nulla proprio da coloro che ne sono stati beneficiati.
Le Leggi platoniche, parlando così, chiedono ubbidienza a Socrate in nome non della paura né dell’interesse, ma per un terzo motivo, la riconoscenza. Il loro discorso, però, ha un presupposto: noi siamo state leggi benigne con te. Ma se Le Leggi fossero state maligne? Se avessero permesso o promosso l’iniquità e non avessero impedito la sopraffazione, avrebbero potuto parlare così? Il caso non poteva porsi in quel tempo, quando le leggi - l’abbiamo visto all’inizio - erano opera degli Dei. Oggi, sono opera degli uomini. Dagli uomini esse dipendono e dagli uomini dipende quindi se possano o non possano chiedere ubbidienza in nome della riconoscenza.
Certo: abbiamo visto che l’esistenza delle leggi non esclude che vi sia chi le sfrutta e viola per il proprio interesse, a danno degli altri. Ma il compito della legge, per poter pretendere obbedienza, è di contrastare l’arroganza di chi le infrange impunemente e di chi, quando non gli riesce, se ne fa una per se stesso. Se la legge non contrasta quest’arroganza o, peggio, la favorisce, allora non può più pretendere né riconoscenza né ubbidienza. Il disprezzo delle leggi da parte dei potenti giustifica analogo disprezzo da parte di tutti gli altri. L’illegalità, anche se all’inizio circoscritta, è diffusiva di se stessa e distruttiva della vita della città. Tollerarla nell’interesse di qualcuno non significa metterla come in una parentesi sperando così che resti un’eccezione, ma significa farne l’inizio di un’infezione che si diffonde tra tutti.
Qui è la grande responsabilità, o meglio la grande colpa, che si assumono coloro che fanno leggi solo per se stessi o che, avendo violate quelle comuni, pretendono impunità. Contrastare costoro con ogni mezzo non è persecuzione o, come si dice oggi, "giustizialismo", ma è semplicemente legittima difesa di un ordine di vita tra tutti noi, di cui non ci si debba vergognare.
Questo testo sarà letto stasera da Gustavo Zagrebelsky
al Teatro della Corte di Genova, nel corso
del primo incontro del ciclo "Fare gli italiani - Grandi Parole alla ricerca
dell’identità nazionale"
© la Repubblica, 01 marzo 2010
Norma e diritto, da Platone a Brecht
Il nuovo saggio di Gustavo Zagrebelsky ricerca le fonti della giustizia
Non deve esserci un’idea astratta che governa ma il rifiuto dell’ingiustizia
La Costituzione è la condizione basilare della democrazia che scaturisce dalla dialettica sociale
di Roberto Esposito (la Repubblica, 10.11.2009)
"Che cosa è la legge?" - chiede il giovane Alcibiade al saggio Pericle nei Memorabili di Senofonte, ricevendone una risposta tutt’altro che soddisfacente.
Se essa è "tutto ciò che chi comanda, dopo aver deliberato, fa mettere per iscritto", cosa la differenzia da una semplice imposizione? Qual è la sua fonte di legittimità e quali i suoi effetti sulla vita associata? In forza di cosa, in definitiva, essa è legge - di un comando divino o di una decisione umana, di una necessità naturale o di un principio di ragione?
E’ la stessa domanda che lega i saggi di Gustavo Zagrebelsky in un libro affascinante, appena edito da Einaudi, che coniuga la tensione della ricerca sul campo - sperimentata nella lunga attività di giudice costituzionale - alla misura, ormai classica, di una scrittura limpida e coinvolgente. Il suo titolo, Intorno alla legge (pagg.409, euro 22), non allude solo all’argomento trattato, ma, in senso più letterale, al periplo argomentativo, ricco di riferimenti filosofici, antropologici, letterari, con cui l’autore si approssima ad esso per cerchi concentrici, fino a penetrarne il nucleo incandescente.
Anziché definita in quanto tale, la legge è interrogata a partire dai suoi presupposti e dalla sua ulteriorità - lungo i margini sottili che la congiungono, ma insieme la distinguono da ciò che la precede e da ciò che la eccede, vale a dire da un lato dal diritto e dall’altro dalla giustizia.
Quanto al primo, la legge - intesa come la regola formale che determina i nostri comportamenti - è lungi dall’esaurire quel complesso di norme e consuetudini, di vincoli e pratiche che una lunga tradizione ha chiamato "diritto". Naturalmente il passaggio dall’antico diritto alla moderna legge - di cui l’Antigone di Sofocle rappresenta in modo insuperato la tragica problematicità - costituisce una svolta irreversibile nei confronti di una concezione non più in grado di organizzare razionalmente la relazione tra gli uomini. Ma non al punto di cancellare la memoria di un ordine non ancora chiuso nella rigidezza formale di comandi e divieti, ancora aderente al flusso magmatico della vita associata.
Anche quando, nei primi secoli della modernità, l’equilibrio tra i due mondi si spezza a favore della legge, ormai saldamente insediata al centro della civiltà giuridica, resta l’esigenza di non perdere del tutto i contatti con quell’origine da cui essa trae la propria linfa ed il proprio significato.
Lo stesso nesso problematico che la lega al diritto rapporta la legge, in maniera sempre difettiva, all’esigenza universale della giustizia. Qui il contrasto tra principio e realtà è ancora più stridente.
Se la giustizia assoluta è inattingibile dalla legge, se questa non obbliga perché giusta ma solo perché legge, da dove trae la propria legittimità sostanziale? Cosa la distingue da un comando arbitrario? D’altra parte tutte le volte che la legge ha sorpassato i propri limiti costitutivi, proclamandosi giusta per decreto divino o secondo natura, ha prodotto esiti negativi se non anche catastrofici. Volendo portare sulla terra il paradiso, l’ha consegnata all’inferno. L’unico rapporto possibile con la giustizia, da parte della legge, è individuato da Zagrebelsky non in un’idea astratta e artificiale della ragione, ma in un sentimento di rifiuto nei confronti dell’ingiustizia palese.
Qui l’autore torna a riproporre l’antitesi, già formulata in opere precedenti, tra logica dei valori e semantica dei principi. Pur ponendosi gli stessi obiettivi - dalla protezione della vita alla salvaguardia della natura, dalla difesa dei diritti alla diffusione della cultura - valori e principi divergono nella modalità con cui si presentano. Mentre i primi esprimono criteri morali assoluti e dunque sottratti al confronto, i secondi sono norme aperte, modelli di orientamento, destinati a favorire l’integrazione sociale. Perciò essi sono, o vanno posti, alla base delle moderne costituzioni.
Arriviamo così al cuore stesso del libro, in cui il discorso di Zagrebelsky si articola in un quadro fitto di riferimenti alla storia del diritto costituzionale ma anche di rimandi a Platone e a Sofocle, a Shakespeare e a Dostoevkij, a Canetti e a Brecht - ad ulteriore riprova che i veri problemi del diritto non giacciono inerti nei codici o nelle decisioni dei giudici, ma nella falda profonda che essi interpretano in forma sempre precaria e provvisoria.
La costituzione, oltre che come garanzia della legittimità e dei limiti dei poteri all’interno dello Stato, va intesa, in senso culturale, come luogo di confluenza, e di rielaborazione, di quell’insieme di valori, aspirazioni, sensibilità collettive che costituiscono l’orizzonte razionale ed emozionale della convivenza. In questo senso, nella sua capacità di tenere insieme punti di vista diversi, essa travalica di gran lunga i confini formali del diritto positivo, per diventare la condizione basilare della democrazia pluralista. Non solo, ma anche un punto d’incrocio decisivo tra le dimensioni del tempo e dello spazio.
Da questo punto di vista la dottrina costituzionale cui Zagrebelsky si richiama non costituisce soltanto una variante rispetto ai tanti modelli precedenti, bensì un vero e proprio cambio di paradigma. Assumere la costituzione non più come norma sovrana, ma come norma fondamentale scaturita dall’intera dialettica sociale, vuol dire situarla in rapporto da un lato con la storia e dall’altro con la nuova configurazione globale del mondo contemporaneo. Anziché modello fisso e immutabile, o anche atto creativo volto ad istituire un ordine completamente nuovo, la costituzione è quella linea di continuità capace di collegare in un nodo complesso passato e futuro. Di attivare una dinamica storica non racchiusa nei confini di un singolo Stato, ma aperta alle richieste che arrivano da un mondo sempre più unito dalle stesse angosce e dalle stesse speranze.
Il potere
Modelli
Strategie politiche e rapporti di collaborazione tra categorie sociali nell’antichità: un sistema solo in apparenza contraddittorio
Quando i ricchi guidano il popolo: nasce la democrazia aristocratica
La sfida (riuscita) di Pericle nell’Atene del V secolo a.C.
di Luciano Canfora (Corriere della sera, 11.10.2008)
In Atene, l’estensione della cittadinanza ai non possidenti ha determinato una importante dinamica ai vertici del sistema. I gruppi dirigenti - questo non va mai dimenticato - sono e restano esponenti delle classi alte, delle due più ricche classi di censo. Sia gli strateghi che, ovviamente, gli ipparchi (cioè i magistrati militari, coloro che detengono il vero potere politico nella città), nonché gli ellenotami (i quali amministrano il tesoro della lega e controllano le finanza), provengono da quelle classi. A sorte sono eletti i «buleuti», i componenti del Consiglio (composto di 500 persone, 50 per ciascuna delle dieci tribù create da Clistene). A sorte: e dunque in modo da consentire a qualunque cittadino di entrare a far parte del consesso, e, secondo il turno, di occupare sia pure per breve tempo il ruolo equivalente alla «presidenza » della Repubblica. Anche le liste annue di circa seimila cittadini da cui trarre i giudici che avrebbero composto le varie corti erano liste composte di volontari, senza preclusioni di ceto. E tutti sanno quale importante ruolo svolgessero i tribunali nello scontro sociale quotidianamente in atto e avente come oggetto, quasi sempre, l’uso della ricchezza.
Nondimeno la prevalenza dei ceti più forti e più ricchi nella direzione politica della città era indiscutibile. In non piccola parte, i ricchi, i «signori» hanno accettato il sistema lealmente e hanno accettato di dirigerlo, o per meglio dire ne hanno naturaliter assunto la direzione. Pericle, Alcibiade, Nicia, Cleone, per fare solo i nomi più celebri, sono o ricchi o nobili, o le due cose insieme. Quale che sia il valore della furiosa caricatura di Cleone ossessivamente sbandierata da Aristofane, anche Cleone è della classe dei cavalieri, una delle due più alte classi di censo.
Guidavano o erano guidati? Gli stessi autori contemporanei su ciò si dividono. L’autore della Costituzione degli Ateniesi dichiara senza sfumature che i non popolani che accettano il sistema democratico sono essi stessi delle canaglie, dei criminali che hanno qualcosa da nascondere ( II, 20): «Ma io al popolo la democrazia gliela perdono! È comprensibile che ciascuno voglia giovare a se stesso. Ma chi pur non essendo di origine popolare accetta di fare politica in una città governata dal popolo piuttosto che in una retta dagli oligarchi, costui è pronto ad ogni mala azione e sa bene che gli sarà più facile occultare la sua natura canagliesca in una città democratica, anziché in una oligarchica».
Da queste battute si capisce qual è la sua scelta: di totale contrapposizione. Ma egli sente di appartenere ad una minoranza. Se si considera del resto un personaggio gigantesco ed emblematico come Pericle, è istruttivo osservare che per Tucidide egli è l’anti-demagogo per eccellenza, colui che guida e non si fa guidare, colui che sa andare contro corrente in contrasto con gli impulsi, o istinti, popolari (II, 65), laddove per Platone (Gorgia) Pericle è l’incarnazione stessa della demagogia, uno dei grandi «corruttori» del popolo, da lui assecondato e appunto perciò corrotto. Per Tucidide, Pericle è talmente anti-demagogico nella conduzione della cosa pubblica da essere definibile col termine di «principe» e - quel che è più - da rendere legittimo affermare che sotto il suo governo solo nominalmente c’era ad Atene «democrazia». Peraltro quando gli dà la parola nell’importante discorso per i morti nel primo anno di guerra, Tucidide fa dire a Pericle che ad Atene governa «la legge», mentre Senofonte - un altro socratico - nei Memorabili gli fa dire che in democrazia è in ultima analisi la volontà del popolo che conta, anche al di sopra della legge. E comunque la forza della demagogia era reputata dallo stesso Tucidide tale da indurlo ad un giudizio molto bilanciato intorno al rapporto tra Pericle e la massa dei frequentatori dell’assemblea: «Non era guidato da loro più di quanto egli stesso non li guidasse». In queste parole, dette a proposito di colui che Tucidide non esita poco dopo a definire «principe» della città, vi è un serio riconoscimento dell’inevitabilità comunque di «essere condotto» (àgesthai) quando si fa politica alle prese con la «massa popolare » (plethos).
Arduo è dunque riuscire a dare un’idea corretta dell’intreccio di interessi, compromessi, reciproche concessioni, tra «signori» (leaders, grandi famiglie) e «popolo» nel quadro della democrazia ateniese. Non si trascurerà il fattore personale e soggettivo. L’autorità, l’abilità, il prestigio di Pericle non erano disgiunti dall’uso disinvolto e «demagogico» (secondo i suoi avversari) delle risorse economiche della città. Comunque non è errato assumere come fondato il punto di vista tucidideo e vedere in Pericle il leader capace di egemonia e perciò anche pronto all’impopolarità. Peraltro l’unico vero discorso politico che Tucidide fa pronunciare a Cleone è, anch’esso, un discorso che non arretra dinanzi ai toni impopolari. Si dovrebbe dunque dire, a giudicare da quel discorso, che anche Cleone «guidava più che essere guidato»: al punto che Demostene, nel secolo seguente, fa propri quei toni quando vuol assumere le vesti «periclee» dell’impopolare «educatore del popolo». Forse non si riuscirà mai a scavare fino in fondo nell’intreccio capi/popolo, leader/ masse: una «circolarità» in cui risiede l’essenza stessa del far politica. Quel che è qui importante rilevare è che la democrazia non determina ad Atene un «governo popolare», ma una guida del «regime popolare » da parte di quella non piccola porzione dei «ricchi» e dei «signori» che accettano il sistema.
Orbene il fenomeno dinamico e lacerante innescato dalla democrazia (dalla estensione della cittadinanza ai non possidenti) è questo: di fronte al fatto nuovo del potere dei non possidenti, i gruppi dirigenti, coloro che per elevata collocazione sociale sono anche i detentori dell’educazione politica e perciò possiedono l’arte della parola (e in virtù di queste capacità naturalmente si candidano a dirigere la città) si dividono. Una parte - si direbbe la più rilevante, ma non abbiamo strumenti di controllo «quantitativo» - accetta di dirigere il sistema di cui i non possidenti sono ormai forza prevalente. Da questa consistente parte dei ceti alti (grandi famiglie, ricchi cavalieri eccetera) vien fuori il ceto politico che dirige la città: da Clistene a Cleone. Al loro interno si sviluppa una dialettica politica spesso fondata sullo scontro personale, di prestigio, di potere, di leadership.
Ciascuno è sorretto e guidato dal convincimento di incarnare gli interessi generali; l’idea che la propria prevalenza sulla scena politica sia anche il miglior veicolo per la miglior conduzione della comunità. Lottano gli uni contro gli altri per conquistare la guida politico- militare della città. Nessuno di loro è contro il «sistema»: sono dunque «democratici» (nel senso che, appunto, accettano il sistema, stanno al gioco e puntano a dirigerlo) tanto Pericle quanto Cimone, Nicia e Cleone, e Alcibiade.
Al contrario una minoranza di «signori» non accetta il sistema. Organizzati in formazioni più o meno segrete («eterìe»), essi costituiscono una perenne minaccia potenziale per il «sistema», del quale spiano le possibili incrinature, soprattutto nei momenti di difficoltà militare. Sono i cosiddetti «oligarchi».