“L’uomo non è che una canna, la più fragile di tutta la natura; ma è una canna pensante. Non occorre che l’universo intero si armi per annientarlo: un vapore, una goccia d’acqua è sufficiente per ucciderlo. Ma quand’anche l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe pur sempre più nobile di chi lo uccide, dal momento che egli sa di morire e il vantaggio che l’universo ha su di lui; l’universo non sa nulla. Tutta la nostra dignità sta dunque nel pensiero. E’ in virtù di esso che dobbiamo elevarci, e non nello spazio e nella durata che non sapremmo riempire. Lavoriamo dunque a ben pensare: ecco il principio della morale”.
Pascal
Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce: lo si osserva in mille cose *
144. Noi conosciamo la Verità non soltanto con la ragione, ma anche con il cuore. In quest’ultimo modo conosciamo i princípi primi; e invano il ragionamento, che non vi ha parte, cerca d’impugnare la certezza. I pirroniani, che non mirano ad altro, vi si adoperano inutilmente. Noi, pur essendo incapaci di darne giustificazione razionale, sappiamo di non sognare; e quell’incapacità serve solo a dimostrare la debolezza della nostra ragione, e non come essi pretendono, l’incertezza di tutte le nostre conoscenze. Infatti, la cognizione dei primi princípi - come l’esistenza dello spazio, del tempo, del movimento, dei numeri -, è altrettanto salda di qualsiasi di quelle procurateci dal ragionamento. E su queste conoscenze del cuore e dell’istinto deve appoggiarsi la ragione, e fondarvi tutta la sua attività discorsiva. (Il cuore sente che lo spazio ha tre dimensioni e che i numeri sono infiniti; e la ragione poi dimostra che non ci sono due numeri quadrati l’uno dei quali sia doppio dell’altro. I princípi si sentono, le proposizioni si dimostrano, e il tutto con certezza, sebbene per differenti vie). Ed è altrettanto inutile e ridicolo che la ragione domandi al cuore prove dei suoi primi princípi, per darvi il proprio consenso, quanto sarebbe ridicolo che il cuore chiedesse alla ragione un sentimento di tutte le proposizioni che essa dimostra, per indursi ad accettarle.
Questa impotenza deve, dunque, servire solamente a umiliare la ragione, che vorrebbe tutto giudicare, e non a impugnare la nostra certezza, come se solo la ragione fosse capace d’istruirci. Piacesse a Dio, che, all’opposto, non ne avessimo mai bisogno e conoscessimo ogni cosa per istinto e per sentimento! Ma la natura ci ha ricusato un tal dono; essa, per contro, ci ha dato solo pochissime cognizioni di questa specie; tutte le altre si possono acquistare solo per mezzo del ragionamento.
Ecco perché coloro ai quali Dio ha dato la religione per sentimento del cuore sono ben fortunati e ben legittimamente persuasi. Ma a coloro che non l’hanno, noi possiamo darla solo per mezzo del ragionamento, in attesa che Dio la doni loro per sentimento del cuore: senza di che la fede è puramente umana, e inutile per la salvezza.
146. Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce: lo si osserva in mille cose. Io sostengo che il cuore ama naturalmente l’Essere universale, e naturalmente se medesimo, secondo che si volge verso di lui o verso di sé; e che s’indurisce contro l’uno o contro l’altro per propria elezione. Voi avete respinto l’uno e conservato l’altro: amate forse voi stessi per ragione?
* B. Pascal, Pensieri, a cura di P. Serini, Einaudi, Torino, 1967, pagg. 58-59.
Cinema & filosofia:
Blaise Pascal - il film diretto da Roberto Rossellini nel 1971.
Filosofia.
Dopo Steve Jobs meglio tornare a Pascal e alle ragioni del cuore
Edizione completa per l’opera omnia del grande pensatore del Seicento. Il digitale doveva liberare l’uomo ma oggi vediamo che bisogna ripartire da lontano
di Giuseppe Bonvegna (Avvenire, mercoledì 30 dicembre 2020)
Il primo ventennio del XXI secolo sta per chiudersi con la notizia di fine ottobre che il Trattato del 2017 delle Nazioni Unite sulla proibizione delle armi nucleari ha raggiunto i 50 Stati firmatari, cioè la soglia necessaria per entrare effettivamente in vigore: a settantacinque anni da Hiroshima assistiamo dunque a una nuova battuta d’arresto alla cosiddetta “Storia forte” con l’iniziale maiuscola, dopo lo stop impostole il 26 dicembre 1991 con la fine dell’Unione Sovietica. Se non fosse che nella stanza dei bottoni di quella Storia, occupata fino a inizio anni Novanta del Novecento dalle vecchie ideologie e partiti politici, si trovano adesso la globalizzazione e i suoi effetti negativi che stiamo attualmente pagando col Covid. Nonostante il crollo del primo e principale regime socialcomunista e la conseguente fine di quell’era di grandi cataclismi che fu il “secolo breve”, l’uomo non ha insomma smesso di tentare di superare sé stesso con la propria ragione, volendo a tutti i costi conferire un significato agli eventi a prescindere dalla Rivelazione.
Eppure, la recente pubblicazione per Bompiani della prima traduzione italiana delle Opere complete di Blaise Pascal, a cura di Maria Vita Romeo (pagine 3200, euro 70,00), consente, adesso anche nel nostro Paese, di riaccostarsi alla riflessione di colui che Augusto Del Noce considerava una delle pietre miliari della filosofia spiritualista cristiana europea del XVII secolo e di tutta l’epoca moderna (e non solo). Vale a dire di quel filone culturale della modernità che diede vita non al sogno razionalistico e idealistico di trasformare il mondo attraverso la ragione e la tecnica, ma piuttosto al tentativo di continuare a comprendere il mondo sulla scia dell’insegnamento degli antichi e dei medioevali: anche a costo di dover rinunciare a cambiare il mondo. E nella convinzione non certo di una totale inutilità o persino nocività dei cambiamenti tecnici in quanto tali, ma piuttosto del fatto che, prima di cambiare le cose, bisogna almeno tentare di capirle. Nella loro sostanza, diceva Aristotele. Nel loro limite, ci dice Pascal, molto probabilmente volendo esprimere un concetto simile a quello della sostanza aristotelica... I nomi dei moderni Nicolas Malebranche, Giambattista Vico, Antonio Rosmini, John Henry Newman hanno quindi adesso la possibilità, anche grazie all’edizione italiana degli scritti pascaliani, di essere riproposti, dopo Chernobyl e durante il Covid, nella loro veste di grandi commentatori di una delle più note frasi di Pascal: «il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce».
Riprendendo Paul Ricoeur, uno dei filosofi contemporanei che può essere considerato l’erede di quelle riflessioni, quando scriveva che la filosofia consiste nel «ricordarsi per incominciare», possiamo affermare che l’odierna società globalizzata ha sconfitto la memoria del tempo che passa. E quindi ha sconfitto anche il cuore, che, come diceva sant’Agostino, è il luogo del tempo inteso come misurazione degli eventi passati e futuri. Possiamo viaggiare ovunque con lo smartphone, ma senza più sapere chi siamo, perché siamo rimasti senza memoria e senza cuore... Con buona pace di Steve Jobs che, lanciando l’i-Pod nel 2001 e dando avvio alla quarta rivoluzione industriale del cosiddetto “digitale”, pare abbia affermato trattarsi di uno strumento che mirava al cuore delle persone. Se infatti già la terza rivoluzione industriale, partita verso la fine degli anni Settanta del Novecento dai primi personal computer, aveva un volto problematico, ciò vale soprattutto proprio per la quarta: è quello che Michel Foucault, ancora all’avvio della terza, aveva descritto come la riduzione del cuore a collettore di informazioni provenienti dalla società comunicativa dell’enorme spazio del mondo fatto entrare facilmente nella propria camera. Tuttavia, questo scacco che la razionalità postmoderna ha dato a se stessa può forse essere superato, lasciandosi alle spalle (anche solo per un attimo) gli autori del problema: tornando quindi da Steve Jobs a Pascal e ad Agostino. In fondo, il libro cartaceo è uno di quei prodotti che sembra non temere la concorrenza di qualunque altro tipo di industria. Ormai da secoli, ma anche (e forse soprattutto) oggi, quando pare avere la meglio anche con l’ebook...
L’ORAZIONE SULLA DIGNITA’ DELL’UOMO - A UNA DIMENSIONE.
Da Giovanni Pico della Mirandola* a Herbert Marcuse** e ...
CARO ARMANDO, PER IMPARARE "a vivere meglio senza lasciarci condizionare dalla paura della morte, cioè dalla religione, qualunque essa sia", CREDO CHE SIA NECESSARIO riconsiderare il problema di "come nascono i bambini" (a tutti i livelli)! Hai ragione: "Non possiamo permetterci, con le Sibille, Maria Vergine, Cristo come dio, Maometto ed altre favolette l’illusione di un altro Messia"! Ci siamo addormentati nella tradizione cattolico-costantiniana e illuministica acritica (contro Kant), e abbiamo finito per "concepire" noi stessi e noi stesse secondo la bio-logia e l’andro-logia “unidimensionale” dell’omuncolo!
L’«ECCE HOMO» di Ponzio Pilato, al contrario!, ci dice proprio questo - la fine delle "favolette" e di ogni "illusione di un altro Messia". Il discorso è di diritto e di fatto, romanamente universale, vale a dire, antropologico (non limitato all’«omuncolo» di qualche "uomo supremo" o “superuomo”!):
SE SIAMO ANCORA CAPACI DI LEGGERE, COSA VA SIGNIFICANDO NEL TEMPO LA LEZIONE DI PONZIO PILATO?! Non è una lezione critica contro i "sovranisti" laici e religiosi di ieri e di oggi?!
Che vogliamo fare? Continuare a riportare noi stessi e noi stesse davanti a Pilato e ripetere da scemi e da sceme la stessa scena, riascoltare il suo "Ecce Homo" e non capire una "H" (acca)?!
P.S. - RICORDANDO ... GLI ARCADI DI TERRA D’OTRANTO, VIRGILIO, E IL “VECCHIO DI CORICO”. A SOLLECITAZIONE E CONFORTO DELL’IMPRESA.
ASTREA! “IAM REDIT ET VIRGO” ...
CARO ARMANDO... RICORDANDO DI NUOVO E ANCORA IL TUO PREGEVOLISSIMO LAVORO SU- GLI ARCADI DI TERRA D’OTRANTO, VIRGILIO, E IL “VECCHIO DI CORICO”. A SOLLECITAZIONE E CONFORTO DELL’IMPRESA (si cfr. https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/08/gli-arcadi-di-terra-dotranto-premessa-1-x/#comment-238474), E LA TUA CONNESSIONE TRA LA “PIZANA” CAPACE DI “CONDURRE LE NAVI” CON LA FIERA E NOBILE Carola RacKete, A SUO E TUO OMAGGIO, riprendo qui una breve scheda su:
ASTREA - L’Astraea Virgo, ” vergine delle stelle “, simbolo della giustizia, abitò la terra nell’età dell’oro e la lasciò per ultima nell’età del ferro, cedendo all’iniquità ormai dominante. Il ‛ritorno di A. ‘ si identifica in Virgilio con il ritorno dell’età di Saturno (” magnus ab integro saeclorum nascitur ordo. / iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna, / iam nova progenies caelo demittitur alto “, Buc. IV 5-7). L’intero passo virgiliano è parafrasato in Pg XXII 70-72 Secol si rinova; / torna giustizia e primo tempo umano, / e progenïe scende da ciel nova; in Mn I XI 1 è riportato il v. 6 (cui segue la chiosa ‛ Virgo ‘... vocabatur iustitia, quam etiam ‛ Astraeam ‘ vocabant), ricordato anche in Ep VII 6; in Ep XI 15 il nome di A. è usato come metonimico di giustizia (http://www.treccani.it/enciclopedia/astrea_%28Enciclopedia-Dantesca%29/).
Buon 8 marzo 2020 - e buon lavoro...
NICODEMO 0 DELLA NASCITA: "SE NON RIDIVENTERETE COME I BAMBINI, NON ENTRERETE NEL REGNO DEI CIELI" (Mt. 18, 3). *
Luca, l’evangelista delle donne (blog di Gianfranco Ravasi, Cardinale arcivescovo e biblista)
Il caso della donna dai sette mariti
di Gianfranco Ravasi (Famiglia Cristiana, 16 maggio 2019)
Siamo in pieno periodo pasquale ed è quindi significativo affrontare un tema connesso con la risurrezione, un argomento che già ai tempi di Gesù era oggetto di dispute con posizioni antitetiche. Noi consideriamo il soggetto secondo un curioso profilo femminile. Si tratta di un caso estremo ipotetico che gli avversari propongono a Gesù per metterlo in difficoltà (l’episodio, citato anche da Matteo e Marco, è da leggere in Luca 20,27-40). Nell’Antico Testamento era codificata una prassi secondo la quale, se un uomo sposato decedeva senza figli, l’eventuale fratello ne doveva sposare la vedova, così da assicurare una discendenza e una memoria al defunto.
Si trattava del cosiddetto “levirato” (dal latino levir, “cognato”), come facilmente si può comprendere da chi era coinvolto in questa normativa (Deuteronomio 25,5-10). Il nostro compito ora è spiegare il caso limite addotto dagli avversari di Gesù appartenenti alla corrente aristocratico-conservatrice dei sadducei a prevalenza sacerdotale. Essi negavano la risurrezione perché tale dottrina, pur presente nella Bibbia (si veda Ezechiele 37), era assente nella Torah (la Legge), ossia nei primi cinque libri della Sacra Scrittura.
Essi puntano a mettere in imbarazzo il rabbì di Nazaret prospettandogli una catena di “levirati” che hanno per protagonista una sola donna: ben sette fratelli subentrano in matrimoni successivi, morendo però tutti prima di aver assicurato una discendenza alla vedova e, quindi, al loro primo fratello defunto. Il paradosso fittizio è introdotto per costringere Gesù a schierarsi con loro contro i farisei - l’altra corrente giudaica avversaria - negando la risurrezione che questi ultimi sostenevano come dottrina di fede. Infatti, sogghignando, alla fine gli domandano: «Alla risurrezione, di quale dei sette la donna sarà moglie?».
Cristo, nella sua risposta, non cade nel tranello e replica volando alto: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio» (Luca 20,34-36). Egli nega, così, una lettura “materialistica” della risurrezione. E aggiunge una motivazione teologica ulteriore, citando un passo dell’incontro di Mosè con il Signore al roveto ardente del Sinai: «Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui» (Luca 20,37-38; cf. Esodo 3,6).
Dio non si lega a cadaveri, ma a esseri viventi ai quali apre un orizzonte di vita oltre la morte secondo categorie differenti rispetto a quelle meramente “carnali”, basate sulla nostra storia che si muove sulla base delle coordinate spazio-temporali. Si tratta di un nuovo ordine di rapporti, di una nuova creazione, di un orizzonte nel quale i vincoli parentali e sociali sono trasfigurati. Queste parole di Gesù avevano conquistato quel grande filosofo e scienziato credente che fu Blaise Pascal. A partire dal 1654 fino alla morte (1662) egli le portò sempre con sé, scritte su un foglio, cucito nella fodera del farsetto, intitolato “Fuoco”, e scoperto alla morte del pensatore da un domestico.
Eccone il testo modulato sulle parole di Gesù, commentate liberamente da Pascal: «Dio d’Abramo, Dio d’Isacco, Dio di Giacobbe, non dei filosofi e dei dotti. Certezza, certezza. Sentimento. Gioia. Pace. Dio di Gesù Cristo. Dio mio e Dio vostro. Il tuo Dio sarà il mio Dio. Oblio del mondo e di tutto fuorché di Dio. Egli non si trova se non per le vie indicate dal Vangelo».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
L’EUROPA IN CAMMINO - SULLA STRADA DI GOETHE O DI ENZO PACI (“NICODEMO O DELLA NASCITA”, 1944)?!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
Federico La Sala
Chiesa Francia apre a riconoscimento figli sacerdoti
Le Monde, incontro segreto a febbraio, a giugno vedranno vescovi
di Redazione ANSA *
PARIGI. Apertura senza precedenti della Chiesa cattolica francese verso il riconoscimento dei figli di sacerdoti, secondo quanto annuncia oggi Le Monde. Stando a informazioni del quotidiano, alcuni figli di preti sono stati ricevuti per la prima volta da un responsabile ecclesiastico francese e a giugno testimonieranno davanti ad alcuni vescovi.
Tre figli di sacerdoti, membri dell’associazione francese Les Enfants du silence (in tutto una cinquantina di figli di preti) sono stati ricevuti per la prima volta - su loro domanda - da un responsabile ecclesiastico.
L’incontro, fin qui segreto, si è svolto il 4 febbraio a Parigi, nella sede della Conferenza episcopale di Francia (CEF). Per un’ora e mezzo, ad ascoltare la loro testimonianza, finora un tabù per la Chiesa, è stato il segretario generale, Olivier Ribadeau-Dumas. Una discussione "cordiale e costruttiva" secondo quanto spiegato dall’interessato, che ha ascoltato le "sofferenze" di questi uomini e donne abituati ad essere educati in una sorta di sentimento di vergogna e nel segreto, come "figli del peccato". Sempre secondo il quotidiano, gli esponenti di Les Enfants du Silence, "testimonieranno a giugno davanti ad alcuni vescovi".
PIANETA TERRA, 2017 - RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!:
Scalfari intervista Francesco: "Il mio grido al G20 sui migranti"
Colloquio con il Papa a Santa Marta: "Temo il pericolo di alleanze pericolose tra Potenze. Noi, lei lo sa bene, abbiamo come problema principale e purtroppo crescente nel mondo d’oggi, quello dei poveri, dei deboli, degli esclusi"
di EUGENIO SCALFARI (la Repubblica, 08 luglio 2017)
GIOVEDÌ scorso, cioè l’altro ieri, ho ricevuto una telefonata da Papa Francesco. Era circa mezzogiorno e io ero al giornale, quando è squillato il mio telefono e una voce mi ha salutato: era di sua Santità. L’ho riconosciuta subito e ho risposto: Papa Francesco, mi fa felice sentirla. "Volevo notizie sulla sua salute. Sta bene? Si sente bene? Mi hanno detto che qualche settimana fa lei non ha scritto il suo articolo domenicale, ma poi vedo che ha ripreso".
Santità, ho tredici anni più di lei. "Sì, questo lo so. Deve bere due litri d’acqua al giorno e mangiare cibo salato". Sì lo faccio. Sono seguiti altri suoi consigli ma io l’ho interrotto dicendo: è un po’ che non ci parliamo, vorrei venire a salutarla, vado in vacanza tra pochi giorni ed è parecchio che non ci vediamo. "Ha ragione, lo desidero anche io. Potrebbe venire oggi? Alle quattro?". Ci sarò senz’altro.
Mi sono precipitato a casa e alle tre e tre quarti ero nel piccolo salotto di Santa Marta. Il Papa è arrivato un minuto dopo. Ci siamo abbracciati e poi, seduti uno di fronte all’altro, abbiamo cominciato a scambiare idee, sentimenti, analisi di quanto avviene nella Chiesa e poi, nel mondo.
Il Papa viaggia incessantemente: a Roma, in Italia, nel mondo. Il tema principale della nostra conversazione è il Dio unico, il Creatore unico del nostro pianeta e dell’intero Universo. Questa è la tesi di fondo del suo pontificato, che comporta una serie infinita di conseguenze, le principali delle quali sono l’affratel-lamento di tutte le religioni e di quelle cristiane in particolare, l’amore verso i poveri, i deboli, gli esclusi, gli ammalati, la pace e la giustizia.
Il Papa naturalmente sa che io sono non credente, ma sa anche che apprezzo moltissimo la predicazione di Gesù di Nazareth che considero un uomo e non un Dio. Proprio su questo punto è nata la nostra amicizia. Il Papa del resto sa che Gesù si è incarnato realmente, è diventato un uomo fino a quando fu crocifisso. La " Resurrectio" è infatti la prova che un Dio diventato uomo solo dopo la sua morte ridiventa Dio.
Queste cose ce le siamo dette molte volte ed è il motivo che ha reso così perfetta e insolita l’amicizia tra il Capo della Chiesa e un non credente.
Papa Francesco mi ha detto di essere molto preoccupato per il vertice del "G20". "Temo che ci siano alleanze assai pericolose tra potenze che hanno una visione distorta del mondo: America e Russia, Cina e Corea del Nord, Putin e Assad nella guerra di Siria".
Qual è il pericolo di queste alleanze, Santità?
"Il pericolo riguarda l’immigrazione. Noi, lei lo sa bene, abbiamo come problema principale e purtroppo crescente nel mondo d’oggi, quello dei poveri, dei deboli, degli esclusi, dei quali gli emigranti fanno parte. D’altra parte ci sono Paesi dove la maggioranza dei poveri non proviene dalle correnti migratorie ma dalle calamità sociali; altri invece hanno pochi poveri locali ma temono l’invasione dei migranti. Ecco perché il G20 mi preoccupa: colpisce soprattutto gli immigrati di Paesi di mezzo mondo e li colpisce ancora di più col passare del tempo".
Lei pensa, Santità, che nella società globale come quella in cui viviamo la mobilità dei popoli sia in aumento, poveri o non poveri che siano?
"Non si faccia illusioni: i popoli poveri hanno come attrattiva i continenti e i Paesi di antica ricchezza. Soprattutto l’Europa. Il colonialismo partì dall’Europa. Ci furono aspetti positivi nel colonialismo, ma anche negativi. Comunque l’Europa diventò più ricca, la più ricca del mondo intero. Questo sarà dunque l’obiettivo principale dei popoli migratori".
Anch’io ho pensato più volte a questo problema e sono arrivato alla conclusione che, non soltanto ma anche per questa ragione, l’Europa deve assumere al più presto una struttura federale. Le leggi e i comportamenti politici che ne derivano sono decisi dal governo federale e dal Parlamento federale, non dai singoli Paesi confederati. Lei del resto questo tema l’ha più volte sollevato, perfino quando ha parlato al Parlamento europeo.
"È vero, l’ho più volte sollevato". E ha ricevuto molti applausi e addirittura ovazioni. "Sì, è così, ma purtroppo significa ben poco. I Paesi si muoveranno se si renderanno conto di una verità: o l’Europa diventa una comunità federale o non conterà più nulla nel mondo. Ma ora voglio farle una domanda: quali sono pregi e difetti dei giornalisti?".
Lei, Santità, dovrebbe saperlo meglio di me perché è un assiduo oggetto dei loro articoli.
"Sì, ma mi interessa saperlo da lei".
Ebbene, lasciamo da parte i pregi, ma ci sono anche quelli e talvolta molto rilevanti. I difetti: raccontare un fatto non sapendo fino a quale punto sia vero oppure no; calunniare; interpretare la verità facendo valere le proprie idee. E addirittura fare proprie le idee di una persona più saggia e più esperta attribuendole a se stesso. "Quest’ultima cosa non l’avevo mai notata. Che il giornalista abbia le proprie idee e le applichi alla realtà non è un difetto, ma che si attribuisca idee altrui per ottenere maggior prestigio, questo è certamente un difetto grave".
Santità, se me lo consente ora vorrei io porle due domande. Le ho già prospettate un paio di volte nei miei recenti articoli, ma non so come Lei la pensa in proposito. "Ho capito, lei parla di Spinoza e di Pascal. Vuole riproporre questi suoi due temi?".
Grazie, comincio dall’Etica di Spinoza. Lei sa che di nascita era ebreo, ma non praticava quella religione. Arrivò nei Paesi Bassi provenendo dalla sinagoga di Lisbona. Ma in pochi mesi, avendo pubblicato alcuni saggi, la sinagoga di Amsterdam emise un durissimo editto nei suoi confronti. La Chiesa cattolica per qualche mese cercò di attirarlo nella sua fede. Lui non rispondeva e aveva disposto che i suoi libri fossero pubblicati soltanto dopo la sua morte. Nel frattempo però alcuni suoi amici ricevevano copie dei libri che andava scrivendo. L’Etica in particolare, arrivò a conoscenza della Chiesa la quale immediatamente lo scomunicò. Il motivo è noto: Spinoza sosteneva che Dio è in tutte le creature viventi: vegetali, animali, umani. Una scintilla di divino è dovunque. Dunque Dio è immanente, non trascendente. Per questo fu scomunicato.
"E a lei non sembra giusto. Perché? Il nostro Dio unico è trascendente. Anche noi diciamo che una scintilla divina è dovunque, ma resta immune la trascendenza, ecco il perché della scomunica che gli fu impartita". E a me sembra, se ben ricordo anch’io, su sollecitazione dell’Ordine dei Gesuiti. "All’epoca di cui parliamo i Gesuiti erano stati espulsi dalla Chiesa, poi furono riammessi. Comunque, lei non mi ha detto perché quella scomunica dovrebbe essere revocata".
La ragione è questa: Lei mi ha detto in un nostro precedente colloquio che tra qualche millennio la nostra specie si estinguerà. In quel caso le anime che ora godono della beatitudine di contemplare Dio ma restano distinte da Lui, si fonderanno con Lui. A questo punto la distanza tra trascendente e immanente non esisterà più. E quindi, prevedendo questo evento, la scomunica si può già da ora dichiarare esaurita. Non le sembra, Santità?
"Diciamo che c’è una logica in ciò che lei propone, ma la motivazione poggia su una mia ipotesi che non ha alcuna certezza e che la nostra teologia non prevede affatto. La scomparsa della nostra specie è una pura ipotesi e quindi non può motivare una scomunica emessa per censurare l’immanenza e confermare la trascendenza".
Se Lei lo facesse, Santità, avrebbe contro di sé la maggioranza della Chiesa?
"Credo di sì, ma se solo di questo si trattasse ed io fossi certo di ciò che dico su questo tema, non avrei dubbi, invece non sono affatto certo e quindi non affronterò una battaglia dubitabile nelle motivazioni e persa in partenza. Adesso, se vuole, parliamo della seconda questione che lei desidera pormi".
Porta il nome di Pascal. Dopo una gioventù alquanto libertina, Pascal fu come improvvisamente invaso dalla fede religiosa. Era già molto colto, aveva letto ripetutamente Montaigne e anche Spinoza, Giansenio, le memorie del cardinale Carlo Borromeo. Insomma, una cultura laica e anche religiosa. La fede a un certo punto lo colpì in pieno. Aderì alla Comunità di Port-Royal des Champs, ma poi se ne distaccò. Scrisse alcune opere tra le quali i "Pensieri", un libro a mio avviso splendido e religiosamente di grande interesse. Ma poi c’è la sua morte. Era praticamente moribondo e la sorella l’aveva fatto portare nella propria casa per poterlo assistere. Lui voleva morire nell’ospedale dei poveri, ma il suo medico negò il permesso, gli restavano pochi giorni di vita e il trasporto non era fattibile. Chiese allora che un povero tratto da un ospedale che gestiva i poveri pessimamente, anche in fin di vita, fosse trasportato nella casa dove stava e con un letto come quello che aveva lui. La sorella cercò di accontentarlo ma la morte arrivò prima. Personalmente penso che uno come Pascal andrebbe beatificato.
"Lei, caro amico, ha in questo caso perfettamente ragione: anch’io penso che meriti la beatificazione. Mi riserbo di far istruire la pratica necessaria e chiedere il parere dei componenti degli organi vaticani preposti a tali questioni, insieme ad un mio personale e positivo convincimento".
Santità ha mai pensato di mettere per iscritto un’immagine della Chiesa sinodale? "No perché dovrei?". Perché ne verrebbe un risultato abbastanza sconvolgente, vuole che glielo dica? "Ma certo mi fa piacere anzi lo disegni".
Il Papa fa portare carta e penna e io disegno. Faccio una riga orizzontale e dico questi sono tutti i vescovi che Lei raccoglie al Sinodo, hanno tutti un titolo eguale e una funzione eguale che è quella di curare le anime affidate alla loro Diocesi. Traccio questa linea orizzontale poi dico: ma Lei, Santità, è vescovo di Roma e come tale ha la primazia nel Sinodo perché spetta a Lei trarne le conclusioni e delineare la linea generale del vescovato. Quindi il vescovo di Roma sta sopra la linea orizzontale, c’è una linea verticale che sale fino al suo nome e alla sua carica. D’altra parte i presuli che stanno sulla linea orizzontale amministrano, educano, aiutano il popolo dei fedeli e quindi c’è una linea che dall’orizzontale scende fino a quello che rappresenta il popolo. Vede la grafica? Rappresenta una Croce.
"È bellissima questa idea, a me non era mai venuto di fare un disegno della Chiesa sinodale, lei l’ha fatto, mi piace moltissimo".
Si è fatto tardi. Francesco ha portato con sé due libri che raccontano la sua storia in Argentina fino al Conclave e contengono anche i suoi scritti che sono moltissimi, un volume di centinaia di pagine. Ci abbracciamo nuovamente. I libri pesano e li vuole portare lui. Arriviamo con l’ascensore al portone di Santa Marta, presidiato dalle guardie svizzere e dai suoi più stretti collaboratori.
La mia automobile è davanti al portico. Il mio autista scende per salutare il Papa (si stringono la mano) e cerca d’aiutarmi a entrare in automobile. Il Papa lo invita a rimettersi alla guida e ad accendere il motore. "L’aiuto io" dice Francesco. E accade una cosa che secondo me non è mai accaduta: il Papa mi sostiene e mi aiuta a entrare in macchina tenendo lo sportello aperto. Quando sono dentro mi domanda se mi sono messo comodo. Rispondo di sì, lui chiude la portiera e fa un passo indietro aspettando che la macchina parta, salutandomi fino all’ultimo agitando il braccio e la mano mentre io - lo confesso - ho il viso bagnato di lacrime di commozione.
Ho scritto spesso che Francesco è un rivoluzionario. Pensa di beatificare Pascal, pensa ai poveri e agli immigrati, auspica un’Europa federata e - ultimo ma non ultimo - mi mette in macchina con le sue braccia.
Un Papa come questo non l’abbiamo mai avuto.
Un genio dei numeri. Ma adatto agli altari?
di Piergiorgio Odifreddi (la Repubblica, 13.07.2017)
Scalfari si è rivolto a un papa che sembra poco interessato alle questioni dottrinali e ai pronunciamenti ex cathedra, e che per le sue dichiarazioni estemporanee è stato appunto spesso accusato o elogiato, a seconda dei gusti, di «essere protestante».
Anzitutto, parlando di Pascal bisogna ricordare di avere a che fare con un genio, che all’età di soli sedici anni rivoluzionò la geometria dimostrando un teorema su una strana configurazione che egli stesso chiamò “esagramma mistico”, rivelando fin da subito una singolare propensione a mescolare fra loro il diavolo della matematica con l’acqua santa della spiritualità.
Un’attitudine che trovò in seguito la sua migliore espressione nella famosa “scommessa”: l’idea, cioè, che conviene credere, perché si rischia di meno che a non credere. Se infatti Dio non esiste, si spreca una vita terrena di durata finita, ma se Dio esiste, si guadagna una beatitudine eterna.
Ma bisogna anche considerare che Pascal è ricordato in Francia come un padre della prosa, per quel capolavoro che sono le Lettere provinciali: un testo che metteva alla berlina i gesuiti, criticandoli raffinatamente su due fronti. Da un lato, emergeva il loro pensiero contraddittorio e compromissorio a proposito del pentimento, la confessione, l’assoluzione, la penitenza e la comunione. E, dall’altro lato, veniva avanti il loro esplicito tentativo di blandire gli intellettuali di riferimento dell’epoca per arruolarli dalla loro parte.
Riletto oggi, quel pamphlet di Pascal appare applicarsi quasi alla lettera alle posizioni del gesuita Bergoglio sulla comunione ai divorziati, da un lato, e al suo rapporto con i media, dall’altro, e difficilmente passerebbe il vaglio degli “organi vaticani preposti”. Infatti, saggiamente, Scalfari fa riferimento nella sua proposta non alle meno note Lettere provinciali, ma ai più famosi Pensieri di Pascal, che definisce «un libro splendido e religiosamente di grande interesse».
La cosa è sorprendente, da un punto di vista letterario e intellettuale. I Pensieri non sono infatti un’opera autografa di Pascal, ma una raccolta postuma che stupì e imbarazzò persino i suoi più intimi amici e i suoi più appassionati difensori. Il discepolo Pierre Nicole li definì «un’accozzaglia di materiali indistinti, di cui non sono riuscito a intuire l’uso che volesse farne l’autore». E lo storico ufficiale del giansenismo Sainte-Beuve si domandò: «Non è che semplicemente ci troviamo di fronte a un malato, un visionario, un allucinato? Pascal, insomma, non ha, nei suoi ultimi anni di vita, smarrito la ragione?».
I Pensieri contengono alcuni noti aforismi sparsi, ma presentano nell’insieme una visione dell’uomo come un mostro incomprensibile a sé stesso, tormentato dalla propria incomprensibilità, che cerca inutilmente di comprendersi mediante le filosofie e le religioni non cristiane, e trova conforto solo nell’interpretazione letterale e superficiale della Bibbia: una visione integralista che, come notò già Voltaire, scandalizza i moderni.
Il Pascal delle Lettere provinciali e dei Pensieri è l’antitesi di Bergoglio. I matematici continueranno a mantenerlo sui piedistalli della matematica e a ricordare i suoi geniali risultati di geometria, calcolo infinitesimale e teoria della probabilità. Ma dubito che un papa gesuita e la sua Chiesa gli permetteranno mai di salire sui loro altari, e di venir additato ufficialmente come un esempio di ortodossia e di santità.
Nespresso fa causa per uno spot di una concorrente con il sosia di Clooney
Chiesti 50mila dollari di risarcimento e rimozione spot
di Redazione ANSA ROMA 22 gennaio 2016
Clooney e Nespresso, binomio inconfondibile. Non per la compagnia di caffè israeliana, la Israeli Espresso Club, che ha cercato invece di confondere le idee a suo vantaggio ricorrendo ad un sosia della star hollywodiana per un suo spot. Mossa che che gli è subito costata una citazione in giudizio da parte della Nespresso che rivendica l’unicità del suo volto-immagine.
Durante la pubblicità della compagnia israeliana compare una scritta sullo schermo che avverte che l’attore, dai capelli argento e con in mano quello che sembra essere un sacchetto di Nespresso, "non è George Clooney. La Nespresso chiede 50,000 dollari di danni e la rimozione dell’annuncio pubblicitario.
Lo spot della società concorrente con il sosia di Clooney (da Youtube)
Se il concetto di umanità cambia tra Parigi e Beirut
di Donatella Di Cesare (Corriere della Sera, 17.11.2015)
«Un attacco all’umanità e ai nostri valori universali». Così Obama ha commentato l’attentato di Parigi. Ma le sue parole sono stata aspramente criticate in un articolo del New York Times molto cliccato nei social media. Non sono forse esseri umani quelli sterminati qualche giorno prima nella strage di Beirut? E che dire delle tante stragi che trovano spazio marginale nei media? Viene da pensare che ci siano ranghi diversi di umanità. Quel concetto, che prometteva di essere universale, sembra disgregarsi. I corpi mutilati, che un’impietosa telecamera ci mostra sul selciato di Beirut, o per le vie di una sconosciuta città della Siria, non ci inquietano come i feriti e i morti intravisti nel buio della notte di Parigi.
Per giustificarci potremmo dire che dove riconosciamo un volto, l’umanità ferita suscita in noi compassione e sdegno. In quelle strade di Parigi avremmo potuto trovarci anche noi; ci immaginiamo al posto dell’altro, vittima inerme. E l’immaginazione diventa la spinta per l’etica. Se invece l’umanità ci appare lontana, anonima, senza volto, il nostro sentire si inceppa. Diventiamo quasi analfabeti emotivi, mentre quelle persone scadono a nonpersone. Ecco perché è così importante il ruolo dei media.
Tuttavia dobbiamo ammettere che continuiamo a dividere l’umanità per ranghi (non sta forse qui la fonte del razzismo?) e che anche dove razionalmente riconduciamo gli essere umani a un concetto universale, riguardiamo l’«umanità» di quegli «estranei» come se fosse diversa dalla nostra, non dello stesso rango.
L’umanità, così spesso invocata nel discorso pubblico, si rivela un concetto troppo astratto, quasi vuoto, che richiede di essere ripensato. A partire dal volto di ciascuno.
Pascal, la scommessa del «ben pensare»
di Edgar Morin (Avvenire, 11 febbraio 2013)
La coscienza razionale accresciuta dai limiti della ragione, compresi quelli scientifici (Popper, Gödel e altri) lo conferma. Il sorgere delle aporie in tutti gli avanzamenti del pensiero scientifico ci fanno ritrovare spontaneamente l’idea di Pascal (e di Niels Bohr) secondo cui il contrario di una verità profonda non è un errore bensì un’altra verità profonda.
Pascal ci ha situati tra due infiniti, il che è stato ampiamente confermato dalla microfisica e dall’astrofisica del XX secolo. Quando scrive: «Che cos’è un uomo nell’infinito? Chi può comprenderlo?», presume già la nostra vertiginosa piccolezza in seno a un sistema solare lillipuziano e a una galassia nana, in un cosmo che si estende su miliardi di anni luce. Scrivendo che l’uomo è come smarrito «in questa regione fuori mano della natura», immaginava quasi la marginalità della nostra terra, terzo satellite di un sole, astro perduto in una galassia periferica fra miliardi di galassie di un universo in espansione.
Scrivendo che un acaro può contenere «un’infinità di universi di cui ciascuno ha il proprio firmamento, i suoi pianeti, la sua terra», già suppone il nostro incredibile gigantismo in rapporto al mondo subatomico, senza ancora sospettare che noi fossimo costituiti da miliardi di miliardi di particelle e attraversati incessantemente da miliardi di neutrini. Così le ultime scoperte della scienza della natura giungono alla situazione paradossale, già annunciata da Pascal, in cui la conoscenza sfocia sul Mistero: «Per quanto gonfiamo le nostre concezioni al di là degli spazi immaginabili, non riusciamo che a partorire atomi in preda alla realtà delle cose»
La razionalità difesa da Pascal è di un carattere superiore rispetto a quella di Cartesio. Introduce una causalità interattiva, retroattiva, e ad anello. Pascal scrive: «Poiché tutte le cose sono causate e causanti aiutate e aiutanti, mediate e immediate, e tutte intrattengono un legame naturale e insensibile che connette le più lontane e le più differenti, ritengo sia impossibile conoscere le parti senza conoscere il tutto come del pari conoscere il tutto senza conoscere nel dettaglio le parti».
Quando ho ritrovato questa frase, mi sono reso conto che essa esprimeva, nel modo più denso e ammirevole, ciò a cui io ero giunto dopo un lungo lavoro. Ho così scoperto che i pensieri cardinali di Pascal sono germinati dentro di me, che ero loro fedele, talvolta perfino senza saperlo, e che essi hanno chiarito le mie elaborazioni che credevo nuove.
Questa formula di Pascal si oppone a quella di Cartesio che pone la necessità, nel suo Discorso del metodo, di «separare tutte le cose e cogliere ciascuna delle difficoltà che esaminerò in tutte le parti che sarà possibile e che sarà necessario per meglio risolverlo». Ma, di fatto, esse sono complementari. Dobbiamo associare i due procedimenti, di disgiunzione e di congiunzione, di semplificazione e di complessificazione e pensarli come antagonisti e complementari.
Questa formula pascaliana, «poiché tutte le cose sono causate e causanti...», dovrebbe essere inscritta a lettere d’oro sul frontone di tutte le università del mondo. Essa rompe con la causalità lineare e il pensiero semplificatore che regnano ancora nel XXI secolo. Essa illustra e illumina la necessità, divenuta vitale per la conoscenza, il pensiero e l’azione, di superare le compartimentazioni disciplinari e di riscoprire i problemi fondamentali e globali dell’umanità. Pascal ci spinge a concepire un’antropologia complessa in cui homo sapiens è anche demens, homo faber è anche immaginario e mitologico, homo oeconomicus è anche homo ludens, in cui l’uomo non è soltanto prosaico, votato ai compiti utilitaristici, ma anche poetico, votato alla comunione e all’amore.
Infine Pascal ci dà una lezione etica più necessaria che mai. «Applicarsi a ben pensare, ecco il principio della morale», dice. L’etica non può soddisfare le buone intenzioni. Essa deve mobilitare l’intelligenza per affrontare la complessità della vita, il che per me significa «ben pensare». È chiaro che bisogna distinguere la coscienza intellettuale da quella morale, ma è necessario che il loro legame e la loro inseparabilità vengano mantenuti.
«Ben pensare» significa per me abbandonare i punti di vista dei saperi separati che non sanno vedere l’urgenza e ciò che è essenziale; abbattere le barriere tra i saperi, vedere il tutto nelle parti e le parti nel tutto; sforzarsi di concepire delle solidarietà fra gli elementi di un tutto, e da lì tendere a suscitare una coscienza di solidarietà; conoscere i contesti e riconoscere le complessità delle situazioni in cui dobbiamo agire, comprendere in particolare che c’è una «ecologia dell’azione», che può spesso sviare le nostre azioni dal loro senso desiderato e orientarle perfino in senso contrario, per cui le nostre intenzioni morali possono sfociare in risultati immorali; riconoscere e affrontare incertezze morali e contraddizioni etiche, comprendere che il bene e il male non possono essere sempre distinti facilmente, sapere che i nostri doveri etici sono spesso antagonistici, e perfino inconciliabili, poiché abbiamo doveri verso noi stessi, verso i nostri cari, verso la società, verso la specie, verso la nostra Terra-patria; riconoscere le potenze d’accecamento o di illusione dello spirito umano, il che comporta una lotta contro le deformazioni della memoria, le dimenticanze selettive, l’autogiustificazione, l’autoaccecamento; includere nella conoscenza oggettiva la conoscenza soggettiva del soggetto che conosce, nella conoscenza degli oggetti la comprensione umana, cioè il riconoscimento della complessità umana... Ecco un po’ di tutto quel che intendo quando parlo di «ben pensare».
Edgar Morin
Per leggere tutta la rec. del libro di Giansenio, clicca su:
Antonio Gramsci
Lettere dal carcere
6 marzo 1933 *
Carissima Tania,
ho ancora vivo il ricordo (ciò non sempre mi capita piú in questi ultimi tempi) di un paragone che ti ho fatto nel colloquio di domenica per spiegarti ciò che avviene in me. Voglio riprenderlo per trarne alcune conclusioni pratiche che mi interessano.
Ti ho detto su per giù cosí: - immagina un naufragio e che un certo numero di persone si rifugino in una scialuppa per salvarsi senza sapere dove, quando e dopo quali peripezie effettivamente si salveranno. Prima del naufragio, come è naturale, nessuno dei futuri naufraghi pensava di diventare... naufrago e quindi tanto meno pensava di essere condotto a commettere gli atti che dei naufraghi, in certe condizioni, possono commettere, per esempio, l’atto di diventare... antropofaghi.
Ognuno di costoro, se interrogato a freddo cosa avrebbe fatto nell’alternativa di morire o di diventare cannibale, avrebbe risposto, con la massima buona fede, che, data l’alternativa, avrebbe scelto certamente di morire. Avviene il naufragio, il rifugio nella scialuppa ecc. Dopo qualche giorno, essendo mancati i viveri, l’idea del cannibalismo si presenta in una luce diversa, finché a un certo punto, di quelle persone date, un certo numero diviene davvero cannibale.
Ma in realtà si tratta delle stesse persone? Tra i due momenti, quello in cui l’alternativa si presentava come una pura ipotesi teorica e quella in cui l’alternativa si presenta in tutta la forza dell’immediata necessità, è avvenuto un processo di trasformazione «molecolare» per quanto rapido, nel quale le persone di prima non sono piú le persone di poi e non si può dire, altro che dal punto di vista dello stato civile e della legge (che sono, d’altronde, punti di vista rispettabili e che hanno la loro importanza) che si tratti delle stesse persone.
Ebbene, come ti ho detto, un simile mutamento sta avvenendo in me (cannibalismo a parte). Il piú grave è che in questi casi la personalità si sdoppia: una parte osserva il processo, l’altra parte lo subisce, ma la parte osservatrice (finché questa parte esiste significa che c’è un autocontrollo e la possibilità di riprendersi) sente la precarietà della propria posizione, cioè prevede che giungerà un punto in cui la sua funzione sparirà, cioè non ci sarà piú autocontrollo, ma l’intera personalità sarà inghiottita da un nuovo «individuo» con impulsi, iniziative, modi di pensare diversi da quelli precedenti.
Ebbene, io mi trovo in questa situazione. Non so cosa potrà rimanere di me dopo la fine del processo di mutazione che sento in via di sviluppo [...].
* FONTE. LIBERLIBER/BIBLIOTECA GRAMSCIANA - RIPRESA PARZIALE.
ANTISERI COME REALE E REALE COME ANTISERI: PER CARITA’!!! Prof. Giovanni Reale, si svegli dal sonno dogmatico!!! L’amore evangelico è "charitas", non "caritas"!!! Alcune note - a cura di Federico La Sala
La lezione di Pascal. Genio della scienza, paladino della fede. La scommessa su Dio e il valore del Vangelo
«Riconoscere i limiti della ragione umana».
di Dario Antiseri Corriere della Sera 1.12.10
«C’era un uomo che a dodici anni, con delle sbarre e dei tondi, aveva creato le matematiche, che a sedici aveva fatto il più dotto trattato sulle coniche che si fosse visto dall’antichità; che a diciannove ridusse in una macchina una scienza che esiste tutt’intera nell’intelletto; che a ventidue anni dimostrò i fenomeni dell’aria e debellò uno dei grandi errori dell’antica fisica; a quell’età in cui gli altri uomini incominciano appena a crescere, avendo compiuto il ciclo delle scienze umane, si avvide del loro nulla e rivolse i suoi pensieri alla religione; che da quel momento fino alla morte, giunto al trentanovesimo anno, sempre infermo e sofferente, fissò la lingua che parlarono Bossuet e Racine, diede il modello della più perfetta arguzia come del ragionamento più forte; che, infine, nei brevi intervalli dei suoi mali, risolvette per distrazione uno dei più alti problemi della geometria, e gettò sulla carta dei pensieri che hanno tanto del Dio quanto dell’uomo: quello spaventoso genio si chiamava Blaise Pascal». Così René de Chateaubriand.
Dio e l’uomo. E il Dio di Pascal non è «il Dio dei filosofi e dei sapienti», ma è «il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe». Contrario a Cartesio «inutile e incerto», lontano dalla illusoria presunzione razionalistica degli Scolastici, Pascal tiene distinta la sfera della ragione da quella della fede: «La fede è un dono di Dio. Non crediate che diciamo che è un dono del ragionamento. (...) La fede è differente dalla dimostrazione: questa è umana, quella è un dono di Dio». D’altro canto, «perché una religione sia vera, è necessario che abbia conosciuto la nostra natura. Bisogna che ne abbia conosciuto la grandezza e la miseria. (...) E chi, tranne la religione cristiana, l’ha conosciuta?». La corruzione della natura umana e l’opera redentrice di Gesù Cristo: questi, dice Pascal, sono i due soli principi della fede cristiana. In Cristo scopriamo Dio e, davanti a Lui, non copriamo la nostra miseria. L’uomo non è un costruttore di senso, è un mendicante di senso: «È bene sentirsi stanchi e affaticati dell’inutile ricerca del vero bene, al fine di tendere le mani al Liberatore».
Sull’esistenza o non esistenza di Dio la ragione tace, «non può determinare nulla», e tuttavia la ragione può mostrare che scegliere Dio è tutt’altro che follia. Ed è qui che Pascal innesca il grande tema della «scommessa»: «Scommettere bisogna: non è una cosa che dipende dal vostro volere, ci siete impegnato. Che cosa sceglierete, dunque? (...) Pesiamo il guadagno e la perdita, nel caso che scommettiate in favore dell’esistenza di Dio. Valutiamo questi due casi: se vincete, guadagnate tutto; se perdete, non perdete nulla. Scommettete, dunque, senza esitare che Egli esiste».
Se Dio non scende nell’animo umano sulla scala dei nostri sillogismi, si dà anche che tutti i nostri «lumi» non sono in grado di farci conoscere la vera giustizia: «Nulla, in base alla pura ragione, è per sé giusto. (...) Tre gradi di latitudine sovvertono tutta la giurisprudenza; un meridiano decide della verità; nel giro di pochi anni le leggi fondamentali cambiano; il diritto ha le sue epoche. (...) Singolare giustizia che ha come confine un fiume! Verità di qua dei Pirenei, errore di là». Nel campo dell’etica la ragione si lascia piegare per ogni verso. E, difatti, è facile constatare che «il furto, l’incesto, l’uccisione dei figli o dei padri, tutto ha trovato posto tra le azioni virtuose». Ma, allora, dov’è che la morale potrà trovare il suo porto? Lo trova - dice Pascal - nella fede: la vera giustizia è quella «secondo a Dio piacque di rivelarcela».
La vera giustizia è, dunque, la norma evangelica: «Senza la fede l’uomo non può conoscere né il vero né la giustizia». Una soluzione, questa, che - se da una parte spinge il non credente a riflettere, in un campo dove la logica non aiuta, su quanto l’Occidente deve al messaggio antropologico ed etico del Cristianesimo -, dall’altra pone il credente davanti ad un ineludibile interrogativo: il cristiano ciò che è Bene e ciò che è Male lo sa dal Vangelo o dalla ragione? Da quale ragione?
«Il più grande scrittore cristiano, più grande dello stesso Newman»: così T.S. Eliot ha definito Pascal. Ma intanto: Pascal è un «fideista» che umilia la ragione, o è piuttosto un «iperrazionalista» che ha messo e pone in guardia contro gli abusi della ragione?
di SERGIO GIVONE (Avvenire, 18.02.2010)
Non il Dio dei filosofi, sosteneva Pascal, ma il Dio che è amore e tenerezza è il vero Dio. Da una parte, dunque, la filosofia e la ragione, dall’altra la fede. Mentre la fede attinge alla verità di Dio per una via tutta sua, misteriosa e luminosa come la certezza del cuore, la ragione ha ben poco da dirci in proposito, brancola nel buio, tutt’al più insegue un fantasma. Eppure, nel momento stesso in cui opera un taglio tanto netto, Pascal reimposta il problema filosofico di Dio con una radicalità ignorata dalla tradizione metafisica e da Cartesio in particolare. Problema che resta filosofico: si tratta pur sempre di pensare Dio. E di rispondere alla domanda: che cosa intendiamo con questo nome e con gli infiniti altri con cui lo designiamo? Che cosa significa questa figura, la più grande che si possa pensare, e soprattutto quella che può apparire per un verso necessaria e per l’altro superflua?
In margine al dialogo fra credenti e non che «Avvenire» sta sollecitando, va detto che c’è oggi chi dice, all’interno di una tradizione risalente all’empirismo e all’illuminismo, che di Dio possiamo benissimo fare a meno, non solo perché la scienza non ne ha bisogno, ma prima ancora perché non sapremmo come definire tale concetto. E c’è anche chi risponde, appellandosi invece a una tradizione di stampo idealistico, che Dio altro non è che il logos scientifico e cioè la sostanza razionale di tutte le cose. Queste due posizioni sono speculari. In fondo poggiano sullo stesso presupposto: che Dio sia tutt’uno con la ragione. Per cui è inevitabile trarre la conseguenza che se Dio è la ragione, Dio non è Dio. Con ciò, evidentemente, il problema posto da Pascal è aggirato ed eluso.
Chiede Pascal: come posso pensare Dio, fermo restando che Dio non è cosa della ragione ma del cuore? Pensare Dio significa interrogarsi sulla sua verità, sul senso che ha per me credere o non credere, sulle conseguenze per la mia vita di una decisione da prendere in assenza di prove ma impegnativa come nessun’altra. A sua volta che Dio sia cosa del cuore e non della ragione significa che non posso dedurlo ma neppure escluderlo su basi puramente razionali.
Pascal in altre parole ci invita a prendere atto dei limiti della filosofia. Tanto da affermare che «la vera filosofia si fa beffe della filosofia». Presuntuosa e ridicola è la filosofia che pretende di dire non solo l’ultima parola, ma anche la prima. Miope è la filosofia che ritiene impossibile dire alcunché su ciò che sta prima e ciò che viene dopo, sulle cose prime e sulle cose ultime.
Queste, le cose prime e le cose ultime, non appartengono alla filosofia, bensì alla religione. Mai e poi mai la filosofia potrebbe ’inventarle’, produrle razionalmente. Esse sono tramandate non sappiamo come ma certamente ex alto. Se non altro nel senso che esse ci trascendono e noi vi apparteniamo come apparteniamo alla nostra storia più profonda e al nostro linguaggio più autentico: ciò che per l’appunto è religione.
Ma se le cose prime e le cose ultime sono intime a noi più di quanto noi non lo siamo a noi stessi, come può la filosofia ignorarle? Il pensiero deve essere al tempo stesso molto umile e molto audace. Umile perché i contenuti su cui riflettere gli vengono da fuori, e lo sorprendono, proprio come ’ladro nella notte’. Audace perché capace di spogliarsi di tutti i pregiudizi e ’farsi libero’ nella verità. Secondo il più schietto insegnamento pascaliano.