di ROSITA COPIOLI (Avvenire, 06.06.2009)
Pierre Hadot, il celebre studioso di filosofia antica, autore del bellissimo Il velo di Iside. Storia dell’idea di natura (Einaudi), ha scritto un libro dettato dalla necessità della sua anima. Per farlo, si è aggrappato a Goethe, come all’ultimo scrittore che nel mondo moderno sappia offrire l’antica consolazione della filosofia, nella splendida veste della poesia. La poesia di Goethe è la rielaborazione complessa e altissima del motto memento mori (ricordati di morire), nel memento vivere (ricordati di vivere). Il pro-memoria di neo-platonici, cristiani, e romantici, che era stato il punto d’inizio del Werther, si muta in Gedenke zu leben, il «ricordati di vivere» spirato a Spinoza, che Wilhelm Meister legge in una epigrafe negli Anni di apprendistato.
Montaigne aveva scritto: «Il nostro grande e glorioso capolavoro è vivere come si deve [...] È una perfezione assoluta, e quasi divina, saper godere lealmente del proprio essere». Per Goethe questa «salute», questa «felicità» inseguita dai saggi, che non è un fatto naturale, ma una conquista, è rappresentata dalla poesia. «Grande è il piacere dell’esistere / più grande ancora il piacere nell’esistere» (Divano). La poesia dà voce ai doveri sacri: aderire alle leggi di natura e al cosmo, e ai doveri quotidiani della vita, nell’intreccio benefico di «pensare e fare».
Invece di considerare il presente come qualcosa che è già passato nell’attimo in cui lo percepiamo, Goethe vi concentra attenzione e coscienza senza distaccarlo dal passato e dal futuro. Ne dilata l’esperienza in una durata metafisica che è «presenza».
L’attimo non è solo il kairòs del momento felice, quando il destino sorride in una strizzatina d’occhio (Augenblick). Il battere d’occhio è l’istante da fissare per sempre: «Guarda l’attimo (Augen-blick) negli occhi (Augen)», comanda l’Elegia di Marienbad. Ogni attimo ha un valore infinito perché rappresenta l’eternità nella sua interezza. Occorre accettare e amare la metamorfosi dell’essere per ritrovarsi uniti al divino che è nell’esistenza. Così la farfalla si consuma tra le fiamme della luce. Lo stesso «muori e diventa» della farfalla prescrivono le misteriose parole di Daimon, Tyche, Eros, Ananke e Elpis in Urworte, che terminano con la speranza (Elpis) e insegnano a farsi discepoli dell’eternità.
Augen-blick, ricorda Hadot, è anche il ’colpo d’occhio’ che fa cogliere all’istante l’insieme, come a volo d’uccello, tra cielo e terra. Esso è lo sguardo della poesia, il suo simbolo: ossia la «rivelazione vivente e istantanea dell’imperscrutabile».
Questo libro è molte cose insieme. È un saggio intorno alle fonti antiche che Hadot conosce come pochi (a proposito dello ’sguardo dall’alto’ che né i Greci né gli uomini del Medioevo avrebbero posseduto e che Hadot documenta ampiamente, è giusta la critica alle semplificazioni della psicologia storica che tende a determinare momenti e svolte decisive nella storia della psicologia collettiva: quelle di Blumemberg che segue Jakob Burckhardt, e di Le Goff).
È un luminoso ritratto di Goethe con approfondimenti di testi poco conosciuti, quali Urworte, e Gli anni di viaggio di Wilhelm Meister (Medusa), il suo testamento spirituale, insieme con il Faust II.
È anche un breviario personale, dove Hadot vive le esperienze di cui parlano gli stoici, Epitteto, Seneca, Marco Aurelio, gli epicurei, Lucrezio, i cristiani, Spinoza, Goethe.
Uno dei meriti di Hadot è stato sempre dimostrare la continuità tra il pensiero greco e il cristianesimo nelle riflessioni sulla vita, sul senso del tempo umano. Goethe rappresenta questa continuità nel mondo moderno.
Pierre Hadot
RICORDATI DI VIVERE
Goethe e la tradizione degli esercizi spirituali
Raffaello Cortina. Pagine 174. Euro 19.50
VITA E FILOSOFIA, COME MODO DI VIVERE *
In un libro intervista con J. Carlier e A. I. Davidson, Hadot spiega infatti di sentirsi filosofo dal giorno in cui, ancora adolescente, fa una particolare “esperienza della natura” che descrive come segue:
“Era calata la notte e le stelle brillavano in un cielo immenso. A quell’epoca si poteva ancora vederle. Un’altra volta fu in una stanza di casa nostra. In entrambi i casi fui invaso da un’angoscia insieme terrificante e soave, provocata dal sentimento della presenza del mondo, o del Tutto, e di me in questo mondo. [...] Credo di essere filosofo a partire da quel momento, se s’intende per filosofia questa coscienza dell’esistenza, dell’essere-al-mondo”. E da quel momento, prosegue Hadot, “ho cominciato a percepire il mondo in modo nuovo. [...] Questa esperienza ha dominato tutta la mia vita. [...] Ha dunque avuto un ruolo importante nella mia evoluzione interiore. Per altro verso, ha fortemente influenzato la mia concezione della filosofia: ho sempre considerato la filosofia come una trasformazione della percezione del mondo” (La filosofia come modo di vivere, Torino 2001, p. 23). *
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Sul tema, in biblioteca e nel sito, si cfr.:
Federico La Sala, La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica, Antonio Pellicani Editore, Roma 1991.
SUL TEMA DELL’ATTIMO E DELL’ISTANTE, SI CFR. LE NOTE SEGUENTI:
FLS
ANTROPOLOGIA, PSICOANALISI, E "DIVINA COMMEDIA": PRIMA IL "MEMENTO NASCI" E, POI, IL "MEMENTO MORI"!
Trasformare se stessi /
Vivere la filosofia: Pierre Hadot
di Moreno Montanari *
L’idea di fondo che permea tutta la sua filosofia, ed emerge da uno studio profondo delle fonti antiche, ruota infatti attorno al condimento che il suo sapere “non consiste nell’insegnamento di una teoria astratta e meno ancora in un’esegesi di testi, ma in un’arte di vivere, in un atteggiamento concreto, in uno stile di vita determinato, che impegna tutta l’esistenza. L’atto filosofico non si situa solo nell’ordine della conoscenza, ma nell’ordine del «Sé» e dell’essere: è un progresso che ci fa essere più pienamente, che ci rende migliori. È una conversione che sconvolge la vita intera e che cambia l’essere di colui che la compie. Lo fa passare da uno stato di vita inautentica, oscurata dall’incoscienza, rosa dalla cura, dalle preoccupazioni, allo stato di vita autentica, dove l’uomo conosce la conoscenza di sé, la visione esatta del mondo, la pace e la libertà interiori” (Pierre Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, 1981, tr. it. Einaudi, 1998, pp. 31-32). Questo tipo di condizione alla quale la filosofia lavora non si guadagna, dunque, studiando i testi di maestri, che certamente sono oggetto di un’attenta e meditazione e talvolta di un vero e proprio culto, ma sottoponendosi a una vasta gamma di pratiche filosofiche, che definirà esercizi spirituali “perché opera non solo del pensiero, ma di tutto lo psichismo dell’individuo” (ibid, p. 30).
Il loro principale compito è insegnare a trascendere le abituali categorie attraverso le quali siamo soliti organizzare l’esperienza offrendo così all’individuo la possibilità di sperimentare, in forma particolarmente viva, partecipata e intensa, una diversa percezione e concezione di sé, come parte vivente del tutto che è anche un impegno etico a riorientare la propria vita alla luce di questa presa di coscienza:
L’esercizio in questione va sotto il nome di “esercizio spirituale della fisica”, praticato in particolare dagli stoici e dagli epicurei, ma probabilmente già presente nella tradizione pitagorica (ve ne sono tracce nei Versi aurei), e viene effettuato non solo adottando uno sguardo su se stessi e sui fenomeni del mondo a partire da un punto di vista assoluto che li ingloba e li svela nella loro irriducibile interconnessione (punto di vista che accomuna, pure nelle diverse concezioni, tutte le filosofie antiche) o riflettendo sulla natura ultima di tutte le cose (la physis e l’arché che la organizza), ma sperimentando un diverso modo di percepire se stessi come espressione di tutto ciò. Ce ne offre una testimonianza biografica lo stesso Hadot:
Hadot scoprirà poi che l’esperienza biografica che segna il suo ingresso nella filosofia va sotto il nome di “sentimento oceanico”, concetto coniato da Roman Rolland per connotare ogni autentico sentimento religioso in cui Freud, inizialmente scettico, riconoscerà la possibilità di “rovesciare i normali rapporti tra i territori della psiche, così da poter cogliere eventi profondi dell’Io e dell’Es altrimenti inaccessibili” (S. Freud Opere, vol. 11, Bollati Boringhieri, Torino, 1932, p.190) - il che è particolarmente consonante con l’idea hadotiana che questo tipo di esperienza chiami in causa l’intero psichismo dell’individuo.
Uno dei principali meriti di Hadot consiste del resto nell’aver sottratto alla religione il monopolio della spiritualità rivendicandolo, in forma laica, per ogni filosofia che ricerchi un contatto con il tutto, ma anche di aver spiegato che per quanto forte ed intenso possa essere l’insight al quale si perviene quando si riesce a pervenire a questo genere di esperienze - affidate agli esercizi spirituali della filosofia antica, prima ancora che della tradizione cristiana - tocca poi all’individuo amplificarne il senso in chiave comunitaria:
È evidente che questa rilettura della filosofia antica, che qui posso solo accennare, modifica profondamente la concezione che ne abbiamo e mina alle sue fondamenta il pregiudizio, duro a morire, che la filosofia costituisca una forma di sapere puramente astratta, magari affascinante ma incapace di incidere concretamente sulla vita di tutti i giorni. La ricaduta esistenziale degli esercizi spirituali filosofici appare chiarissima; si pensi, solo per limitarci ad alcuni esempi, all’esame di coscienza dei pitagorici e degli stoici, svolto la sera prima di dormire per misurare e ridurre il più possibile la distanza tra il proprio stile di vita e i principi filosofici che lo ispiravano, con l’impegno a progredire nel giorno seguente; alla meditazione dello sguardo dall’alto, praticata in particolare dagli stoici per apprendere a relativizzare l’importanza dell’io rispetto al cosmo e provare a ricollocarsi, anche dal punto di vista politico, nella prospettiva del Tutto; al memento mori epicureo e stoico come esercizio per ricordarsi di vivere appieno, divenendo particolarmente presenti a se stessi e alla vita, nella consapevolezza della caducità dell’esistenza; all’esercizio di contemplazione della fisica cosmica quale paradigma esistenziale che predispone a una diversa percezione di sé nel mondo e disvela la vasta trama di relazioni che ci intessono e che ci rendono interdipendenti gli uni dagli altri, in Marco Aurelio e Seneca; allo sforzo quotidiano, comune a tutte le scuole filosofiche, di esercitarsi a condurre una vita esaminata, maggiormente consapevole e autentica, volta alla promozione della piena fioritura del proprio e dell’altrui potenziale umano, nella ricerca di un ideale di saggezza che si sa irraggiungibile ma che si considera, non di meno, irrinunciabile.
Inquadrata alla luce di queste pratiche, la filosofia palesa il suo desiderio di liberare gli individui dalle loro superstizioni, dalle loro paure e dai loro pregiudizi, per instradarli verso la possibilità di una vita più autentica perché capace non solo di interrogarsi sul proprio senso, alla luce dei concetti di verità, giustizia, collettività e cosmo, ma di creare le condizioni per un diverso modo di vivere, personale e collettivo, che incarni i valori a cui s’ispira, creando le premesse per un mondo più giusto, saggio e realizzato.
La sua forza eversiva - ben nota a chi studi la vita dei suoi principali protagonisti - si attenua radicalmente nel medioevo, quando viene confinata nelle università e ridotta a mero arsenale concettuale e argomentativo al servizio della teologia, e subisce, seppur con rare ma significative eccezioni, un ulteriore ridimensionamento nella modernità, allorché si inizia a considerare filosofi pensatori, per lo più docenti universitari, che non sentono più l’esigenza di testimoniare con il proprio stile di vita la bontà delle teorie che insegnano e di cui sono riconosciuti specialisti. Questi, agli occhi di Hadot, non sono filosofi ma studiosi di filosofia, in taluni casi straordinari architetti o ingeneri del pensiero che offrono un prezioso contributo al nostro modo di pensare e intendere le cose ma che non sentono alcuna esigenza di indicare, testimoniandolo, un diverso modo di vivere.
La scommessa di Hadot è che, opportunamente ripensata, la filosofia possa invece tornare ad essere intesa e praticata come una proposta di vita un po’ più consapevole, giusta, armoniosa e saggia incentrata proprio su questi esercizi che hanno lo scopo di facilitare e consolidare il cambiamento, a partire da se stessi ma pensandosi come ponte per gli altri e per un mondo a venire al quale si apre il passo. Esercitarsi ad essere all’altezza delle esperienze di verità e bellezza che si è vissuto o che si è compreso, dando vita a una maniera di vivere che resti loro consonante, è l’impegno etico al quale la filosofia di Hadot richiama, nel segno dello sforzo, comune a tutte le scuole antiche, di promuovere la piena fioritura o espressione dell’umanità, paradigmaticamente incarnata dall’ideale del saggio.
Certo il nostro tempo richiede di ripensare questo antico ideale in forme meno esemplari e superogatorie che sappiano valorizzare, rispetto all’antichità, le differenze di genere, di età e di cultura e che si arricchiscano dei contributi offerti dal sapere della contemporaneità alla comprensione dei fenomeni umani e cosmologici, come invita a fare nel corso di tutta la sua opera filosofica Romano Màdera che si concentra in particolare sulla possibilità di arricchirla alla luce del sapere della psicologia del profondo, di una pedagogia del corpo che tenga conto delle pratiche delle diverse tradizioni spirituali d’Oriente e Occidente, antiche e moderne, con l’apertura ad un orizzonte di senso mitobiografico e ai contributi più fecondi di uno sguardo sistemico sulla realtà.
La sua prospettiva ha tra l’altro il merito di ampliare lo spettro di quello che Hadot chiama “l’intero psichismo” alla dimensione inconscia, aprendo la strada a un’ulteriore pista di trascendenza, che permette di tesaurizzarne in chiave analitica quella funzione terapeutica che la filosofia antica si riconosceva. Ad ogni modo, che si voglia ripensarla alla luce di questa proposta o meno, la possibilità di tornare a concepire la filosofia come una maniera di vivere tesa a custodire la sensazione di meraviglia per l’esistenza, a ricercare il senso delle cose e del nostro stare al mondo in una prospettiva non più egocentrica ma ecocentrica, a perseguire una vita più vera e autentica che, nell’aristotelica consapevolezza che siamo “animali sociali”, provi a realizzarsi prendendosi cura delle relazioni che la innervano, vivendole come risorse e opportunità anziché come impedimenti o limiti è ancora possibile. Essa, tuttavia, richiede una particolare forma di coraggio che è in fondo una forma di fedeltà alla vita e a se stessi:
In definitiva, il mondo è forse splendido, spesso atroce, enigmatico. L’ammirazione può diventare stupore, stupefazione, persino terrore. Lucrezio, parlando della visione della natura rivelatagli da Epicuro, esclama: “Di fronte a questo spettacolo si coglie una sorta di piacere divino e un brivido di sgomento. Sono proprio le due componenti del nostro rapporto al mondo, insieme piacere divino e sgomento (...). Questo brivido sacro non si produce volontariamente, ma nelle rare occasioni in cui ci coglie, non dobbiamo cercare di sottrarci, perché si deve avere il coraggio di affrontare l’indicibile mistero dell’esistenza”.
* Doppiozero, 24 maggio 2020 (ripresa parziale - senza immagini).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FREUD, IL MARE, E "LA MENTE ESTATICA". Un invito a ripensare il lavoro di Elvio Fachinelli
NICODEMO O DELLA NASCITA: DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA.
Federico La Sala
Felici solo se è per sempre
di Ermanno Bencivenga (Il Sole-24 Ore, Domenica, 21 ottobre 2016)
Etimologicamente, «filosofia» significa amore per la saggezza. Non possesso, o pratica, della medesima, che competerebbe a chi l’avesse trovata e magari la insegnasse per modica cifra, come i tanti chiacchieroni che circolano di questi tempi e i sofisti castigati e ridicolizzati da Socrate. Per il filosofo, la saggezza è oggetto di ricerca, non di sicuro controllo, fuoco immaginario di un percorso infinito, visione illusoria (in quanto ci illude, ci mette costantemente in gioco) che recede davanti ai nostri occhi incantati, al nostro impegno inesausto. Quando spiego queste cose ai miei studenti, qualcuno obietta: perché rincorrere quel che non verrà raggiunto? Ne vale la pena? Domande simili non hanno una risposta diretta, come quando mi si chiede che ore sono e rispondo «Le cinque e mezza». La risposta non può che essere una conversione, una contestazione dei presupposti su cui sono fondate le domande e un riorientamento dell’esigenza che le domande esprimono verso nuovi obiettivi. Né si tratta di obiettivi da poco, perché in quella titubanza (ne vale la pena?) si cela il più perentorio e angoscioso dei misteri: come ottenere la felicità? Quali delle azioni che compiamo, o possiamo compiere, meglio ci permetteranno di raggiungere, o almeno approssimare, tale supremo traguardo?
Jean-Jacques Rousseau fu pensatore geniale e innovativo ma anche individuo inquieto, rissoso e contraddittorio. Illuminista della prima ora, collaboratore dell’Enciclopedia, si rivoltò contro illuministi storici quali Voltaire e Diderot dicendone peste e corna; padre di cinque figli illegittimi che abbandonò in orfanotrofi, scrisse l’Èmile, uno dei testi più importanti nella storia della pedagogia; giudicato autore blasfemo e perseguitato con pari ferocia da cattolici e calvinisti, dichiarò l’indispensabilità della fede religiosa; apolide scacciato ed esiliato da ogni dove, difese l’innocenza dei costumi e delle tradizioni locali.
Heinrich Meier, professore di filosofia all’Università di Monaco che lo ha studiato per trent’anni, gli ha dedicato On the Happiness of the Philosophic Life (versione americana di un libro uscito originariamente in tedesco), un commento alla sua ultima opera, Le fantasticherie del passeggiatore solitario, che Meier giudica aliena rispetto al corpus di Rousseau, una sorta di meta-riflessione sul senso che si può dare non solo a quel corpus, e alla biografia del suo autore, ma in generale a una vita spesa nella ricerca della verità e della saggezza, e sul posto che ha in essa (se ne ha uno) la felicità.
Chi chieda se valga la pena di compiere un qualsiasi sforzo sta assumendo che ci debba essere qualcosa di esterno e posteriore allo sforzo, che lo sforzo ci permette di conseguire e che, una volta eventualmente conseguito, lo giustifichi, ne determini la consistenza e l’efficacia. E chi la pensi così non ha speranza di felicità: se la felicità è uno stato risolto in sé, indipendente da ogni altra condizione, «nessuno è felice finché la sua felicità è basata su quel che accadrà in futuro».
Quindi la felicità è possibile solo se si è concentrati senza riserve sull’esperienza attuale, se l’esperienza non ha bisogno d’altro, non è indirizzata a nulla di diverso da sé. L’effettiva durata dell’esperienza, il tempo cronologico che occupa, non contano: conta la sua dignità.
Meier, che ha scritto anche su Nietzsche, ne parla in termini che ricordano l’eterno ritorno: «Il momento è felice se ne possiamo dire “Che duri per sempre”»; «Rousseau lega la felicità al fatto che si possa dire “Vorrei che questo istante durasse per sempre”».
Come ottenere uno stato siffatto in un’esistenza limitata, in cui tutto è caduco e transitorio e ogni episodio, per quanto valido, per quanto ricco di contenuto, arriverà inesorabilmente a termine? Attraverso la conversione cui accennavo: ridirigendo il nostro sguardo dal bersaglio esterno che staremmo cercando di colpire alla sostanza delle nostre sensazioni e dei nostri pensieri. Trasformando l’esperienza da transitiva a intransitiva. Scoprendo un’attesa che è sospensione e turbamento ma non bisogno di nulla di specifico, un desiderio che desidera solo la sua stessa energia, un amore che è abbandono e accoglienza come atteggiamento, non come dipendenza da un altro. E, anche, un amore per la saggezza che è perpetua interrogazione, ammirata meraviglia per la natura, fervida, affettuosa, paziente riflessione sull’enigma sotteso da ogni banalità: cifra rivelatrice del destino dell’animale razionale, che solo realizzando la ragione, indagando senza altro motivo che l’indagine, può rispettare la propria essenza.
È significativo che Rousseau raggiunga questa consapevolezza a poca distanza dalla morte e la esprima in un’opera rimasta incompiuta; forse solo retrospettivamente si può apprezzare la fortuna che ci è toccata quando abbiamo vissuto momenti di eternità, risolti in sé, e quindi felici, perché non sviati da nessun’altra considerazione, non attratti da nessun’altra meta.
Heinrich Meier, On the Happiness of the Philosophic Life: Reflections on Rousseau’s Rêveries, tradotto da Robert Berman, University of Chicago Press, Chicago, pagg. XVIII+344, $50
Zenone e la lettura degli antichi
di Alberto Olivetti (il manifesto, 13.05.2016)
Le “Vite dei filosofi” composte da Diogene Laerzio nel terzo secolo dopo Cristo ci conservano una grande dovizia di ragguagli sui pensatori antichi. Le vite degli uomini illustri rivestivano un valore esemplare e i trascorsi di una vita, fissati in una successione di riconoscibili episodi, tenevano il ruolo di moralità ricche di insegnamenti. In particolare per i filosofi, ai fatti si attribuiva il medesimo valore educativo dei detti.
Il rango delle affermazioni contenute nelle opere di filosofia, era avvalorato e ribadito, per così dire, dai comportamenti e dalle scelte del loro autore. I detti di Socrate, degni d’esser ricordati e tramandati ai posteri, non dovevano esser contraddetti dalle azioni sue. Pena una revoca in dubbio dei presupposti medesimi del suo pensiero. Affermazioni e comportamenti, hanno da correre paralleli per conferire alla ‘persona filosofica’ il suo connotato riconoscibile. La moralità del filosofare è attestata dalla vita del filosofo. Per questo, qualora corrispondenza tra proposizioni e scelte non vi sia, non si dà ‘vita filosofica’. Appunto perché la filosofia era riguardata come ricerca d’una regola di vita. Filosofia, amore d’una sapienza volta a fornire indicazioni valide per chi intende attenersi ad una consapevolezza del vivere. Costui assume insegnamenti ed esempi nell’intento di condursi, in ciascuno dei casi della propria esistenza, secondo una regola convenuta, capace di conseguire il miglior modo di vivere.
Valga un esempio che mi piace qui richiamare. Diogene Laerzio racconta di Zenone di Cizio che, “per sapere quale era il miglior modo di vivere”, aveva interpellato un oracolo. Celebre fondatore ad Atene, nel “portico dipinto” affrescato da Polignoto, della scuola stoica, Zenone la resse per un quarantennio, tra la fine del quarto secolo e il 263 avanti Cristo. Era giunto ad Atene sui suoi trent’anni. Nativo dell’isola di Cipro, egli svolgeva una attività commerciale navigando tra le città fenice di Tiro, di Biblo, di Sidone e le città della Grecia. Un giorno fece naufragio in vista del Pireo e perse la nave e il carico di porpora, salva la vita.
Diogene riferisce, riportando la testimonianza contenuta nel primo libro “Su Zenone” di Ecatone e Apollonio di Tiro, la risposta che l’oracolo dette alla domanda di Zenone. Se vuoi vivere nel “miglior modo”, asserì il dio, “mettiti in contatto con i morti”. Il verbo greco pronunciato dall’oracolo è un verbo composto e in esso risuonano significati che l’italiano di “contattare”, o di “mettersi in contatto”, non esaurisce. E, del resto, scampato al naufragio, Zenone avrebbe dovuto ricongiungersi allora, per consiglio del dio, ai corpi dei suoi marinai annegati?
Il responso avrebbe designato il morire come il “miglior modo di vivere”. Bisogna dire che, tra le altre accezioni di quel verbo, particolarmente suggestivi paiono i richiami al senso di “prendere il colore”, “assumere un medesimo tono cromatico”, “trascolorare”. “Assumi il colore dei morti”, potremmo tradurre. Si comprende allora che, più che di contatto, di accostamento o di contiguità è invece di assimilazione e di immedesimazione che parla la voce dell’oracolo. Immedesimarsi, assimilarsi ai morti: è questo il “miglior modo di vivere”.
Zenone, scrive Diogene, “interpretò il senso di queste parole e si diede alla lettura degli antichi”. Leggere, infatti, è recare vita. Rinasce con la lettura la parola: sortisce dal bozzolo della lettera che fu tracciata e la tratteneva inerte. Si fa presente e vivo il pensiero per colui che, assimilandola, in quella parola si immedesima. Le conferisce il suo volto.
L’enigma delle norie
di Nicola Fanizza *
Guglielmo si era levato a tempo debito. Doveva andare nella stalla, distante circa dieci metri dalla sua piccola casa di campagna, per governare Martino, un cavallo che aveva il pelo rosso come il fez dei bersaglieri. Sua madre - Rosina -, la sera precedente, gli aveva dato la consegna di adacquare le piante dei pomodori. Erano passati diversi giorni dall’ultima innaffiatura. Faceva molto caldo. La salsedine, dardeggiata dal sole di Ferragosto, si era rappresa quell’anno persino sugli acini dell’uva che si trovava nella «cavata». Si trattava della parte più bassa del podere, che era situato a meno di trecento metri dal mare. La scelta di piantare la vigna in quel luogo non era stata casuale. Lì, infatti, i vitigni potevano fiorire senza che i germogli fossero bruciati dal vento che veniva dal mare.
Dopo aver dato da mangiare a Martino, gli mise il collare, gli bendò gli occhi, lo legò alla noria (a ngéegne) e, infine, si mise a innaffiare. Mentre era intento al suo lavoro, il cigolio molto particolare della noria stimolò l’attenzione di alcuni soldati inglesi che pattugliavano la costa. Questi ultimi si avvicinarono alla noria, manifestando il loro vivo dissenso nei confronti della pratica di bendare gli animali. Ordinarono, pertanto, a Guglielmo - con le parole e, insieme, con i gesti - di togliere dalla testa del suo cavallo la benda che gli copriva gli occhi. Per loro gli abitanti del Paese delle Norie erano dei barbari che «maltrattavano» gli animali.
Guglielmo cercò di far capire a quei soldati che la bendatura di Martino era comunque necessaria, poiché quest’ultimo, girando con gli occhi aperti intorno al tamburo di Vitruvio, di lì a poco sarebbe svenuto. Disse loro - mimando la vertigine - che la «capa gira» anche ai cavalli! Nondimeno gli Inglesi furono irremovibili. Di fatto, nei tre anni che restarono nel Paese delle Norie, mostrarono in diverse occasioni di amare più gli animali che gli uomini.
Quei soldati non avevano mai sentito parlare delle norie, né avevano mai avuto occasione di vederne una da vicino. Si trattava di un sistema di secchi di rame o di legno inseriti in un nastro a catena che ruotava mediante una puleggia, a trazione animale (di solito cavallo, asino o mula): i secchi si riempivano di acqua in fondo al pozzo e, allorquando giungevano sull’apice della ruota*, rovesciavano il loro contenuto in una piattaforma che era collegata a sua volta a una cisterna (u palemmidde).
Appena i soldati andarono via, Guglielmo riprese il suo lavoro. Mentre rifletteva sulla «sensibilità» degli Inglesi, sentì provenire dalla sua casa l’eco del canto di sua madre. Quest’ultima aveva studiato canto, ma aveva dovuto smettere. Aveva una voce bellissima e per questo la invitavano in Chiesa per cantare l’Ave Maria di Gounod.
Erano passati quasi nove anni dalla morte di suo marito. Dopo quel tagico evento Giovanni - il maggiore dei figli - era stato costretto ad abbandonare gli studi e si era dedicato al lavoro nei campi per far fronte alle esigenze della famiglia. Guglielmo e Isabella, che erano più piccoli, avevano continuato, invece, a studiare. Tuttavia, nella tarda estate del 1941, anche Guglielmo aveva dovuto smettere di studiare. Suo fratello era andato in guerra ed era toccato a lui prendere il suo posto in campagna.
Quando Guglielmo, terminato il lavoro, tornò a casa e informò Isabella e sua madre in merito di ciò che gli era accaduto, quest’ultima gli disse che anche lui quando era piccolo non sopportava che si bendassero gli occhi a Martino e che si metteva persino a piangere per costringere suo padre a rimuovere la bendatura dagli occhi del cavallo.
Guglielmo cascò dalle nuvole. Non si ricordava affatto di quell’episodio e disse che lo aveva, comunque, rimosso. La cancellazione di quell’episodio dalla sua memoria, tuttavia, preoccupò un po’ sua madre e la indusse a chiedere a Guglielmo se aveva riposto nell’oblio anche la sua infantile paura nei confronti dei pozzi. Guglielmo asserì che ne aveva un vivido ricordo e che aveva ancora davanti ai suoi occhi il fuoco da cui si era originata. I vicini di casa gli avevano detto che quando si avvicinava a un pozzo poteva uscire il diavolo (u gaghêure) e trascinalo giù. Prima di scoperchiarlo, pertanto, doveva segnarsi di croce. Il sottosuolo era sede del maligno, dell’oscuro, con tutte le varianti che tale credenza poteva generare.
Guglielmo aggiunse che alcuni anni dopo, grazie allo studio del pensiero illuminista, si era messo alle spalle il fardello di quelle superstizioni. L’occasione per dimostrare che non aveva paura del diavolo si era presentata alcuni anni dopo, allorquando la catena della noria si era spezzata, precipitando insieme ai secchi in fondo al pozzo. Si era offerto volontario per recuperarla ed era sceso, tramite una fune, senza alcun timore nelle viscere della terra.
Quella sera, Guglielmo non riuscì a dormire. Gli vennero in mente gli eventi del suo passato più o meno recente. Si trattava delle piccole apocalissi che avevano reso meno opaca e monotona la sua vita. Ricordò in particolare la lezione del professore di storia, in cui aveva raccontato agli studenti il seguente aneddoto relativo alla vita di Cristoforo Colombo:
«Nel 1491, il navigatore genovese si era recato a Cordova per incontrare la regina Elisabetta la Cattolica. Ma aveva dovuto aspettare più di una settimana prima di essere ricevuto. La regina, infatti, da quando era giunta in Andalusia non riusciva più a dormire. Ciò che le toglieva il sonno era proprio il cigolio della noria che alimentava i giardini dell’Alcàzar. E pertanto ordinò che venisse distrutta. Non è un caso - aveva asserito il professore - che la parola “noria” derivava proprio dal cigolio molto particolare prodotto dalla ruota».
Per Guglielmo quel suono lento e tenue era simile a quello di un organo melanconico. La noria aveva la straordinaria capacità di diffondere nelle campagne intorno un suono rassicurante e, nel contempo, inquietante. L’immagine circolare del tempo di cui la noria era il simbolo non riusciva a neutralizzare del tutto lo spettro della morte. Quel suono gli appariva, infatti, come un vero e proprio pianto di morte. Da qui la necessità di vincere la morte, da qui la necessità di mettersi in gioco, di mettersi a girare come fanno i bambini, come i bambini che, però, girano con gli occhi aperti e non hanno paura della vertigine.
Quel suono era connaturato al paesaggio ancestrale di cui era la manifestazione uditiva indissolubile. Era un suono che era destinato, comunque, a scomparire, poiché già negli anni Trenta le norie cominciavano a essere sostituite con le prime motopompe elettriche. Di lì a poco tempo, la meccanizzazione del lavoro agricolo avrebbe introdotto nuovi rumori nei silenzi delle campagne, dove prima echeggiavano, insieme al cigolio delle norie, solo i gridi dei contadini o i loro canti.
D’altra parte, nessuno riusciva a dare risposte esaustive alle sue domande. Quando erano arrivate le prime norie nel suo Paese? Chi le aveva portate? Perché le norie erano presenti per lo più nel territorio rivierasco del suo Paese ed erano quasi del tutto assenti nelle altre riviere?
Il giorno dopo, Guglielmo smise di pensare al suo passato e rivolse la sua attenzione alla sua condizione presente e cominciò a prefigurare anche il suo futuro. Si era reso conto che non riusciva a vivere solo della sua vita, sentiva l’esigenza di ascoltare gli altri. E, per di più, si trovava a vivere in uno spazio sociale in cui erano quasi del tutto assenti le relazioni degne.
Avvertiva l’esigenza di andare via. Cominciò a pensare alla sua vita sul mare e chissà forse viaggiando, avrebbe creato nuove situazioni esistenziali e avrebbe trovato anche l’occasione per risolvere l’enigma delle norie.
La vita in campagna continuava nella sua monotonia. Benedetto, un vecchio marinaio che possedeva un piccolo fondo contiguo a quello della sua famiglia, gli ripeteva sempre la stessa filastrocca: «Ho visto mio nonno per diversi anni zappare in questo fondo per tirare via le pietre; in seguito, ho visto mio padre per trent’anni zappare in questo fondo per tirare via le pietre; e, infine, sono più di quarant’anni che anch’io zappo in questo fondo per tirare via le pietre. Ebbene Guglielmo, sono convinto che le pietre crescono!».
Per converso, Andrea era il solo contadino capace di ravvivare l’ambiente con le sue feste. Ballerino e giocatore, viveva una vita allegra e spensierata, una vita fatta di banchetti e di balli che teneva spesso nella sua casa di campagna. Terminata la guerra, aveva organizzato una grande festa per l’arrivo dagli USA di suo fratello Vito con la moglie americana. I bambini si aspettavano di vederla vestita come una pellerossa, ma, pur rimanendo delusi, erano rimasti comunque incantati dal fascino della bella signora.
Intanto, Giovanni nel dicembre nel 1944 si era fatto vivo con una lettera, in cui diceva che era stato fatto prigioniero e che si trovava in Inghilterra. Guglielmo non poteva abbandonare sua madre e sua sorella fino al ritorno a casa di suo fratello. Nell’attesa, si sottopose alle visite mediche per ottenere il libretto di navigazione.
Verso la fine del 1946, gli Inglesi liberarono tutti i prigionieri e suo fratello ritornò a casa. Subito dopo, Guglielmo riuscì a trovare un imbarco come mozzo su un motopeschereccio e, finalmente, partì per il Levante!
* "Nazione Indiana", 6 gennaio 2016 (ripresa parziale: senza foto, e nota).
Noia e tedio , nostri gemelli diversi
Non dobbiamo temere il tempo e la ripetizione.
Ci sono antidoti: bellezza, arte, musica. E la vita vissuta
di Claudio Magris (Corriere della Sera, 08.01.2016)
Il piacere, scriveva Saint-Foix, ci fa dimenticare che esistiamo, mentre il tedio (la noia, l’ennui , lo spleen) ce lo fa sentire. Forse il tedio nasce dal narcisismo, dalla viziata o infelice concentrazione su noi stessi, che ci fa pretendere di essere al centro della vita anziché appagarci di essere uno dei suoi innumerevoli atomi, effimeri ma non perciò necessariamente angosciati o abbattuti, e dunque ci condanna alla smaniosa e torpida infelicità.
Sul tedio, questa passione o apatia sciaguratamente universale, ha scritto un affascinante saggio Dulce María Zúñiga, El tedio, el suicidio y la Luna . L’autrice, che si è laureata in Francia e ha conseguito il dottorato in Studi romanzi all’Università Paul Valéry di Montpellier, dirige attualmente la facoltà di Cultura dell’Università di Guadalajara, presso la quale coordina pure la cattedra latino-americana «Julio Cortázar» voluta inizialmente da Carlos Fuentes e Gabriel García Márquez e la cattedra di Humanidades «Primo Levi» ed è inoltre la direttrice del Premio Fil di Letteratura in Lingue Romanze ed è anche traduttrice dal francese dall’italiano e dal portoghese.
I suoi studi, che uniscono la precisione storica e filologica alla freschezza dell’esposizione e all’acutezza dell’interpretazione, spaziano da Calvino a Borges, da Todorov a Cortázar o a Fuentes. Con Calvino, da lei così studiato, condivide la grande virtù della leggerezza in cui la profondità si risolve. In un Bestiario della letteratura come quello scritto a suo tempo da Franz Blei, lei sarebbe un uccello dal volo lieve e dalla vista acuta che abbraccia il vicino e il lontano.
La sua prospettiva è quella della letteratura comparata, come rivelano il saggio La culpa es de la Luna e questo libro, che dedica anch’esso un capitolo iniziale al «sentire la luna» e un altro al tedio, all’accidia e alla malinconia, colti attraverso l’opera dei più vari e grandi scrittori - Pascal, Flaubert, Sartre, Moravia, Perec, oltre a una parte finale dedicata ai suicidi nella letteratura.
Fare la storia del tedio significa fare la storia non solo dei suoi grandissimi poeti quali Leopardi o Baudelaire, ma anche della letteratura universale e dell’anima umana, di quei grovigli in cui le grandi domande dell’esistenza s’intrecciano alle ambiguità e alle oscurità della psicologia. Follia lunatica, stanchezza malinconica della vita, suicidi; temi non allegri, ma affrontati dall’autrice senza pathos tragico. C’è addirittura un «elogio del Tedium vitae» , forse memore dell’accostamento leopardiano fra noia e sublime. Perché elogio, le chiedo?
DULCE MARÍA ZÚÑIGA - Precisamente è a Leopardi che pensavo quando ho scritto l’elogio del tedio, perché lui l’ha pensato a lungo e l’ha sofferto profondamente. Per Leopardi il concetto è molto complesso. Dato che l’uomo è infelice per natura, consuma la sua vita cercando piacere e felicità irraggiungibili. Questo sentimento d’insoddisfazione, questa mancanza di piacere porta alla noia che è «figlia della nullità e madre del nulla», scrive il poeta recanatese nello Zibaldone . È il senso di una delusione perpetua verso un piacere inappagato, che provoca l’infelicità e il senso della nullità di tutte le cose. Ma, dall’altra parte, la considera «il più nobile dei sentimenti umani, ciò che ci permette di prendere coscienza dell’essenza della vita, nella misura in cui la noia è «la semplice vita sentita, provata, conosciuta». Il tedio sembra essere una condizione umana che implica senso di vuoto e di scontentezza della vita. Ma è anche un topos letterario che ha dato grandissime opere nella letteratura mondiale di tutti i tempi, non è vero? Anche lei si è occupato di questi temi.
CLAUDIO MAGRIS - Sì, sono stato affascinato da autori, quali ad esempio Jacobsen o Goncharov, che si sentono fuori dalla vita, vedendola scorrere davanti a loro come un fiume, sulle cui rive siedono senza partecipare al suo fluire, e che si chiedono quando si vive veramente, ma contemporaneamente avvertono la vita come un’aggressione che li minaccia o cercano di sfuggirle, come Svevo, scrivendola e leggendola per evitare di viverla.
Ma tedio e noia sono due cose diverse. Il primo esiste certamente, si confonde con la malinconia e col male di vivere, nasce pure dalla mancanza di un valore e di un fondamento che diano un senso all’esistenza e soprattutto da depressioni anche clinicamente patologiche. Come lei scrive, il tedio è legato all’odio, a quell’odio di sé cui è riservato un girone nell’ Inferno di Dante. Invece la noia forse di per sé non esiste: se si fa la coda davanti a uno sportello si può essere irritati perché ciò impedisce di fare altre cose più urgenti, ma non ci si «annoia» necessariamente. Talvolta si potrebbe anzi approfittare di quella pausa nella febbrile corsa dei doveri - una pausa che consente di pensare, ricordare, rivedere nella mente volti e paesaggi amati.
Goethe non capiva come si potesse non amare la ripetizione, le stesse cose che ritornano, uguali e sempre diverse come il ripetersi delle stagioni e delle ore con la loro luce e la loro ombra. L’incapacità di amare la ripetizione è forse un segno di aridità. Certo, quando la noia è depressione, male oscuro, morte nell’animo, infelicità, è un’altra cosa.
DULCE MARÍA ZÚÑIGA - Certo, la noia è collegata al tempo. L’uomo annoiato ha una percezione molto alterata del tempo: i minuti, le ore, i giorni sembrano tutti identici e la ripetizione degli istanti incrementa il sentimento del vuoto. Altro che indifferente, l’annoiato è preso dall’inquietudine, soffre e cerca di sfuggire, ma il male è in lui. Ad esempio Oblomov, il personaggio di Goncharov che ha citato prima: non esce dalla sua camera perché sente che è inutile, la noia andrà con lui ovunque sia. Un altro esempio è Jean Des Esseintes, di A rebours de J.K. Huysmans: tenta di sfuggire al Taedium vitae tramite l’arte e la bellezza, ma non ci riesce. Questi due romanzi traducono poeticamente la decadenza del Ottocento europeo.
CLAUDIO MAGRIS - Il Taedium vitae ha pure implicazioni storiche e sociali, caratterizza epoche e classi stanche e blasé . È diffuso soprattutto fra i privilegiati preservati dalla lotta per la sopravvivenza. Chi ha fame, chi porta il peso di un lavoro massacrante o della mancanza di un lavoro, l’immigrato che sbarca in Sicilia o muore in mare difficilmente soffre di noia come i personaggi di Chateaubriand e non ha bisogno di reprimere «l’affettazione del tedio», come esortava Fénelon.
DULCE MARÍA ZÚÑIGA - Dall’antichità la nozione e dunque la sensazione di tedio si collegava con la classe nobile, mai con i lavoratori. Era un privilegio dei sovrani e di coloro che si dedicavano all’ozio creativo: filosofi, poeti e artisti. Quando tutti i bisogni materiali erano soddisfatti, allora si poteva pensare ai bisogni spirituali e allora si sentiva il peso del nulla, dell’insignificanza dell’uomo davanti alla Natura o alla divinità.
CLAUDIO MAGRIS - Forse la risposta al tedio e alla noia è la «persuasione» di Michelstaedter, la capacità di vivere a fondo ogni attimo senza la smania che esso passi presto, senza l’autodistruttivo desiderio di vivere già nel domani - un domani che è sempre domani e dunque non c’è mai, - ossia di essere più vicini alla morte. Lei cita un passo di Gautier in cui si parla del tempo che noi vogliamo uccidere e che invece ci uccide; forse si vince il tedio vivendo invece a fondo il tempo, ogni suo istante...
DULCE MARÍA ZÚÑIGA - Vero, si deve vivere il presente integralmente, ma non si può evitare di sentirsi manchevoli: la felicità e la compiutezza sono sempre aldilà. Schopenhauer ha scritto che la condizione umana è un pendolo che oscilla tra il dolore e la noia: la sofferenza ci fa sentire vivi, invece la noia è il vuoto, l’assenza di desideri. Una forma di sfuggire a questa condizione è l’arte, la musica, la bellezza... Senza la noia, Leopardi non avrebbe mai scritto I canti , Baudelaire Les fleurs du mal , Flaubert Madame Bovary , Moravia La noia e tanti altri capolavori. Il benessere, la comodità, il comfort e la soddisfazione di se stessi non hanno mai prodotto grande letteratura.
Perché non possiamo rinunciare alle feste
L’importanza di riti e gesti strutturati (al di là delle credenze religiose)
Sono abitudini che giocano un ruolo chiave nel nostro essere umani e sociali
Alla ripetizione diamo il compito di mettere ordine nel fluire caotico della realtà
Dai pranzi ai regali, dall’incontro con i parenti a viaggi e luminarie
di Carlo Rovelli (Corriere della Sera, 07.01.2016)
Le feste sono passate. Anche quest’anno è passata l’ondata di emozioni, pranzi, dolci, parenti, piccoli viaggi, regali e quant’altro che accompagna il periodo natalizio. Mi stupisce sempre quante cose riesca a smuovere questo periodo. Anche chi cerca di resistere, finisce per esserne trascinato. Non si può non andare a trovare un parente caro. Non si può, alla fine, non fare un regalo. Non si può non imbandire almeno un poco la tavola, preparare almeno un alberello, un piccolo presepe, una lucetta colorata, o almeno una candela. Non segnare questo tempo dell’anno con un gesto. Da dove viene questa immensa forza delle feste su tutti noi?
Per i cristiani il Natale è la celebrazione della nascita del Salvatore. La celebrazione dell’arrivo di Chi ci ha salvato. È una celebrazione che non può non smuovere nel profondo: l’arrivo dell’invisibile nel mondo. Il presepe ricrea questo momento magico assoluto, immerso in una luce di pura emozione. Ma la festa di fine dicembre è assai più antica e profonda del Cristianesimo: il Cristianesimo l’ha fatta propria, vi ha innestato la propria mitologia e la propria teologia, ma è salito su qualcosa di profondamente umano, che lo precedeva. Nella Roma antica già si accendevano le candele e ci si scambiava regali all’avvicinarsi della fine di dicembre, ben prima della nascita di Gesù. Tribù del Nord celebravano il solstizio d’inverno ben prima che arrivasse loro il messaggio cristiano. La forza che ci spinge a questi gesti è più antica del Cristianesimo. Che forza è?
Un grande libro, pubblicato alcuni anni or sono e scritto da uno dei maggiori antropologi del secolo scorso, Roy Rappaport, è interamente dedicato all’origine antica dei riti. Rappaport ha passato la vita a studiare i riti, a cercare di rintracciarne la storia e il senso. I riti, se ci pensate, sono qualcosa che sembra strano e poco comprensibile agli occhi di una modernità ingenua. Un rito è un gesto, un’azione, una parola, che vengono ripetuti eguali, più o meno regolarmente, e che hanno un’intensa portata emotiva per chi li compie, anche se spesso non sembrano avere utilità diretta, o almeno non un’utilità capace di giustificare la straordinaria forza con cui permangono.
Perché da millenni ci scambiamo un regalo alla fine di dicembre? Sono crollati imperi, sono stati trucidati interi popoli, abbiamo cambiato religione più volte, siamo stati ricchi e poveri, dominati e dominatori, abbiamo creduto nelle streghe e siamo arrivati sulla luna, e con assoluta regolarità ad ogni fine dicembre ci siamo scambiati un piccolo regalo, abbiamo acceso una candela o una piccola luce. Non è straordinario?
Secondo Rappaport, la nascita dei riti risale alla formazione stessa dell’umanità: al periodo dell’apparizione del linguaggio articolato che caratterizza oggi così marcatamente la nostra specie. I riti secondo Rappaport giocano addirittura una funzione chiave nella costruzione stessa del nostro essere umani, e in particolare del nostro essere sociali. Comportamenti rituali, cioè elaborati gesti complessi ripetuti e senza apparente fine diretto sono comuni in molte specie animali e spesso ancorano la formazione di legami duraturi, come per esempio i complessi rituali di corteggiamento di molte specie monogame.
Nella specie umana il linguaggio porta a costruire un complesso mondo astratto dove prendono vita innumerevoli entità nuove che prima non esistevano (leggi, matrimoni, sentenze, contratti, regni, nazioni, proprietà, diritti...), le quali hanno statuto di realtà per all’azione degli uomini, e hanno forza in quanto componenti di un sistema che è condiviso. Tutto questo si regge sull’adesione di ciascuno al sistema condiviso, e quest’adesione, seguendo leggi profonde nella nostra struttura mentale di primati, si forma con un gesto rituale e si riafferma regolarmente in un gesto rituale. Il rito, insomma, è il fondamento stesso della complessa realtà sociale e spirituale umana entro la quale si svolge la parte più grande della nostra vita di esseri umani.
Così la vita comune di due persone che si amano si appoggia ad un rito che è il matrimonio; la vita professionale di un dottore si appoggia su un rito che è la sua laurea; gli anni di galera di un ladro dipendono da un rito che è il processo; la legittimità di un parlamento si appoggia sul rito elettorale; la legittimità della proprietà della mia casa si appoggia su un rito che è la firma da un notaio; la vita interiore di un cattolico su un rito settimanale che è la Messa cattolica, la vita interiore di un buddista sul rito della meditazione, e la vita scientifica del mio piccolo gruppo di ricerca a Marsiglia su quel rito un po’ sfilacciato che sono le nostre più o meno regolari riunioni per mangiare un panino e parlare di fisica..., e via così all’infinito. Alla ripetizione di gesti strutturati e regolati, affidiamo il compito di mettere ordine nel fluire caotico della realtà e di darci i punti fermi, i punti dove ancorare la nostra lettura del mondo, e il nostro essere nel mondo.
Non so se la lettura dei riti che fa Rappaport sia giusta nei dettagli. Non so neppure fino a che punto sia condivisa da chi si occupa oggi di antropologia dei riti. Ma certo ci insegna qualcosa di importante e profondo: noi esseri umani siamo complessi, siamo fatti di strati diversi che noi stessi spesso in generale non capiamo del tutto. Delle regole che ci portano, se non ci occupiamo di studiarle, non siamo neppure consapevoli. Diamo loro dei nomi, e ci lasciamo trasportare da esse e dalla vita.
E a ogni Natale, che siamo cattolici ferventi o atei cristallini, noi italiani torniamo a casa a trovare il nostro vecchio padre, e scambiamo qualche dono con i nostri amici. Così il mondo torna in ordine: ci rassicuriamo del legame di affetto che ci lega, ci sentiamo a casa nel mondo. E siamo pronti a ripartire per la vita.
Pierre Hadot (1922-2010)
Il sublime dentro di me
di Pierre Hadot e Arnold I. Davidson
Il Sole-24 Ore, Domenica, 08.02.2015
Pierre Hadot ha trasformato la nostra idea non solo della filosofia antica, ma della filosofia in quanto tale. Dai suoi primi studi sulla filosofia neoplatonica, fino al suo ultimo libro su Goethe e la tradizione degli esercizi spirituali, Hadot ci ha fatto vedere e capire il valore della filosofia antica per tutta la storia della filosofia. Secondo Hadot nella filosofia antica tutti i discorsi, le teorie, le astrazioni filosofiche sono al servizio della vita filosofica, della pratica concreta della filosofia. La filosofia senza carne e animo, senza i filosofi, non è che un passatempo intellettuale, cioè manca la dimensione di una scelta esistenziale di vivere in un certo modo. Hadot sintetizza la sua idea fondamentale così: «[...] tutte le scuole dell’antichità rifiutavano di considerare l’attività filosofica come puramente intellettuale, ma la consideravano come una scelta, che impegnava tutta la vita e tutta l’anima. L’esercizio della filosofia non era, quindi, solo intellettuale, ma poteva anche essere spirituale. Il filosofo non forma solo allora a un saper parlare, a un saper discutere, ma a un saper vivere nel senso più forte e nobile del termine. Invita i suoi discepoli a un’arte di vivere, a un modo di vita».
Questa forza spirituale della filosofia non si localizza semplicemente nella parte etica della filosofia. La pratica della filosofia si trova all’interno di ciascuna disciplina tradizionale della filosofia: etica,logica, fisica. La filosofia è allo stesso tempo un’etica praticata, una logica praticata e una fisica praticata. Ogni parte della filosofia implica un discorso teorico e una pratica vissuta. Allora, «la filosofia vissuta non si limita alla pratica dei doveri morali, ma comporta un controllo dell’attività di pensiero e una coscienza cosmica. La filosofia vissuta è quindi una pratica, un modo di vita che abbraccia tutta l’attività umana e non solo un’etica nel senso più ristretto del termine».
Vivere la filosofia richiede un appello alla guida di una figura esemplare, chiamata, nella filosofia antica, il saggio: «il filosofo si chiederà in ogni circostanza: Cosa farebbe il saggio in questo caso?». Se in alcune scuole antiche il saggio può essere «un ideale quasi inaccessibile, più una norma trascendente che una figura concreta», non dobbiamo dimenticare che «la figura ideale del saggio non è stata proiettata nell’assoluto, non è una costruzione teorica». Hadot conclude: «[...] la figura del saggio perfetto corrisponde all’idealizzazione, alla trasfigurazione, alla canonizzazione, per così dire, di figure ben concrete, che sono questi uomini retti, questi saggi che vivono tra gli uomini».
Nell’antichità, possiamo distinguere due tipi di paesaggio: il paesaggio piacevole (locus amoenus) e il paesaggio grandioso o sublime. [...] Se, nell’antichità, il «luogo piacevole» è indiscutibilmente un oggetto di contemplazione estetica, lo sono anche gli spettacoli grandiosi, selvaggi o terrificanti che la natura può offrire all’uomo? [...]
L’ammirazione per gli spettacoli grandiosi della natura è ben attestata in tutta l’antichità, da Omero (Iliade, VIII, 555 o IV, 442) ad Agostino: «Gli uomini ammirano le vette delle montagne, le onde gigantesche del mare, l’ampiezza dei corsi dei fiumi, l’immensità dell’oceano, le rivoluzioni degli astri».
Anche questi spettacoli sublimi, come la vista dei luoghi piacevoli, fanno presagire una presenza divina. Nella Lettera 41, volendo mostrare come il saggio faccia intravedere qualcosa di sacro, Seneca compara il sublime della virtù al sublime della natura, ed evoca il sentimento di stupore e di ammirazione, l’emozione sacra provocata dallo spettacolo delle foreste profonde e solitarie, delle grotte, degli antri inesplorabili, dei laghi, delle sorgenti dei grandi fiumi. In Orazio, questo sentimento del sublime sembra avere una tonalità dionisiaca: «Dove mi conduci, Bacco, pieno di te? In quali boschi, in quali grotte mi trasporta l’improvvisa ispirazione? [...] Come, sulle vette, la Baccante insonne cade in estasi [...], così io amo, lontano dai sentieri, ammirare le rive e i boschi solitari». Questo paese dionisiaco è quello delle Baccanti di Euripide: le montagne, i boschi fitti, le gole scoscese, la natura selvaggia.
Come già accennato, il sentimento del sublime può essere ispirato sia dallo spettacolo della natura, sia da quello dell’anima del saggio. Questo tema è particolarmente caro a Seneca, ad esempio nella Lettera 89: «Se solo, come il volto dell’universo che si presenta al nostro sguardo nella sua interezza, la filosofia potesse, anch’essa nella sua interezza, presentarsi ai nostri occhi, replica dello spettacolo dell’universo, essa susciterebbe ammirazione in tutti i mortali».
E soprattutto, nella Lettera 64: «Non sono meno estasiato dalla contemplazione della saggezza di quanto io non lo sia, in altri momenti, dalla contemplazione del mondo che, di frequente, guardo come farebbe uno spettatore che lo vede per la prima volta».
Il sublime è quindi percepito al tempo stesso nel mondo esterno e all’interno della coscienza. Possiamo immaginare che queste due fonti stoiche del sublime costituiscano il modello antico della celebre frase di Kant, che apre la conclusione della Critica della ragion pratica: «Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me. Queste due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte nell’oscurità, o fossero nel trascendente, fuori dal mio orizzonte; io le vedo davanti a me e le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza».
Torniamo alla frase della Lettera 64: il «mondo che, di frequente, guardo come farebbe uno spettatore che lo vede per la prima volta». Si tratta di un’osservazione straordinaria, estremamente rivelatrice e che troviamo raramente nell’antichità. Seneca afferma di trovarsi di fronte al mondo come uno spectator novus, che dirige cioè sul mondo uno sguardo nuovo.
Questo sguardo nuovo non è un’intuizione gratuita e inattesa, ma il risultato di uno sforzo interiore, di un esercizio spirituale destinato a vincere l’abitudine che rende banale e meccanico il nostro modo di vedere il mondo, destinato anche a distaccarci dall’interesse, dall’egoismo, dalle preoccupazioni che ci impediscono di vedere il mondo in quanto mondo, perché ci costringono ad applicare la nostra attenzione sugli oggetti particolari che ci procurano piacere o che ci sono utili.
Al contrario, è grazie a uno sforzo di concentrazione sull’istante presente, vivendo ogni momento come se fosse allo stesso tempo il primo e l’ultimo, senza pensare al futuro o al passato, percependo il suo carattere unico e insostituibile, che è possibile percepire, in questo istante, la meravigliosa presenza del mondo. Bisogna anche aggiungere che in Cicerone (De natura deorum, III, 38, 96), Seneca (Naturales quaestiones, VII, 1), Lucrezio (De rerum natura, II, 1023 e sg.) e Agostino (De utilitate credendi, XVI, 34) ritroviamo l’idea per cui è solo l’abitudine, la routine della vita quotidiana che ci impedisce di percepire il mondo come un miracolo. E, per l’appunto, questa percezione del mondo è sublime perché, come la figura del saggio, è un “paradosso”, qualcosa che trascende l’abituale esperienza umana.
Pierre Hadot
Jacqueline Risset, la ribellione attraverso l’istante
di Emanuele Trevi *
Nata a Besançon, come Victor Hugo e i fratelli Lumière, nel 1936, Jacqueline Risset se n’è andata all’improvviso lo scorso 3 settembre. Negli ultimi mesi, l’immane lavoro di revisione della sua traduzione in francese delle rime di Dante l’aveva non poco logorata. «Questo lavoro finirà per uccidermi», raccontava spesso agli amici. Modi di dire che ogni tanto, con la precisione di un’imperscrutabile roulette metafisica, si rivelano veri alla lettera. Ci sono in effetti lavori e dedizioni che diventano forme di vita e infine malattie mortali. Breve o lungo che sia, lo stoppino che ci è toccato in sorte arde e si consuma più in fretta al fuoco di un’impresa difficile, dall’esito incerto.
D’altra parte: se non si vive così, che si vive a fare? Ormai vicina agli ottant’anni, e ancora avvolta nel suo fascino irresistibile, Jacqueline non ha mai commesso l’errore fatale di chi si illude che invecchiare significa avere imparato qualcosa. Perché in realtà solo i mediocri capitalizzano, ricorrono al «mestiere». Un carattere autentico di artista percepisce fino all’ultimo ogni opera come un nuovo esordio, un nuovo azzardo. A questo proposito ricordo di una volta che, durante una delle lunghe telefonate mattutine che Jacqueline ragalava agli amici, abbiamo parlato a lungo di una serie di pastelli ai quali Dubuffet aveva lavorato negli ultimi giorni di vita, come un bambino che scoprisse il fascino di certi colori, del verde, del giallo squillante.
Questa inclinazione fondamentale all’esperimento è anche una chiave, a mio parere, per spiegare la fedeltà di Jacqueline a certi ideali giovanili che molti compagni di strada, in maniera più o meno esplicita, si sono dedicati a rinnegare col passare del tempo. Mi riferisco, ovviamente, alla lunga esperienza di redattrice di una rivista come «Tel Quel», che in Francia è diventata un periodico bersaglio di vituperi come da noi il Gruppo 63.
Per Jacqueline, era un po’ triste vedere tanti protagonisti della grande festa mobile dello sperimentalismo piegarsi, arrivati i capelli bianchi, a più miti consigli, dedicandosi a imbastire tradizionalissimi romanzi. Tutto sommato, in quell’arte gli scrittori più commerciali erano più bravi, più avvincenti. Quanto a lei, amava gli impenitenti, i sovrani spregiatori dei dibattiti e dei periodi storici. La carriera di Henri Michaux la riempiva di ammirazione più di cento Premi Gouncourt di cui l’anno dopo non si ricorda più nemmeno il titolo.
Queste riflessioni mi conducono quasi naturalemente a parlare dell’altra opera terminale che Jacqueline ci ha lasciato assieme alla traduzione delle rime di Dante, un libro intitolato Les instants les éclairs uscito qualche mese fa da Gallimard nella collana «L’Infini» diretta da Philippe Sollers (pp. 177, euro 16,90). È duro constatare come un’opera si trasformi in un testamento così come, per riflesso, una recensione si trasforma in necrologio.
Eppure, anche se nulla fa presagire la fine del work in progress, questo libro è una vera «summa», come si diceva un tempo, del tema che più interessava la scrittrice lungo tutta la sua ultima stagione: l’istante nella sua dimensione psicologica e creativa, e i suoi legami con l’infanzia e il sogno. È un’indagine che dai versi delle ultime raccolte (auto-tradotti e pubblicati da Einaudi nel 2011 con il titolo Il tempo dell’istante) si trasferisce nella prosa nitida e tagliente dell’ultimo libro: una collezione di minerali psichici e meditazioni che a lettura ultimata si rivela un memorabile esempio non tanto e non solo di letteratura, ma di «cura di sé» intesa, nel senso che Foucault dà alla celebre espressione, come attività perpetuamente orientata alla scrittura e alla produzione di forme.
Ho detto prima che quello dell’istante, o della molteplicità degli istanti che trafiggono il continuum dell’esistere, è un «tema», ma mi accorgo che questa parola è troppo parziale e approssimativa. Jacqueline ci parla di un’inclinazione fondamentale e innata del suo carattere, e dunque di una forma di vita che si sviluppa al di fuori della volontà, così come il corpo, col passare del tempo, assume certe forme e non altre. Si capisce bene come il ricorso ai ricordi dell’infanzia sia così importante e così ben allacciato alla materia onirica. La costellazione si completa e assume la pienezza del suo significato con l’esperienza amorosa, il coup de foudre che irrompe e devasta il tessuto del tempo.
Tutto questo materiale di lavoro, se così vogliamo definirlo, costringe la scrittura al di fuori di un progetto narrativo. Costituisce, come viene detto con illuminante precisione, «il contrario di un progetto». Sarà la pigrizia? si chiede spesso Jacqueline. La verità è che si è nati in un certo modo, e come don Abbondio non si poteva dare il coraggio che non aveva, non si può concepire un «progetto» semplicemente perché si vorrebbe dare ordine alla propria vita o scrivere un romanzo di successo.
A Jacqueline, la lettura dei romanzi non dispiace affatto, ci mancherebbe, ma quella che ci racconta è un’altra storia, tanto più preziosa in un’epoca in cui un turpe pensiero unico, che accomuna l’editoria e le scuole di scrittura e il giornalismo, assegna allo storytelling e alle sue dozzinali felicità il ruolo spropositato di un criterio estetico universale capace di marginalizzare ogni altra forma d’espressione. E invece Jacqueline, con questo suo ultimo libro, ci ha lasciato un’inestimabile lezione di libertà, che consiste nel fare perno sul proprio limite per condurre la scrittura nell’alveo di un’assoluta spontaneità, priva di inutili concessioni allo spirito del tempo.
Come ogni libertà, anche questa che ci viene mostrata in Les instants les éclairs è frutto di una ribellione: al predominio della durata, e a tutte le forme di narrazione di sé e del mondo che la durata incatena nell’economia della causa e dell’effetto, del prima o del dopo, del verosimile. Mi colpisce molto, arrivati a questo punto, la consonanza con il pensiero di un altro grande ribelle del Novecento, arrivato anche lui, nell’ultima fase del suo pensiero, a un vero culto dell’istante e delle tecniche di annotazione di questa impalpabile, fuggitiva ricchezza.
Penso al Roland Barthes della Camera chiara e soprattutto di quello stupendo ultimo corso tenuto fra il 1978 e il 1980 al Collège de France e intitolato La preparazione del romanzo. Anche in questo caso, si tratta di un testamento, ma involontario: Barthes morì pochi giorni dopo aver tenuto l’ultima lezione a causa di un incidente stradale. Ma c’è una grande differenza di metodo da segnalare: perché nelle lezioni di Barthes il modello supremo di «cattura» dell’istante è a sua volta un genere poetico altamente codificato come l’haiku del periodo d’oro giapponese, e tende al satori della pratica zen, quell’estasi di illuminazione nella quale salta la distinzione fra il soggetto e l’oggetto.
Confrontando le due opere, Les instants les éclairs ci appare più libera, perché l’autrice non si affida a un modello così vincolante. A un tale grado di indipendenza e fedeltà a se stessa, nemmeno la distinzione dell’adorato Proust tra memoria volontaria e involontaria le sembra più utile.
Lo scandalo dell’istante è tale sia che andiamo a cercarlo, sia che rischiari all’improvviso la notte della durata. Più che di una teoria, si avrebbe bisogno di una magia. Ma l’unica magia che abbiamo veramente a disposizione è essere se stessi, con tutto il peso della propria trepidante, fervida «pigrizia». Noi sogniamo, ci innamoriamo, ripensiamo a un dettaglio della nostra infanzia, e una felicità anarchica, priva di «progetto», ci invade come una marea, come la luce dell’alba. E il peso che ci portavamo sulle spalle, senza merito e senza volontà, si srotola ai nostri piedi, è diventato un tappeto volante.
Il convegno
A un anno dalla scomparsa di Pierre Hadot resta sorprendente e pregnante la sua «lezione» che riscopre nell’antichità greca una filosofia che è prima di tutto un modo di vivere e formare esseri umani e cittadini
Cambiare se stessi per cambiare il mondo
di Romano Màdera, psicoanalista (l’Unità, 08.04.2011)
Un anno fa, in aprile, moriva Pierre Hadot, l’uomo che ha cambiato per molte persone e per molti studiosi, in Francia e nel mondo, il significato della parola filosofia, riscoprendo nell’antichità greca e romana le tracce di una filosofia che è innanzitutto un modo di vivere, prima ancora di essere un discorso, un insieme di teorie.
Una visione sorprendente anche per chi ha studiato filosofia a scuola o all’università e ne ha tratto, quasi sempre, l’impressione che si tratti di una raccolta a volte interessante, a volte noiosa di pensieri ben argomentati, ma raramente capaci di incidere nella vita quotidiana. Per Hadot i testi antichi non si possono comprendere a fondo, né si possono spiegare le frequenti contraddizioni, le ripetizioni, le variazioni di uno stesso concetto, se non si collocano gli scritti che ci sono rimasti dentro il contesto nel quale sono stati concepiti.
Non si tratta di sistemi di pensiero: la loro finalità non è principalmente quella di informare, di trasmettere saperi, ma, invece, quella di formare uomini diversi, capaci di migliorare se stessi, di raggiungere pienezza di vita, di contribuire alla costruzione di una città, di una polis e quindi di una politica orientata al bene e alla giustizia.
Dal suo lavoro scrupolosissimo di filologo e di storico (ha curato, fra le tante altre, la riedizione dell’opera di Marco Aurelio e di Plotino, ha insegnato al Collège de France), Hadot è arrivato alla convinzione che la filosofia è qualcosa di molto diverso dallo studio dei testi e dalla vita dei professori di filosofia: la filosofia è l’esistenza stessa, l’esistenza di tutti giorni, trasformata in un tentativo, sempre rinnovato e mai acritico, di praticare ciò che si ritiene bene per sé e per gli altri, di esercitarsi ogni giorno per avvicinarsi alla verità su se stessi e sul mondo che ci circonda, di svincolarsi dalla prigione del proprio particolaristico, egoistico interesse, dalla morsa delle passioni che non si acquietano mai in una stabile capacità di apprezzare l’esistenza.
Hadot è stato uno studioso di prima grandezza, è certo, ma ciò a cui più teneva era di riuscire ad essere un filosofo praticante. In un libro-intervista (La filosofia come modo di vivere, pubblicato da Einaudi ) nel quale ripercorre le tappe della sua biografia e ricostruisce le linee fondamentali del suo pensiero dice con la sua abituale semplicità e franchezza: «Personalmente, pur cercando di portare a buon fine il mio compito di storico e di esegeta, mi sforzo soprattutto di condurre una vita filosofica, cioè, semplicemente... consapevole, coerente e razionale. I risultati non sono sempre di livello molto alto, bisogna riconoscerlo. Durante i miei soggiorni all’ospedale, per esempio, non sempre ho conservato la serenità d’animo che avrei voluto mantenere. Comunque sia, cerco però di pormi in determinati atteggiamenti interiori, come la concentrazione sull’istante presente, la meraviglia di fronte alla presenza del mondo, lo sguardo rivolto alle cose dall’alto ... la presa di coscienza del mistero dell’esistenza».
Questi sono alcuni degli Esercizi spirituali nella filosofia antica alla cui riscoperta Hadot ha dedicato la vita e il suo lavoro di studioso (il suo libro più famoso porta lo stesso titolo). Si tratta innanzitutto di una «conversione», parola che Hadot ritrova nella filosofia antica e che dunque non è esclusiva della religione, poi di una disciplina quotidiana fatta appunto di esercizi, come parte dei quali troviamo il dialogo, la lettura, lo studio, perché filosofico è un modo di vivere che continuamente si interroga su se stesso cercando di esaminare idee e comportamenti alla luce della ragione. Lo scopo è quello di cambiare se stessi perché serenità e felicità non si trovano inseguendo forsennatamente le illusioni delle passioni egoistiche, ma nel riconoscerci nella realtà e nella verità del nostro essere parte del cosmo, in relazione di interdipendenza con gli altri.
Di fronte alla vertigine della crisi di ogni riferimento all’universale che attanaglia la nostra epoca, Hadot, con semplicità e fermezza, guida il nostro sguardo nella direzione di una sempre riemergente tensione verso la verità, verso la ragione universale, verso gli altri come cuore e mente di una vita ricca di senso. Cambiare la vita, cambiare almeno una vita sapendo che questa è la condizione prima perché la vita associata sia degna di un’umanità consapevole del legame di destino che ci vincola gli uni agli altri. Questo è il compito di una filosofia che per essere modo di vita riconosce di portare in se stessa la sua vocazione alla vera politica.
All’indomani della scomparsa, il quotidiano francese Le Monde ricordava così Pierre Hadot: «Coerentemente al suo modo di ragionare, questa sobrietà si ritrova con grande evidenza nella sua vita quotidiana, costellata di gioie intense, perché semplici. Malgrado questo, Pierre Hadot non amava essere definito un saggio. E questo è il solo punto su cui aveva torto».
Destino, speranza, meditazione: Pierre Hadot, del Collège de France, ricostruisce gli «esercizi spirituali» del poeta tedesco
«Ricordati di vivere». L’inno alla vita di Goethe
Ha scritto Goethe: «Perché dovrei, in una vita così breve, tormentarmi? Perciò ti raccomando: memento vivere»
Gli esercizi spirituali di Goethe sono atti dell’intelletto con i quali l’individuo si sforza di trasformare il suo modo di vedere il mondo al fine di trasformare se stesso
di Nuccio Ordine (Corriere della Sera, 30.08.2009)
«Memento mori! / perché dovrei, in una vita così breve, / tormentarmi?»: Johann Wolfgang Goethe, in una stupenda poesia intitolata «Genio librantesi sopra la terra», tesse un inno alla vita, mostrando i limiti di una cultura dominata dal pensiero della morte. «Perciò, come un vecchio barbogio, / docendo ti raccomando, / caro amico, secondo il tuo modo, / Memento vivere, non altro». Il genio che vola alto, nel tentativo di abbracciare l’infinito, si commuove di fronte allo spettacolo cosmico e scoprendosi parte del tutto trasforma la sua meraviglia in un amore illimitato per la vita.
L’esistenza merita di essere vissuta di per sé senza lasciarsi distrarre dalla promessa di altre vite altrove. Basta un attimo eccezionale, un’occasione insperata, per capire che la vita che stiamo vivendo, nonostante difficoltà e pene, ci può far gioire della vita e che le cose terrene non meritano disprezzo ma possono essere fonte di un’intensa felicità, incitando l’io ad andare oltre se stesso per mettersi anche al servizio degli altri.
A queste straordinarie riflessioni di Goethe dedica pagine appassionate Pierre Hadot, professore emerito nel Collège de France e internazionalmente riconosciuto come uno dei più grandi specialisti di filosofia antica. Nel suo ultimo libro, Ricordati di vivere. Goethe e la tradizione degli esercizi spirituali - edito da Cortina (pp. 174, e 19,50) nell’ottima traduzione italiana di Anna Chiara Peduzzi - lo studioso ci propone una profonda analisi dei testi goethiani alla luce delle fonti classiche (con una particolare attenzione per epicurei, stoici e cinici). E attraverso tre ricchi capitoli, ci mostra come Goethe abbia compiuto dei veri e propri «esercizi spirituali», espressione più volte utilizzata da Hadot in diversi suoi libri e che, contrariamente a quanto credono alcuni critici, non ha nessuna connotazione religiosa. «Si tratta - specifica l’autore nella sua introduzione - di atti dell’intelletto o dell’immaginazione o della volontà caratterizzati dalla loro finalità: grazie ad essi, l’individuo si sforza di trasformare il suo modo di vedere il mondo al fine di trasformare se stesso».
Hadot inizia soffermandosi sull’esercizio che più volte ritorna nell’opera di Goethe: concentrarsi sull’istante presente, cercando di vivere intensamente ogni attimo dell’esistenza. Nell’avvincente dialogo tra Faust («L’animo allor placato non guarda a ciò che è stato né a quello che sarà. Solo il presente...») ed Elena («... è la nostra felicità») si concretizza lo splendore dell’essere: per liberarsi dalle banalità e dalla trivialità del quotidiano non c’è bisogno di evadere dalla realtà rifugiandosi nel passato o nel futuro, ma occorre sapersi liberare dagli egoismi che ci impediscono di vedere lo splendore del momento presente. Proprio in questa magica percezione è possibile cogliere il senso profondo del valore della vita.
Basta librarsi in volo verso il cielo stellato o ascendere una montagna per intraprendere un altro esercizio spirituale caro all’olimpico Goethe. E proprio nel secondo capitolo, Hadot mostra come lo sguardo dall’alto consenta ai personaggi goethiani di vivere istanti eccezionali attraverso la contemplazione della natura. Il sublime spettacolo delle cose che ci circondano simbolizza anche il piacere e la serenità provocati dalla poesia o dall’arte, anch’esse sospese, come l’uomo, tra il cielo e la terra.
Nell’interpretazione della poesia intitolata «Parole primordiali» è possibile, per Hadot, individuare il terzo esercizio spirituale, fondato sulla «descrizione del destino umano», in cui la speranza «fa da coronamento alla poesia», costituendo un «atteggiamento fondamentale».
Alla fine di questo percorso affascinante il lettore ritroverà l’eco dell’amore di Goethe per la vita dalla prima all’ultima pagina del libro. E non potrà fare a meno di apprezzare che il rilancio dell’invito a vivere del poeta tedesco sia oggi promosso da un entusiasta ottantasettenne. Questo Goethe, nella rilettura di Hadot, ci insegna che non è vero che al di fuori dell’eternità non ci possa essere felicità. Dire sì al vivere e al mondo significa imparare a dare un valore infinito agli istanti minimi della nostra esistenza.