DAL G20 DI PARIGI
Draghi sui giovani:
"Hanno ragione ad arrabbiarsi
Gli scontri al corteo? Un gran peccato"
Il governatore di Bankitalia:
«Ascoltare il loro appello».
Geithner: «Capisco i timori
delle nuove generazioni» *
Nella giornata delle protese degli "indignados" nelle città di mezzo mondo, perfino dal vertice del G20 delle Finanze sono giunte espressioni di comprensione verso i manifestati. E dopo che per giorni a Roma una delle iniziative di protesta si è svolta nei pressi della Banca d’Italia, i cui promotori nei giorni scorsi si erano autobattezzati "draghi ribelli", è stato lo stesso governatore Mario Draghi, futuro presidente della Bce, ad affermare di comprendere le ragioni dei manifestanti. Con una puntualizzazione: che la protesta non degeneri. "Se la prendono con la finanza come capro espiatorio. Ma li capisco: hanno aspettato tanto - ha affermato il governatore a margine del G20 delle finanze a Parigi -. Noi, all’età loro, non lo abbiamo fatto". Appena si sono diffuse le notizie degli scontri ha condannato gli episodi e aggiunto: «E’ un gran peccato».
Ma poco dopo a fargli eco è stato anche Timothy Geithner, segretario di Stato al Tesoro di quegli Stati Uniti dove la versione del movimento ha preso il nome "Occupy Wall Street", prendendo di mira il cuore e simbolo della finanza globale. "Quello a cui stiamo assistendo nel Paese è l’espressione del timore che l’economia Usa non stia crescendo in tempi rapidi, che il tasso di disoccupazione non stia calando più velocemente e che non ci sia un aumento dei salari - ha detto Geithner a Cnbc - la gente vuole che il governo, che Washington, agisca per migliorare subito la situazione". Tuttavia l’esponente americano ha rivendicato che l’amministrazione Obama sta adottando misure per affrontare gli squilibri economici. Intanto in decine di città e metropoli si stanno svolgendo o si apprestano a partire cortei di protesta di questi movimenti, che spesso si riuniscono dietro a slogan in cui si respinge il fatto di dover continuare a caricare sulle spalle dei contribuenti i costi di una crisi che continua a germinare nella Finanza.
Sul tutto Draghi ha riconosciuto che "se siamo arrabbiati noi per la crisi figuriamoci loro che sono giovani, che hanno venti o trent’anni e sono senza prospettive". Al G20 il governatore è presente anche in veste di presidente del Financial Stability Board, ente che sta completando una serie di proposte di riforma sulla finanza, in particolare sulle mega banche, da portare al summit tra leader di inizio novembre. Queste autorevoli espressioni di comprensione nei riguardi di questo movimenti, giungono dopo che negli ultimi giorni perfino da manager di alcuni dei maggiori fondi speculativi globali, come l’americano Black Rock, era stato espresso un certo favore verso le proteste.
DEMOCRAZIA "REALE": CHE COSA SIGNIFICA? CHE COSA E’?
Alcuni chiarimenti, con approfondimenti
Il discorso integrale
«Riscoprire lo spirito di De Gasperi: lavorare insieme per un’Unione efficace e inclusiva»
di Mario Draghi (La Stampa, 13/09/2016)
Ho tante ragioni per essere grato e onorato della vostra decisione di attribuirmi oggi il Premio De Gasperi. La sua figura, nel ricordo della sua esperienza, ci trasmette un messaggio ispirato, forte, convinto: “In Europa si va avanti insieme nella libertà”.
Le radici di questo messaggio affondano nella storia europea del secolo scorso.
La ragione ultima di esistenza di un governo consiste nell’offrire ai propri cittadini sicurezza fisica ed economica e, in una società democratica, nel preservare le libertà e i diritti individuali insieme a un’equità sociale che rispecchi il giudizio degli stessi cittadini.
Coloro che nel secondo dopoguerra volsero lo sguardo all’esperienza dei trent’anni precedenti conclusero che quei governi emersi dal nazionalismo, dal populismo, da un linguaggio in cui il carisma si accompagnava alla menzogna, non avevano dato ai loro cittadini sicurezza, equità, libertà; avevano tradito la ragione stessa della loro esistenza.
Nel tracciare le linee dei rapporti internazionali tra i futuri governi, De Gasperi e i suoi contemporanei conclusero che solo la cooperazione tra i paesi europei nell’ambito di una organizzazione comune poteva garantire la sicurezza reciproca dei loro cittadini.
La democrazia all’interno di ogni paese non sarebbe stata sufficiente; l’Europa aveva anche bisogno di democrazia tra le sue nazioni. Era chiaro a molti che erigere steccati tra paesi li avrebbe resi più vulnerabili, anche per la loro contiguità geografica, meno sicuri; che ritirarsi all’interno dei propri confini avrebbe reso i governi meno efficaci nella loro azione.
Dalle parole che De Gasperi pronunciò in vari discorsi in quegli anni traspare la sua visione di come doveva caratterizzarsi questo processo comunitario.
Le sfide comuni andranno affrontate con strategie sovranazionali anziché intergovernative. All’Assemblea della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) del 1954 De Gasperi afferma: dal 1919 al 1939 sono stati conclusi circa settanta trattati intergovernativi e tutti si sono ridotti a carta straccia quando si è dovuti passare alla loro attuazione, perché mancava il controllo congiunto delle risorse comuni[1]. L’esperienza dei politici trovava riscontro nelle analisi di eminenti economisti, fra cui Ragnar Nurkse, che mettevano in luce come i trattati intergovernativi finissero per fomentare il protezionismo.
L’integrazione doveva prima di tutto rispondere ai bisogni immediati dei cittadini. Sempre nelle sue parole: dobbiamo iniziare mettendo in comune soltanto lo stretto indispensabile per la realizzazione dei nostri obiettivi più immediati, e farlo mediante formule flessibili che si possano applicare in modo graduale e progressivo.
L’azione comunitaria andava concentrata in ambiti in cui era chiaro che l’azione individuale dei governi non fosse sufficiente: il controllo congiunto delle materie prime della guerra, in particolare carbone e acciaio, costituì uno dei primi esempi.
In tal modo i padri del progetto europeo furono capaci di coniugare efficacia e legittimazione. Il processo era legittimato dal consenso popolare e trovava il sostegno dei governi: il progetto era diretto verso obiettivi in cui l’azione delle istituzioni europee e i benefici per i cittadini erano direttamente e visibilmente connessi; l’azione comunitaria non limitava l’autorità degli Stati membri, ma la rafforzava e trovava quindi il sostegno dei governi.
A incoraggiare De Gasperi e i suoi contemporanei non fu solo l’esperienza fallimentare del passato, furono anche gli immediati successi a cui portarono queste prime fondamentali decisioni del dopoguerra.
I risultati ottenuti lavorando insieme
La costruzione della pace, questo risultato fondamentale del progetto europeo, produsse immediatamente crescita, iniziò la strada verso la prosperità. Al suo confronto stanno le devastazioni dei due conflitti mondiali.
Il PIL pro capite in termini reali si riduce del 14% durante la Prima guerra mondiale e del 22% durante la Seconda, annullando gran parte della crescita degli anni precedenti.
L’integrazione economica costruita su questa pace produce a sua volta miglioramenti significativi nel tenore di vita. Dal 1960 la crescita cumulata del PIL pro capite in termini reali è stata superiore del 33% negli UE 15 rispetto agli Stati Uniti. Nei paesi europei più poveri il tenore di vita converge verso i livelli dei più ricchi.
I cittadini dell’UE acquistano il diritto di vivere, lavorare e studiare in qualsiasi paese dell’Unione; con l’istituzione delle corti di giustizia europee beneficiano dello stesso livello di tutela ovunque si trovino.
Il mercato unico, uno dei principali successi del progetto europeo, non è mai stato soltanto un progetto diretto ad accrescere l’integrazione e l’efficienza dei mercati. È stata soprattutto una scelta dei valori rappresentati da una società libera e aperta, una scelta dei cittadini dell’Unione Europea.
Il progetto europeo ha sancito le libertà politiche, ha fin dall’inizio promosso il principio della democrazia liberale. Garante dei principi democratici, è stato il punto di riferimento per paesi che volevano sottrarsi alla dittatura o al totalitarismo; così è stato per la Grecia, il Portogallo, la Spagna o i paesi dell’Europa centrale e orientale. I criteri di Copenaghen e la Carta dei diritti fondamentali assicurano che tutti i paesi dell’UE rispettino principi politici ben definiti, iscritti nelle leggi nazionali ed europee.
Non è dubbio che queste libertà abbiano immensamente contribuito al benessere dell’Europa. È anche per queste libertà, che oggi flussi imponenti di rifugiati e di migranti cerchino il loro futuro nell’Unione Europea.
L’integrazione europea ha assicurato ai propri cittadini molti anni di sicurezza fisica ed economica, forse più di quanto non sia mai avvenuto nella storia dell’Europa, diffondendo e instillando al tempo stesso i valori di una società aperta. I cittadini europei che hanno iniziato questo processo e noi che lo abbiamo vissuto abbiamo dimostrato al mondo che sicurezza e libertà non sono in antitesi. Radicando la democrazia abbiamo assicurato la pace.
Nuove sfide per l’Europa
Una insoddisfazione crescente nei confronti del progetto europeo ha però caratterizzato gli ultimi anni del suo percorso. Con il referendum del 23 giugno i cittadini del Regno Unito hanno votato a favore dell’uscita dall’Unione europea.
Per alcuni dei paesi dell’Unione questi sono stati anni che hanno visto: la più grave crisi economica del dopoguerra, la disoccupazione, specialmente quella giovanile, raggiungere livelli senza precedenti in presenza di uno stato sociale i cui margini di azione si restringono per la bassa crescita e per i vincoli di finanza pubblica. Sono anni in cui cresce, in un continente che invecchia, l’incertezza sulla sostenibilità dei nostri sistemi pensionistici. Sono anni in cui imponenti flussi migratori rimettono in discussione antichi costumi di vita, contratti sociali da tempo accettati, risvegliano insicurezza, suscitano difese.
La disaffezione ha certamente anche altre cause: la fine dell’Unione Sovietica, la conseguente scomparsa della minaccia nucleare hanno distolto l’attenzione dalla nozione di “sicurezza nei numeri”. Il riequilibrio delle forze tra le nazioni più grandi, le continue tensioni geopolitiche, le guerre, il terrorismo, gli stessi cambiamenti negli equilibri climatici, gli effetti del continuo, incalzante progresso tecnologico: in un breve arco di tempo tutti questi fattori interagiscono con le conseguenze economiche della globalizzazione, in un mondo disattento verso la distribuzione dei suoi pur straordinari benefici. Mentre nelle economie emergenti questa ha riscattato dalla tirannia della povertà miliardi di persone, nelle economie avanzate il reddito reale della parte più svantaggiata della popolazione è rimasto ai livelli di qualche decina di anni fa.
Il senso di abbandono provato da molti non deve sorprendere. L’ansia è crescente. Le risposte politiche a essa date talvolta richiamano alla memoria il periodo tra le due guerre: isolazionismo, protezionismo, nazionalismo. Era già successo in passato. Sul finire della prima fase di globalizzazione, all’inizio del XX secolo, diversi paesi, compresi quelli con una tradizione di immigrazione come l’Australia o gli Stati Uniti, introdussero restrizioni all’immigrazione, in risposta alla paura delle classi operaie di perdere il posto di lavoro a causa dei nuovi arrivati disposti a lavorare per salari più bassi. Ma il biasimo, il rifiuto di queste risposte, pur giustificato, non deve impedire una disamina delle cause della minore partecipazione al progetto europeo.
Di nuovo la lungimiranza delle parole di De Gasperi ci aiuta a capire:
“Se noi costruiremo soltanto amministrazioni comuni, senza una volontà politica superiore vivificata da un organismo centrale, nel quale le volontà nazionali si incontrino (...) rischieremo che questa attività europea appaia, al confronto della vitalità nazionale particolare, senza calore, senza vita ideale potrebbe anche apparire ad un certo momento una sovrastruttura superflua e forse anche oppressiva”.
L’impianto dell’integrazione europea è saldo, i suoi valori fondamentali continuano a restarne la base, ma occorre orientare la direzione di questo processo verso una risposta più efficace e più diretta ai cittadini, ai loro bisogni, ai loro timori e meno concentrata sulle costruzioni istituzionali. Queste sono accettate dai cittadini non per se stesse ma solo in quanto strumenti necessari a dare questa risposta.
In altre occasioni è stata invece l’incompletezza istituzionale che non ha permesso di gestire il cambiamento imposto dalle circostanze esterne nel miglior modo possibile. Si pensi all’Accordo di Schengen. Pur avendo eliminato in larga parte le frontiere interne dell’Europa, non ha previsto un rafforzamento di quelle esterne. Pertanto l’insorgere della crisi migratoria è stato percepito come una perdita di sicurezza destabilizzante.
A questi bisogni, a questi timori l’Unione Europea, gli Stati nazionali hanno dato una risposta finora carente. I sondaggi, assieme al calo del sostegno all’integrazione economica europea, mostrano un’opinione pubblica che ha meno fiducia nell’Unione Europea e ancor meno negli Stati nazionali.
Ciò non vale solo per l’Europa. I dati segnalano che anche negli Stati Uniti è diminuita la fiducia dei cittadini verso quasi tutte le istituzioni: la Presidenza, il Congresso e la Corte Suprema[6]. Il fatto che si tratti di un fenomeno mondiale non può però essere di giustificazione per noi europei, perché noi soli nel mondo abbiamo costruito un’entità sovranazionale con la certezza che solo con essa gli Stati nazionali avrebbero dato quelle risposte che non erano stati capaci di dare da soli.
L’Europa può ancora essere la risposta?
La domanda è semplice ma fondamentale: lavorare insieme è ancora il modo migliore per superare le nuove sfide che ci troviamo a fronteggiare?
Per varie ragioni, la risposta è un sì senza condizioni. Se le sfide hanno portata continentale, agire esclusivamente sul piano nazionale non basta. Se hanno respiro mondiale, è la collaborazione trai i suoi membri che rende forte la voce europea.
Il recente negoziato sul cambiamento climatico sia di esempio. La questione globale può essere affrontata solo attraverso politiche coordinate a livello internazionale. La massa critica di un’Europa che parla con una voce sola ha condotto a risultati ben oltre la portata dei singoli paesi. Solo la spinta esercitata dai paesi europei che hanno presentato un fronte comune ha permesso il successo della conferenza sul clima di Parigi. Solo l’esistenza dell’Unione Europea ha permesso la costruzione di questo fronte comune.
In un mondo in cui la tecnologia riduce le barriere fisiche, l’Europa esercita la sua influenza anche in altri modi. La capacità dell’Europa, con il suo mercato di 500 milioni di consumatori, di imporre il riconoscimento dei diritti di proprietà a livello mondiale o il rispetto dei diritti alla riservatezza in Internet è ovviamente superiore a ciò che un qualsiasi Stato membro potrebbe sperare di ottenere da solo.
La sovranità nazionale rimane per molti aspetti l’elemento fondamentale del governo di un paese. Ma per ciò che riguarda le sfide che trascendono i suoi confini, l’unico modo di preservare la sovranità nazionale, cioè di far sentire la voce dei propri cittadini nel contesto mondiale, è per noi europei condividerla nell’Unione Europea che ha funzionato da moltiplicatore della nostra forza nazionale.
Quanto alle risposte che possono essere date soltanto a livello sovranazionale, dovremmo adottare lo stesso metodo che ha permesso a De Gasperi e ai suoi contemporanei di assicurare la legittimazione delle proprie azioni: concentrarsi sugli interventi che portano risultati tangibili e immediatamente riconoscibili.
Tali interventi sono di due ordini.
Il primo consiste nel portare a termine le iniziative già in corso, perché fermarsi a metà del cammino è la scelta più pericolosa. Avremmo sottratto agli Stati nazionali parte dei loro poteri senza creare a livello dell’Unione la capacità di offrire ai cittadini almeno lo stesso grado di sicurezza.
Un autentico mercato unico può restare a lungo libero ed equo solo se tutti i soggetti che vi partecipano sottostanno alle stesse leggi e regole e hanno accesso a sistemi giudiziari che le applichino in maniera uniforme. Il libero mercato non è anarchia; è una costruzione politica che richiede istituzioni comuni in grado di preservare la libertà e l’equità fra i suoi membri. Se tali istituzioni mancheranno o non funzioneranno adeguatamente, si finirà per ripristinare i confini allo scopo di rispondere al bisogno di sicurezza dei cittadini.
Pertanto, per salvaguardare una società aperta occorre portare fino in fondo il mercato unico.
Ciò che rende oggi questa urgenza diversa dal passato è l’attenzione che dovremo porre agli aspetti redistributivi dell’integrazione, verso coloro che più ne hanno pagato il prezzo. Non credo ci saranno grandi progressi su questo fronte e più in generale sul fronte dell’apertura dei mercati e della concorrenza se l’Europa non saprà ascoltare l’appello delle vittime in società costruite sul perseguimento della ricchezza e del potere; se l’Europa, oltre che catalizzatrice dell’integrazione e arbitra delle sue regole non divenga anche moderatrice dei suoi risultati. È un ruolo che oggi spetta agli stati nazionali, che spesso però non hanno le forze per attuarlo con pienezza. È un compito che non è ancora definito a livello europeo ma che risponde alle caratteristiche delineate da De Gasperi: completa l’azione degli Stati nazionali, legittima l’azione europea. Le recenti discussioni in materia di equità della tassazione, e quelle su un fondo europeo di assicurazione contro la disoccupazione, su fondi per la riqualificazione professionale e su altri progetti con la stessa impronta ideale vanno in questa direzione.
Ma poiché l’Europa deve intervenire solo laddove i governi nazionali non sono in grado di agire individualmente, la risposta deve provenire in primo luogo dal livello nazionale. Occorrono politiche che mettano in moto la crescita, riducano la disoccupazione e aumentino le opportunità individuali, offrendo nel contempo il livello essenziale di protezione dei più deboli.
In secondo luogo, se e quando avvieremo nuovi progetti comuni in Europa, questi dovranno obbedire agli stessi criteri che hanno reso possibile il successo di settant’anni fa: dovranno poggiare sul consenso che l’intervento è effettivamente necessario; dovranno essere complementari all’azione dei governi; dovranno essere visibilmente connessi ai timori immediati dei cittadini; dovranno riguardare inequivocabilmente settori di portata europea o globale.
Se si applicano questi criteri, in molti settori il coinvolgimento dell’Europa non risulta necessario. Ma lo è invece in altri ambiti di chiara importanza, in cui le iniziative europee sono non solo legittime ma anche essenziali. Tra questi oggi rientrano, in particolare, i settori dell’immigrazione, della sicurezza e della difesa.
Entrambi gli ordini di interventi sono fondamentali, poiché le divisioni interne irrisolte, che riguardano ad esempio il completamento dell’UEM, rischiano di distrarci dalle nuove sfide emerse sul piano geopolitico, economico e ambientale. È un pericolo reale nell’Europa di oggi, che non ci possiamo permettere. Dobbiamo trovare la forza e l’intelligenza necessarie per superare i nostri disaccordi e andare avanti insieme.
A tal fine dobbiamo riscoprire lo spirito che ha permesso a pochi grandi leader, in condizioni ben più difficili di quelle odierne, di vincere le diffidenze reciproche e riuscire insieme anziché fallire da soli.
In conclusione torno a citare Alcide De Gasperi, le cui parole conservano dal 1952 a oggi tutta la loro attualità:
La cooperazione economica è certamente il risultato del compromesso tra desiderio naturale di indipendenza di ogni partecipante e aspirazioni politiche preminenti. Se la cooperazione economica europea fosse dipesa dai compromessi avanzati dalle varie amministrazioni coinvolte, saremmo incappati probabilmente in debolezze e incoerenze. È dunque l’aspirazione politica all’unità a dover prevalere. Deve guidarci anzitutto la consapevolezza fondamentale che la costruzione di un’Europa unita è essenziale per assicurarci pace, progresso e giustizia sociale.
“Piazze e politica, più Keynes per tutti”
Il filosofo Walzer analizza i movimenti, dagli Usa all’Europa
di Roberto Festa (la epubblica, 06.07.2012)
Da Occupy Wall Street al futuro. Dopo i mesi della protesta sono arrivati quelli della riflessione. Su questo movimento e non solo, per capire cosa è successo. «Trovo davvero incoraggiante che così tanti giovani si siano uniti alle manifestazioni di protesta», racconta Michael Walzer. Abbiamo incontrato questo filosofo della morale e della politica nel suo ufficio dell’Institute for Advanced Study di Princeton, per cercare di analizzare il fenomeno.
Per Walzer (76 anni, direttore della rivista Dissent, autore di libri fondamentali per la riflessione su radicalismo politico e religioso, nazionalismo, violenza: Esodo e rivoluzione, Sfere di giustizia, Guerre giuste e ingiuste), l’occupazione di una piazza di Manhattan è stato il segnale di un più vasto movimento di risveglio democratico e di cittadinanza.
Michael Walzer, perché “Occupy Wall Street” è stato un fenomeno positivo, per la politica e la società americana?
«Anzitutto per ragioni geografiche. Nella nostra storia recente abbiamo avuto grandi manifestazioni pacifiste, a Washington, a New York, a San Francisco. Ma niente può essere paragonato a quello che è successo nei mesi scorsi. La protesta si è diffusa a tante piccole comunità, alla periferia del Paese. È una cosa straordinaria, che mi ha emozionato». Qual è stata la molla che ha spinto così tanti a protestare? «C’è una parte ormai consistente della popolazione, negli Stati Uniti, che pensa che il livello di diseguaglianza sia ormai diventato insopportabile.
Storicamente, gli americani hanno una particolare avversione per l’invasione del governo federale. Ma in questi anni è cresciuta la consapevolezza che questo sistema economico non è più sostenibile, e che è necessario introdurre cambiamenti profondi. Pare ormai chiaro che il piano di incentivi all’economia pensato da Obama e dalla sua squadra economica all’inizio del primo mandato non sia stato sufficiente. D’altra parte Obama, a differenza di Roosevelt negli anni Trenta, non ha cercato di approfittare della crisi per una radicale riforma del sistema finanziario. Il suo obiettivo era restaurare il vecchio sistema, quello degli anni di Clinton. Non a caso, molti suoi collaboratori economici sono stati gli stessi di Clinton. Non mi sembra siano andati molto lontani. Le condizioni di partenza erano molto difficili. Forse, ci sarebbe voluto più coraggio».
Lei si è sempre definito “socialdemocratico”. Lo è ancora? «Sì. Penso che la situazione attuale richieda più democrazia sociale. Non sono un economista, ma mi sembra che una certa forma di keynesianesimo, interno e internazionale, sia a questo punto necessario. Come è necessario ridare alla politica la sua funzione di rappresentatività sociale. E queste sono strategie socialdemocratiche ».
Molti hanno rimproverato a “Occupy Wall Street” la mancanza di un vero progetto politico.
«È vero che “Occupy Wall Street” è stato segnato da una forte ideologia anarchica, dalla mancanza di leader e di programmi. Ma questo non è il compito dei movimenti di protesta. Dovrebbero0 essere i politici - soprattutto quelli democratici - a interpretare i movimenti, a trarre dalla protesta stimolo all’azione. Dovrebbe essere la politica a dare risposta ai bisogni che sorgono, anche confusamente, dalla società. È così che funziona la democrazia. E così non avviene, purtroppo. Quello che un movimento come “Occupy Wall Street” rivela è che forse la nostra democrazia non funziona più tanto bene. Le istanze di cittadinanza, le richieste di partecipazione, non trovano più sbocchi nei partiti politici».
Questi sono stati anche i mesi delle “primavere arabe” e delle rivolte in Tunisia, Egitto, Libia, Siria. C’è un filo comune, che lega questi movimenti all’Occidente?
«“Occupy Wall Street” non ha avuto come obiettivo quello di rovesciare i tiranni, e si è sviluppato all’interno di uno Stato democratico. Un po’ come è avvenuto in Spagna e Israele. Nei Paesi arabi, soprattutto in Libia e Siria, dove è scoppiata una vera e propria guerra civile, la situazione è molto diversa. Vedo analogie soprattutto a livello generazionale. È stata la generazione più giovane, quella di Facebook, di Twitter, a nutrire la rivolte in Tunisia ed Egitto, un po’ come è avvenuto in molti Paesi occidentali. I social media sono uno straordinario strumento di risveglio e riappropriazione civile e democratica. Non sono comunque certo sugli esiti di queste rivolte. Temo che i gruppi che le hanno guidate siano uno strato molto sottile, ed esterno, all’interno di queste società. Non hanno particolari legami con la popolazione delle campagne, con la gente delle periferie urbane povere. Questi giovani possono cacciare i tiranni. Ma non riescono a sostituirli. Temo che i tiranni come sta già succedendo vengano sostituiti da partiti islamici di orientamento vario: partiti non liberali, non laici, probabilmente più moderati rispetto agli islamici in Iran».
Occupy Bce: in migliaia contro zombie finanza
di: WSI Pubblicato il 17 maggio 2012| Ora 10:38
Va in scena da oggi a domenica a Francoforte la piu’ grande manifestazione di strada contro la finanza mondiale (VIDEO). Polizia schierata davanti alla sede dell’istituto simbolo dell’area euro. Alcuni cartelli esposti da Occupy Francoforte, accampamento che da mesi protesta fuori dalla sede della Bce. Ieri e’ stato sgomberato.
New York - Sotto il nome di "Blockupy Francoforte" decine di migliaia di manifestanti sono scesi nelle strade della capitale finanziaria d’Europa per protestare contro la finanza mondiale. Non a caso hanno scelto di esprimere il loro dissenso ai piedi della fortezza della politica monetaria simbolo del rigore e dell’esperimento della moneta unica.
Quella che va in scena oggi e’ una delle proteste paneuropee piu’ attese e la piu’ grande manifestazione di strada contro la finanza mondiale. Sono coivolte piu’ di 40 organizzazioni differenti provenienti da tutto il mondo.
La polizia e’ schierata da ieri davanti alla sede dell’istituto simbolo dell’area euro. Le manifestazioni nel distretto finanziario di Francoforte andranno avanti fino a domenica.
Approfittando di un giorno di festivita’ cattolica nel paese, in occasione della festa cristiana dell’Ascensione, i manifestanti hanno messo nel mirino la finanza internazionale e la gestione della crisi economica da parte delle autorita’.
L’obiettivo e’ quello di bloccare gran parte del distretto finanziario nel centro della citta’ durante i giorni di proteste. Oltre alla sede della Bce, il distretto comprende anche gli uffici del Fondo Monetario Internazionale e di grandi societa’ finanziarie. Del movimento "Blockupy" fanno parte alcune grandi organizzazioni anticapitaliste come Attac e la sezione dell’Assia del partito tedesco Die Linke ("la sinistra"). E’ prevista la partecipazione di circa 30.000 manifestanti.
Ieri, quando e’ andata in scena una festa dal nome "Rave contro la Troika", non ci sono stati particolari scontri, ma la decisione del tribunale dell’Assia, il Land dove si trova Francoforte, di negare il permesso a molte delle manifestazioni in programma in questi giorni, ha fatto salire la tensione. Il corteo principale, previsto per sabato, e’ stato autorizzato, ma la polizia teme che i manifestanti conducano azioni dimostrative violente contro le banche e gli istituti finanziari, anche approfittando del fatto che le strade saranno semi deserte.
Anatomia del capitalismo: dai mercati finanziari all’oligarchia ....
Un’analisi di Jeoffrey Geuens
(...) la finanza regna in modo assoluto sul globo (...) bisognerebbe sapere di che cosa e di chi si parla, perché l’immagine incorporea dei «mercati» ha l’effetto di lasciare nell’ombra i beneficiari della crisi e delle misure di austerità in corso (...).
Occupy Wall Street e la grande scommessa del primo maggio
Lavoro, diritto allo studio, immigrazione: oggi manifestazioni a New York, Seattle, Chicago, San Francisco
«Le nostre idee ormai sono sedimentate»
di Martino Mazzonis (l’Unità, 1.5.2012)
Il primo maggio non è un giorno di festa negli Stati Uniti, il Labor Day è a settembre. Eppure oggi a New York, Chicago, San Francisco, nella California del Sud e Seattle sarà pieno di manifestazioni. Occupy Wall Street ha lanciato molto tempo fa questa giornata. Oggi sarà un buon test per capire se il seme lanciato nei mesi di occupazione nei giardini dello Zuccotti Park è cresciuto.
«Speriamo molto nel primo maggio, ma la questione cruciale è che questo movimento sembra essersi sedimentato», ci spiega Jeffrey, ventenne con gli occhialoni e la camicia a scacchi che studia Geografia alla New York University. Lui non era tra coloro che hanno dormito nelle tende di Zuccotti, ma è sempre andato alle manifestazioni. Era a Union square il 25 aprile, quando gli studenti hanno organizzato una marcia nel centro della città per protestare contro il costo degli studi. «In Europa è diverso, ma qui ci indebitiamo per andare all’università. Student loans, finanziamento per studenti lo chiamano, e per decenni ha funzionato: ti indebitavi, studiavi, poi trovavi lavoro grazie agli studi e ripagavi un po’ al mese. Oggi non sai se quel lavoro lo avrai e ormai ne parlano tutti gli stipendi non sono più quelli di una volta. Nel frattempo il costo degli studi è aumentato».
In questi giorni è in corso uno scontro tra Obama e i repubblicani su come ridurre il costo degli Student loans. Il presidente ha minacciato il veto su una misura che per congelare i tassi di interesse agli studenti tagliava a programmi di sanità pubblica. «La posizione di Obama è migliore, ma non è abbastanza. Un tempo le università non costavano così», sorride Jeffrey. A Union square gli studenti avevano inscenato un banchetto di miliardari che brindavano al debito degli studenti, che ha raggiunto complessivamente mille miliardi di dollari. Vestita da gran dama dei primi del ‘900, filo di perle, c’è anche Sarah, 27 anni. Più radicale del suo collega. Sta finendo un dottorato e sente che il giorno di cominciare a pagare sta per arrivare. «È un paradosso: indebitandoci per studiare arricchiamo Wall Street. Vestiti così e brindando è questo che stiamo cercando di rappresentare. Non è solo un problema di quanto costa, è il sistema: chi ha ridotto così il Paese fa anche soldi sui miei debiti di studio». Per Sarah vanno puniti più di quanto Obama non stia facendo. «Andrò a votare, un repubblicano alla Casa Bianca sarebbe una catastrofe per mille motivi. Ma noi qui dobbiamo spingere su Obama, è stato davvero troppo timido. Non sono tempi per esserlo, questi». Sullo sfondo si sta esibendo il reverendo Billy, della chiesa dello “Stop shopping”, un grande personaggio che guida il suo coro gospel davanti ai grandi magazzini nei giorni dei saldi e fa esorcismi alle casse dei negozi delle catene. Gli spirituals finiscono tra gli applausi.
Radicali e meno radicali, sindacati e studenti, militanti iper tecnologici con la maschera di V per Vendetta, sfileranno in mille modi oggi. Sul sito di Occupy sono molto corretti: ci sono gli appuntamenti autorizzati e quelli no. Gruppi più radicali compariranno e scompariranno per la città a cominciare dalla mattina. «Strike everywhere» da un appuntamento all’una del pomeriggio.
Sul loro sito c’è scritto: «Ci hanno detto di marciare tra due barriere, noi il primo maggio non marciamo, noi scioperiamo (strike, vuol dire sciopero e vuol dire colpire)». Dalla mattina, a Bryant Park ci sarà via vai, cibo, organizzazione, gruppi che partiranno per fare picchetti davanti alle banche, volantinare. Dalle due in poi da qui si marcerà verso Union square, dove si staranno radunando quelli della May Day Solidarity Coalition: sindacati, chiese, studenti, immigrati. Dopo un concerto e comizio, alle 5.30 la giornata finirà con una grande marcia verso Wall Street. Manhattan, con ogni probabilità sarà nel caos: sono previsti blocchi non autorizzati dei ponti e una critical mass di biciclette andrà in giro per l’isola.
Questo almeno nelle intenzioni. I gruppi organizzati sanno che ci sarà gente, ne porteranno in piazza e altre se ne aggregherà. Gli imprevisti invece dipendono da quanto il marchio radicale di Occupy sia ancora vivo. Ben, afroamericano membro del sindacato dei servizi Seiu, incontrato alla marcia del 99% Spring, pensa che «il tema delle diseguaglianze insopportabili di questo Paese abbia sfondato».
Lavora per una ditta di pulizie e trova intollerabile che si ragioni di tagli senza aumentare le tasse ai ricchi: «Abbiamo fatto bene ad aderire a questa mobilitazione di maggio. Più si parla di questi temi e più si sposta il discorso nella direzione giusta. In questa città c’è gente che con il mio salario di un anno ci paga la toilette del cane».
Ramon è di origini messicane, cappello da baseball dei Chicago Cubs calzato al rovescio e t-shirt nera, senza un filo di accento spagnolo. A lui premono i diritti degli immigrati. E pensa anche lui che comunque vada, «tutto questo ha cambiato le cose. Dovremo essere bravi a continuare a batterci con intelligenza. Serve una legge di riforma dell’immigrazione e serve più equità. A Washington non si sono occupati di queste cose. Troppi soldi dalle lobby, la politica non è in grado di prendere decisioni senza una spinta che le renda necessarie». Oggi a Manhattan e altrove provano a spingere.
COSTITUZIONE E GARANZIA FINANZIARIA DEI DIRITTI SOCIALI.
"È contenuta nella Costituzione della Repubblica del Brasile, all’articolo 159 ed è specificata in quelli lo seguono, la riserva di bilancio a favore dei diritti sociali.".
"PAREGGIO DI BILANCIO"?! L’ITALIA, I DIRITTI SOCIALI, E LA BILANCIA SPEZZATA DELLA SOVRANITA’ POPOLARE.
Allarme di "regressione costituzionale". Un "urlo " di Gianni Ferrara
La protesta globale
di Carla Ravaioli (il manifesto, 19 ottobre 2011)
Quanto è accaduto sabato scorso in novantacinque città del mondo (a prescindere dalle vicende italiane, soltanto italiane, che esigono un discorso specifico ad esse esclusivamente dedicato) parla di qualcosa come cinquanta e più milioni di persone in marcia contro il capitalismo. A negare clamorosamente la vulgata che con insistenza da tempo parla di neoliberismo incontrastato e vincente, dunque di “fine delle sinistre”, ecc. Ciò che peraltro in effetti risponde non solo quantitativamente alla debolezza delle sinistre, ma alla totale mancanza di una politica che possa in qualche misura distinguerle dalle logiche dominanti; prescindendo ovviamente dall’impegno sostenuto soprattutto dai sindacati a favore dei lavoratori, nello specifico di situazioni di volta in volta in questione (salario, orari, mansioni, “difesa del posto di lavoro”, ecc.); una lotta indubbiamente utile, anzi indispensabile, che però non rimette in alcun modo in causa l’organizzazione produttiva nelle sue logiche e nelle sue ricadute, né in alcun modo garantisce un’occupazione sempre più a rischio.
Di fatto “ripresa”, “uscita dalla crisi”, “rilancio della produzione”, ecc. sono gli obiettivi che - non diversamente dall’intero mondo politico - le sinistre auspicano e perseguono, nel segno dell’accumulazione capitalistica. Di recente addirittura è stato recuperato il vecchio slogan “Creare posti di lavoro”: insensato invito alla promozione di attività destinate solo a occupare vite altrimenti ritenute inutili; di fatto capovolgimento e negazione del lavoro nella sua funzione di risposta a bisogni dati.
L’origine di tutto ciò risale d’altronde a fatti lontani, da potersi sostanzialmente situare nel trentennio della grande ripresa postbellica, quando l’organizzazione produttiva che andava via via imponendo al mondo i modi e le logiche dell’ accumulazione capitalistica, e modellandolo di conseguenza, per più versi però parve oggettivamente migliorare le condizioni delle classi lavoratrici; e fu allora che le sinistre (pur senza mai negare quell’anticapitalismo nel cui nome erano nate) in qualche misura andarono rimodellando le proprie politiche, puntando (sovente d’altronde con apprezzabili risultati) sulle riforme piuttosto che sulla “rivoluzione”. La quale da allora, specie dopo la fine dell’Urss, di fatto venne “messa in sonno”.
Ma il “peccato” più grave delle sinistre è l’aver di fatto “regalato” il progresso scientifico e tecnologico al capitalismo. Di fronte alla più grande rivoluzione compiuta dal pensiero umano, che avrebbe potuto consentire quella “liberazione del lavoro e dal lavoro” auspicata da tutti i grandi utopisti, compreso Marx , le sinistre non hanno saputo che difendersi dal rischio della disoccupazione tecnologica, d’altronde con risultati non proprio entusiasmanti. Di fatto operando secondo la forma dell’ accumulazione capitalistica, accettandone logica e conseguenze, e solo di volta in volta, nello specifico delle singole situazioni, combattendo spesso valorosamente in difesa dei lavoratori.
Oggi, “ripresa”, “rilancio”, “crescita”, ecc., proprio come nei palazzi del potere, sono le parole d’ordine delle sinistre. Incuranti (o così parrebbe) della qualità del mondo che a questo modo si trovano a sostenere: un mondo in cui l’1% della popolazione detiene il 50% della ricchezza, 1/6 dell’umanità è sottoalimentato mentre in complesso si distrugge circa il 40% del cibo prodotto, un dirigente d’azienda guadagna fino a 640 volte il salario di un operaio, la produzione di armi rappresenta il 3,7% del Pil (cifra ufficiale secondo gli esperti assai inferiore alla verità, se si considera l’entità del contrabbando attivo nel settore).
Un mondo che continua a considerare la crisi ecologica planetaria come una sorta di variabile marginale, cui dedicare momenti di esclamativa attenzione quando si verificano le catastrofi più gravi, la grande industria (petrolifera, nucleare, che altro) viene pesantemente colpita, i mutamenti climatici distruggono raccolti agricoli di intere stagioni, ecc. Senza mai prestare adeguata attenzione alle voci della comunità scientifica mondiale. La quale parla di sempre più prossima e forse irrecuperabile rottura di equilibri millenari, e continua a ricordare i “limiti” del pianeta Terra: che è “una quantità” data, non dilatabile a richiesta, e pertanto incapace sia di alimentare una produzione in continua crescita, sia di neutralizzare i rifiuti, liquidi solidi gassosi, che ne derivano, e squilibrano l’ecosistema. Mentre imperterrito risuona il richiamo alla “crescita”, invocata come una sorta di dovere sociale, cui le sinistre puntualmente si associano.
Ma dove sono le sinistre? Questa è l’obiezione di regola sollevata appena si accenna a posizioni e iniziative che, nella situazione data, alla sinistra appunto parrebbero appartenere. E tuttavia, i milioni di giovani e meno giovani che sabato scorso hanno manifestato in novecentocinquanta città del mondo, che altro sono se non sinistre? E i popoli della “primavera africana”? E i tantissimi che si battono per la pace, per i “beni comuni”, contro il nucleare, contro opere monumentali quanto inutili, ecc. ecc. che insomma, nei modi più diversi e per i più diversi obiettivi immediati, mettono in discussione le regole portanti del capitale? E le donne che, anch’esse, in folle sempre più vistose, manifestano il loro “sentire altro” dalla vulgata del sistema imperante, e che perfino nei paesi di più dura misoginia storica sempre più di frequente trasgrediscono la regola che le offende? Ecc. ecc.
Certo, non può stupire che le sinistre organizzate - quel poco che ne rimane - fuggano di fronte a una “rivoluzione” come questa, che per qualità e quantità non ha precedenti. E d’altronde, è pensabile che la situazione possa protrarsi così, indefinitamente? Dopotutto teste pensanti, convinte della insopportabilità sociale, culturale e fisica, della situazione attuale, a sinistra non mancano. E non mancano intelligenze capaci di una lettura adeguata della “globalizzazione”: un processo mondiale ormai interamente compiuto nella sua dimensione economico-finanziaria (ivi incluse devastanti conseguenze ecologiche); sempre più largamente e capillarmente impostosi dal punto di vista culturale (con la pubblicità a giocare in ciò un ruolo decisivo quanto stravolgente); ma di fatto tuttora inesistente sul piano politico (essendo la politica ormai di fatto identificata con l’economia, e da essa sostituita).
Teste non solo pensanti, ma volonterose di “pensare contro”, e di avventurarsi sui rischiosi sentieri di una rivoluzione che non ha precedenti né modelli... io sono certa che non manchino. Forse si tratta solo di cominciare...
Indignati ma ingenui?
di Vittorio Cristelli (“vita trentina”, 23 ottobre 2011)
Gli "indignati" e decisamente non violenti sono scesi in piazza in tutte le parti del mondo, ma solo a Roma sono stati scippati dai Black bloc delle strade, delle piazze e dell’attenzione dei mass media.
La violenza di questi infiltrati ha rotto vetrine, bruciato macchine in sosta, provocato decine di feriti e commessa la simbolica e blasfema distruzione di una statua della Madonna e di un crocifisso. Ma ha anche impedito che le centinaia di migliaia dei manifestanti esprimessero le loro opinioni, le loro idee e i loro progetti. Come è vero che fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce.
Anche questa ci doveva toccare! Dopo il ridicolo delle vignette sul nostro governo e sulle battute e comportamenti del suo capo che da mesi rimbalza sui media stranieri, anche l’umiliazione di una capitale che non riesce ad ospitare i cittadini del Paese che manifestano pacificamente. Quella "Piazza San Giovanni" che da decenni ospita manifestazioni sindacali, comizi politici, proclami sociali come il "Family Day", ridotta a campo di battaglia e poi percorsa a sera dai destinatari indignados, ma non per gridare i loro slogan, bensì con le ramazze per fare pulizia.
E’ così che anche all’indomani non abbiamo sentito alle televisioni o letto sui giornali i loro discorsi, ma solo descrizioni di vandalismi, interviste ai feriti ed esecrazioni della violenza. Non pochi hanno descritto i giovani indignati come ingenui e ti sanno dire che i protagonisti di analoghe manifestazioni erano dotati di un loro esperto servizio d’ordine che sapeva individuare gli infiltrati e isolarli. Di rimbalzo va anche detto che pure i servizi d’ordine ufficiali avrebbero dovuto sapere in anticipo, dotati come sono dei mezzi adatti a conoscere la realtà e quindi a prevenire.
Nel frattempo si è tenuto a Todi il Forum delle associazioni e delle persone cristiane. Non ne è uscito né il progetto di un nuovo partito dei cattolici né la sconfessione del bipolarismo. Unitario invece il giudizio negativo sull’attuale situazione politica del nostro Paese e la convinzione che bisogna cambiare. Ma anche che questo cambiamento deve passare attraverso l’impegno di tutti i cattolici, consci che, come ha detto il card. Bagnasco nella sua prolusione, gli Italiani hanno una "comunità di destino". Bagnasco è stato ancora più esplicito quando ha detto che "i cattolici non possono arretrare di fronte alle sfide" e che "l’assenteismo sociale per i cristiani è un peccato di omissione".
Ne consegue, sia per i giovani indignati che reclamano la partecipazione di tutti alla gestione della cosa pubblica, sia per i cattolici che considerano questa partecipazione la modalità esigente di esercitare la carità cristiana, l’esigenza di farsi delle competenze specifiche. Sì, perché a partecipare ad un’impresa in cui si è incompetenti si rischia di fare un gran male alla comunità.
Partecipanti quindi ma non ingenui. E gli indignati dimostrano di non essere ingenui nell’analisi che fanno di questa società e delle cause che l’hanno portata in questa impasse. Non per nulla personaggi con le mani in pasta come Draghi e Krugman dicono che hanno ragione. Va pure detto che dovranno emergere dei leaders. Ma questo culto dei leaders carismatici la caduta dei quali sarebbe suprema iattura è pure segno negativo della situazione in cui ci troviamo. I leaders devono essere naturale espressione della competenza.
Il pensiero corre al dopoguerra, quando si trattava pure di mandare a casa una classe dirigente e imboccare una nuova strada, appunto quella della democrazia. La collaborazione di tutti: dai liberali ai marxisti, ai personalisti di ispirazione cristiana ha prodotto quel gioiello che è la Costituzione repubblicana italiana, invidiato da molti anche all’estero. C’è dunque motivo di speranza.
Una disorganizzazione perfettamente sospetta
di Furio Colombo (il Fatto, 18.10.2011)
Sabato 15 ottobre è una data da ricordare. Quel giorno è finita la manifestazione spontanea del dissenso contro un governo che pure molti (in Italia e nel mondo) giudicano indegno di governare e comunque dedito ad attività inutili, illegali o sconce. È accaduto che una violentissima e bene organizzata sequenza di azioni distruttive, da parte di squadre di giovani mascherati, detti “Black bloc”, abbia cancellato il senso e la testimonianza di una manifestazione pacifica, organizzata assieme ad altre centinaia di eventi del genere (tutti pacifici e indisturbati) nel resto del mondo.
Dovunque tali eventi volevano dire dissenso profondo e distacco assoluto da governi e misure detti di “austerità” che impongono ai cittadini, incluse le masse senza lavoro, i fallimenti di un’epoca di incontrollate attività di finanza a beneficio di pochi.
Un solo governo, quello ormai illegale di Berlusconi (dopo la bocciatura alla Camera della legge sulla contabilità dello Stato, bocciatura che non è sanabile) non ha tollerato la grande manifestazione di dissenso dei cittadini. La manifestazione è stata colpita con inaudita violenza e una modesta e disorientata protezione della polizia.
C’è un rapporto diretto fra un pessimo governo (che non tollera alcun tipo di critica e controlla tutta l’informazione) e la distruzione del dissenso tramite violenza organizzata? Non sono in grado di dimostrarlo ora, ma lo dico perché la coincidenza fra protesta, distruzione violenta della protesta, e stroncatura, d’ora in poi, di ogni altro tentativo di protesta pubblica contro il governo, è troppo clamorosa per confinarla nei limiti di poche centinaia di persone cattive, che rompono persino le statue della Madonna. La buona organizzazione che è mancata alla polizia, era ferrea fra gli uomini in nero. Forse è un caso. Forse.
Raccontare cosa non è successo a Londra spiega in parte ciò che è successo a Roma. Ossia le ragioni dell’eccezione italiana. Ora che tutti i soloni italiani hanno aperto le proprie bare e hanno riesumato insipidi minestroni sul ritorno dei cattivi maestri, gli anni Settanta, Lama, il servizio d’ordine dei bei temi andati e tutto il repertorio di chi per questioni anagrafiche è portato nostalgica-mente a rileggere sempre e comunque la storia con gli occhi delle propria giovinezza, cerchiamo invece di guardare gli avvenimenti italiani attraverso quello che è accaduto all’estero. Perché a Roma tanta violenza e nel resto del pianeta il movimento degli Indignati ha potuto protestare pacificamente?
SABATO a Londra c’erano qualche migliaio di protestanti nella zona della City. La polizia ha bloccato duemila persone che cercavano di forzare il blocco e ha impedito loro di entrare nella zona del London Stock Exchange, la Borsa, simbolo del capitalismo. A Londra stamani gli impiegati della City passavano tranquillamente a piedi con i loro vestiti blu e le ventiquattrore in mano davanti alle tende dove un centinaio di protestanti si sono accampati e dove dichiarano di restare fino a Natale. Sono sul terreno dell’Abbazia di St Paul’s, quindi la polizia non li può sloggiare. Dalla cattedrale hanno chiesto di usare rispetto, niente di più. C’e gente che porta cibo, ci sono i generatori per la corrente, i fornelli da campo. Alcuni lavoratori della City che passavano di lì hanno dichiarato di condividere i motivi della protesta e di simpatizzare con gli “Occupy Wall Street”, che protrebbe sembrare un controsenso, ma che dimostra quanto questo movimento sia nuovo e che non si possa giudicarlo e misurarlo con i vecchi parametri.
Perché Roma sembra così lontana? La polizia britannica ha seguito regole ben chiare. Sabato il cordone delle forze dell’ordine ha controllato la protesta. Memore di quanto è successo con i riots di agosto , i fermi preventivi sono stati molti. Alcuni sono stati rilasciati subito dopo poche ore. Altri verranno processati (con regole certe e condanne forse troppo dure, ma certamente esemplari). La polizia metropolitana non usa armi (sono muniti di manganello, fischetto e manette), solo i corpi speciali di Scotland Yard sono armati e in caso di manifestazioni l’uso di lacrimogeni e idranti non è la norma . Paradossalmente le forze dell’ordine inglesi sono più garantiste perché hanno poteri più ampi.
UN AGENTE in pattuglia (senza armi) può fermare, perquisire e portare alla stazione di polizia per accertamenti qualunque persona lui ritenga con “ragionevole sospetto” che stia per commettere un reato e sia in possesso di un’arma impropria. E in più la magistratura può chiedere provvedimenti restrittivi della libertà personale (tipo obbligo di firma o interdizione da certi luoghi) in occasione di certi avvenimenti per certi soggetti. Tipico è il caso delle tifoserie violente, ma questa facoltà è stata usata ampiamente anche prima del Royal Wedding, quando sono state effettuate vere e proprie “retate” in ambienti che si reputavano a rischio. La polizia inglese opera secondo il principio della “policing by consent”, il che non vuol dire che ti arresta solo se sei d’accordo. Significa mettere a disposizione della cittadinanza un servizio di polizia che opera con l’approvazione della cittadinanza stessa. L’esistenza stessa delle forze di polizia è dettata da un patto sociale con il popolo per cui a certe persone è demandato il compito di far rispettare le regole e la legge. Il poliziotto è al servizio del cittadino prima che della legge. E questo già spiega molte cose.
L’eccezione italiana ha anche anche un risvolto culturale che noi italiani tendiamo sempre a sottovalutare. Non si può pensare che il clima di Montecitorio non valichi quelle mura? Quando un ministro La Russa manda affanculo Fini, quando il ministro Angelino Alfano lancia la sua tessera contro i banchi dell’Idv, quando si sfiora la rissa ogni volta che c’è una votazione, quando la bagarre è perpetua e trasborda (scortata dalle auto blu con lampeggiante) direttamtente dalle sedi istituzionali ai salotti televisivi, prosecuzione catodica della rissa, non viene in mente a nessuno che il pesce puzza sempre dalla testa?
Il potere in maschera
di Barbara Spinelli (la Repubblica, 18 ottobre 2011)
Che l’Italia fosse un campione anomalo nel novero delle democrazie lo si sapeva già. Ce ne accorgiamo ogni volta che qualche straniero, di sinistra o destra, ci guarda sbigottito - o meglio ci squadra - e dice: "Non è Berlusconi, il rebus. Il rebus siete voi che non sapete metterlo da parte". Tutto questo è noto, e spesso capita di pensare che il fondo sia davvero stato raggiunto, che più giù non si possa scendere.
Invece si può, tutti sappiamo che il fondo, per definizione, può esser senza fondo. C’è sempre ancora un precipizio in agguato, e incessanti sono i bassifondi se con le tue forze non ne esci, magari tirandoti su per i capelli. L’ultimo precipizio lo abbiamo vissuto tra sabato e lunedì.
Una manifestazione organizzata in più di 900 città del mondo, indignata contro i governi che non sanno dominare la crisi economica senza distruggere le società, degenera a Roma, solo a Roma, per colpa di qualche centinaio di black bloc che in tutta calma hanno potuto preparare un attacco bellico congegnato alla perfezione, condurlo impunemente per ore, ottenere infine quel che volevano: rovinare una protesta importante, e fare in modo che l’attenzione di tutti - telegiornali, stampa, politici - si concentrasse sulla città messa a ferro e fuoco, sul cosiddetto inferno, anziché su quel che il movimento voleva dire a proposito della crisi e delle abnormi diseguaglianze che produce fra classi e generazioni. Il primo precipizio è questo: torna la questione sociale, e subito è declassata a questione militare, di ordine pubblico.
Il secondo precipizio è la pubblicazione, ieri su Repubblica, di un colloquio telefonico avvenuto nell’ottobre 2009 fra Berlusconi e tale signor Valter Lavitola, detto anche faccendiere o giornalista: un opaco personaggio che il capo del governo tratta come confidente, che la segretaria del premier tranquillizza con deferenza. Nessuno può dirgli di no, perché sempre dice: "Mi manda il Capo". Lo si tocca con mano, il potere - malavitosamente sommerso - che ha sul premier e dunque sulla Politica. È a lui che Berlusconi dice la frase, inaudita: "Siamo in una situazione per cui o io lascio oppure facciamo la rivoluzione, ma vera... Portiamo in piazza milioni di persone, cacciamo fuori il palazzo di giustizia di Milano, assediamo Repubblica e cose di questo genere". E riferendosi alla sentenza della Consulta che gli ha appena negato l’impunità: "Hai visto la Corte costituzionale? ha detto che io conto esattamente come i ministri".
Lavitola non è un eletto, né (suppongo) una gran mente. Ma un’autorità la possiede, se è a lui che il premier confida il proposito di ricorrere al golpe che disarticola lo Stato. È una vecchia tentazione che da sempre apparenta il suo dire a quello dei brigatisti, e per questo la parola prediletta è rivoluzione: contro i magistrati che indagano su possibili suoi reati (già prima che entrasse in politica) o contro i giornali da accerchiare, con forze di polizia o magari usando le ronde inventate dai leghisti. Sono due precipizi - il sequestro di una manifestazione ad opera dei black bloc, l’appello berlusconiano al golpe rivoluzionario - che hanno in comune non poche cose: il linguaggio bellico, le questioni sociali prima ignorate poi dirottate. E non l’esercizio ma la presa del potere; non la piazza democratica ascoltata come a Madrid o New York ma distrutta. Anche l’attacco dei Nerovestiti era inteso ad assediare i giornali su cui scriviamo. A storcere i titoli di prima pagina del giorno dopo, a imporci bavagli. La guerra fa precisamente questo, specie se rivoluzionaria. Nazionalizza le esistenze, le frantuma separandole in due tronconi: da una parte gli individui spaventati che si rifugiano nel chiuso casalingo; dall’altra la società declassata, chiamata a compattarsi contro il nemico. Scompare la vita civile, e con essa lo spazio di discussione democratica, l’agorà. Tra il Capo militare e la folla: il nulla. È la morte della politica.
Dovremmo aprire gli occhi su queste cateratte; su questo alveo fiumano che digrada da anni ininterrottamente. Dovremmo non stancarci mai di vedere nel conflitto d’interessi il male che ci guasta interiormente, e non accettarlo mai più: quale che sia il manager che con la scusa della politica annientata si farà forte della propria estraneità alla politica. Dovremmo dirla meglio, la melmosa contiguità fra i due atti di guerra: le telefonate in cui Berlusconi si affida a un buio trafficante aggirando tutti i poteri visibili, e i black bloc che sequestrano i manifestanti ferendone le esasperate speranze. Tra le somiglianze ce n’è una, che più di tutte colpisce: ambedue i poteri sono occulti. Ambedue sono incappucciati.
È dagli inizi degli anni ’80 che andiamo avanti così, con uno Stato parallelo, subacqueo, che decide sull’Italia. Peggio: è dalla fine degli anni ’70, quando i 967 affiliati-incappucciati della loggia massonica P2 idearono il "Piano di Rinascita". Il Paese che oggi abitiamo è frutto di quel Piano, è la rivoluzione berlusconiana pronta a far fuori palazzi di giustizia e giornali. Sono anni che il capo di Fininvest promette la democrazia sostanziale anziché legale (parlavano così le destre pre-fasciste nell’Europa del primo dopoguerra) e sostiene che la sovranità del popolo prevale su tutto. Non è vero: la res publica non è stata in mano al popolo elettore, neanche quando il leader era forte. Sin da principio era in mano a poteri mascherati, a personaggi che il Capo andava a scovare all’incrocio con mafie che di nascosto ricattano, minacciano, non si conoscono l’un l’altra, come nei Piani della P2.
Non a caso è sotto il suo regno che nasce una legge elettorale che esautora l’elettore, polverizzando la sovranità del popolo. Non spetta a quest’ultimo scegliere i propri rappresentanti - lo ha ricordato anche il capo dello Stato, il 30 settembre - ma ai cacicchi dei partiti e a clan invisibili. Se ne è avuta la prova nei giorni scorsi, quando Berlusconi ha chiamato i suoi parlamentari a dargli la fiducia: "Senza di me - ha detto - nessuno di voi ha un futuro". Singolare dichiarazione: non era il popolo sovrano a determinare il futuro, nella sua vulgata? Basta una frase così, non tanto egolatrica quanto clanicamente allusiva, per screditare un politico a vita.
La sensazione di piombare sempre più in basso aumenta anche a causa dell’opposizione: del suo attonito silenzio - anche - di fronte alla manifestazione democratica deturpata. D’improvviso non c’è stato più nessuno a difendere gli indignati italiani, e gli incappucciati hanno vinto. Non è rimasto che Mario Draghi, a mostrare passione politica e a dire le parole che aiutano: "I giovani hanno ragione a essere indignati (...) Se la prendono con la finanza come capro espiatorio, li capisco, hanno aspettato tanto: noi all’età loro non l’abbiamo fatto". E proprio perché ha capito, ha commentato amaramente ("È un gran peccato") la manifestazione truffata. Nessun politico italiano ha parlato con tanta chiarezza.
La minaccia alla nostra democrazia viene dagli incappucciati: d’ogni tipo. Vale la pena riascoltare quel che disse Norberto Bobbio, poco dopo la conclusione dell’inchiesta presieduta da Tina Anselmi sulle attività della P2. Il testo s’intitolava significativamente "Il potere in maschera": lo stesso potere che oggi pare circondarci d’ogni parte. Ecco quel che diceva, che tuttora ci dice: "Molte sono le promesse non mantenute dalla democrazia reale rispetto alla democrazia ideale. E la graduale sostituzione della rappresentanza degli interessi alla rappresentanza politica è una di queste. Ma rientra insieme con altre nel capitolo generale delle cosiddette trasformazioni della Democrazia. Il potere occulto no. Non trasforma la Democrazia, la perverte. Non la colpisce più o meno gravemente in uno dei suoi organi vitali, la uccide. Lo Stato invisibile è l’antitesi radicale della Democrazia".
NON SONO UN CRETINO
di don Aldo Antonelli
Di fronte ad un dito che indica la luna i cretini si fermano a guardare il dito.
Non voglio cadere nel tranello e le grida dei trecentomila manifestanti di Roma mi toccano più che i vandalismi di cinquecento delinquenti. I milioni di morti per fame che ogni giorno produce la nostra economia mi bruciano di più dei duecento feriti della capitale. La violenza del nostro sistema che prende alla gola, strozzandoli, popoli interi mi indigna più che quella sfasciona dei gruppi d’assalto. Questa la condanno ma non me ne faccio distrarre.
"Io non ho debito" c’era scritto su uno striscione della manifestazione.
Io avrei scritto: "Noi non paghiamo debiti"!
Il sistema dei debiti è un sistema collaudato di alto strozzinaggio.
Nel 2009 i poteri pubblici dei paesi in via di sviluppo avevano rimborsato l’equivalente di ventotto volte ciò che dovevano nel 1970. Nel frattempo il loro debito era stato molriplicato per trentadue! (Cfr: Damien Millet Le Monde Diplomatique luglio 2011, n.688, peg. 7). "Uno stato non potrebbe chiudere le sue scuole, le sue università e i suoi tribunali, sopprimere la sua polizia e negligere i suoi servizi al punto di esporre la sua popolazione al disordine e all’anarchia semplicemente allo scopo di disporre dei fondi necessari per fare fronte ai suoi obblighi verso i suoi creditori esteri" ! (Annuaire de la Commission du droit international de l’ONU,1980, p.48).
"Nessun governo democratico può sopportare la prolungata austerità e le riduzioni di bilancio dei servizi sociali pretesi dalle istituzioni internazionali"! Parola non di un comunistaccio rivoluzionario. No.
Lo ha detto l’ex segretario di stato americano Henry Kissinger.
E dunque, se la logica non è un optional, se i fatti non sono invenzioni: basta con questa storia che i debiti vanno pagati.
Non paghiamo più i debiti a nessuno!
Se qualcuno di coloro che mi leggono potrà aiutarmi gliene sarei molto grato. Non so: ma a chi, l’Italia, dovrebbe pagare il debito? Chi sono i suoi creditori? Quanto hanno ricevuto finora come pagamento?
Chi sa mi aiuti.
Aldo
Come previsto
di Antonio Padellaro (il Fatto, 16.10.2011)
Primo. Cinquecento (o forse meno) teppisti organizzati hanno distrutto la gigantesca e pacifica manifestazione degli Indignati e messo in ginocchio un intero movimento. Il corteo di duecentomila giovani e meno giovani giunti a Roma da tutta Italia e da tutta Europa è stato minato, disarticolato e infine disperso da bande di incappucciati che per cinque ore, praticamente in-disturbati hanno tenuto in ostaggio una città, bruciato auto, distrutto banche, saccheggiato negozi, incendiato un blindato dei carabinieri mettendo alle corde forze di polizia numericamente superiori. Chi sono questi professionisti della guerriglia? Da dove vengono? Chi li guida? Chi li paga? Il ministro Maroni parla di “violenza inaccettabile” ma è mai possibile che malgrado i ripetuti allarmi dell’ intelligence, l’orda abbia potuto agire indisturbata?
Secondo. Non era difficile prevedere che un’enorme concentrazione di popolo in cui confluivano decine di sigle sindacali e movimentiste, priva di un qualsiasi servizio d’ordine, abbandonata a un’improvvisata autogestione diventasse l’habitat ideale della guerriglia annunciata. Abbiamo visto i manifestanti arrivare allo scontro fisico con i violenti, e perfino bloccarli e consegnarli alle forze dell’ordine. Ma, e lo diciamo agli organizzatori, bisognava pensarci prima. Non vorremmo davvero che la logica dei “compagni che sbagliano” abbia reso ciechi e sordi quanti avrebbero potuto impedire o comunque denunciare l’infiltrazione nel corteo dei manipoli teppisti.I quali hanno inferto al movimento un danno incalcolabile proprio mentre in altre 82 capitali la protesta si dispiegava forte e pacifica.
Terzo. Il governatore Draghi, bersaglio simbolo della protesta ha usato parole sagge accogliendo le ragioni del 99 per cento costretto a pagare il conto dell’1 per cento, presentato dalla grande finanza mondiale. Ma nessuno poteva pensare che un altro 1 per cento, questa volta armato di spranghe avrebbe potuto fare qualcosa di peggio alla generazione degli indignati.
di Michele Ciliberto (l’Unità, 16.10.2011)
Il movimento che ieri ha coinvolto centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo merita una severa e rigorosa riflessione, tanto più alla luce delle violenze che l’hanno devastato. Anche perché azzardo una previsione esso è destinato a durare nel tempo per un motivo preciso: ha una dura e resistente base materiale. Molti dei giovani che hanno manifestato hanno sentito, e continuano a sentire, nella loro carne i morsi della disoccupazione, della mancanza di futuro, di prospettiva di vita. Come si sa, ci si abitua a molte cose, purtroppo. Ma quando entrano in crisi le ragioni primordiali dell’esistenza, scatta qualcosa nel profondo di ciascuno che spinge, in modo irresistibile, a dire no. È come se dalla dimensione della “cultura” si ridiscendesse a quella della “natura” per cercare di rendere chiari a tutti e anzitutto a se stessi le ragioni primarie del proprio essere al mondo e del proprio diritto alla vita, rimettendo al centro, come sta accadendo in questo periodo, il discorso sui “beni comuni”, cioè sui fondamenti del vivere individuale e collettivo.
È questa la situazione di crisi, e di svolta, al quale ci ha condotto il modello economico che ha dominato il mondo negli ultimi decenni acuendo come mai si era visto prima le diseguaglianze tra gli uomini, i Paesi, i continenti. Lo constatiamo, del resto, giorno per giorno nel nostro Paese: il berlusconismo con i suoi tratti specifici e anche grotteschi, è forma e momento di una crisi più vasta, alla quale occorre guardare con freddezza e lucidità, per poterne uscire sia in Europa che in Italia.
Rispetto ai violenti che hanno devastato la manifestazione di ieri bisogna prendere le distanze in modo netto e durissimo. Ma si sbaglierebbe se si interpretasse questo movimento come una pura e violenta difesa di interessi particolari. Quello che ho chiamato ritorno alla “natura” contiene sia pure in forme contraddittorie elementi di novità, connessi al punto di sviluppo cui è arrivato la nostra civiltà. Come si vede da alcune parole d’ordine, in queste manifestazioni si esprime anche la ricerca di nuovi “legami” capaci di strappare gli individui dal cerchio ristretto, e perdente, della loro singola esperienza proiettandoli verso nuove forme di riconoscimento, di condivisione, di solidarietà. “Legami” di tipo nuovo incentrati, per fare un esempio, sulla difesa e la valorizzazione di beni primari come l’acqua che si situano oltre le barriere dei “beni” affermati, e difesi, nella sua lunga storia dal movimento operaio.
Che si tratti di un movimento che, nelle sue parti positive, vuole confrontarsi con le ragioni materiali della crisi è dimostrato dalla critica, addirittura violenta, che fa contro il capitalismo finanziario, rivendicando il primato, in forme nuove, della politica. Né c’è dubbio che su questo punto esso ponga un problema decisivo: è la politica, non l’economia, il luogo centrale del “vivere comune”, di quello che una volta si chiamava l’interesse generale. Così come è giusto porre, di fatto, il problema di nuove forme di rappresentanza che siano in grado di contenere gli esiti dispotici di cui abbiamo anche esperienza in Italia della democrazia, quando vengano meno o si spezzino i rapporti tra “governanti” e “governati”.
L’esatto opposto di quello che vogliono i violenti di ieri. Ma proprio per questo è necessario fare un’analisi severa e rigorosa della situazione. Di fronte a noi c’è un magma, nel quale sono presenti anche elementi negativi, di violenza, da criticare con durezza. Cosa possa diventare questo movimento e quale sia il contributo che può dare alla “riforma” delle stesse forme della rappresentanza democratica dipende anche dagli altri, anche da noi, dalla capacità di ascoltarlo e di criticarlo, confrontandosi con esso in modo adulto, maturo. Dipende insomma anche dalla nostra iniziativa ideale, culturale e politica, nella quale deve essere ben chiaro un punto: il lavoro era, e resta, il centro della emancipazione umana. Senza lavoro dalla “natura” si precipita nella “barbarie”. Ma è una dura battaglia: come hanno dimostrato gli avvenimenti di ieri, c’è sempre il rischio che, come diceva il vecchio Vico, le città ridiventino “covili d’uomini”.
UNA NUOVA EPOCA
di Valentino Parlato (Il manifesto, 16.10.2011)
Quella di ieri a Roma è stata una manifestazione storica, il segno di un possibile cambiamento d’epoca. Una manifestazione enorme, rappresentativa di tutto il paese (camminando nel corteo e in piazza si sentivano gli accenti di tutte le regioni italiane). E ancora, una manifestazione che si realizzava in contemporanea con tante altre nel mondo, in Europa e anche negli Usa, tutte concentrate sul cambiamento del modello di sviluppo, a sancire la crisi del liberalcapitalismo. Per dire che così non si può andare avanti, che la politica di oggi è arrivata a un punto morto e che ci vuole un’inversione di rotta, anche dei partiti politici, oggi ridotti alla sopravvivenza di sé stessi.
A Roma ci sono stati anche scontri con la polizia e manifestazioni di violenza. Meglio se non ci fossero state, ma nell’attuale contesto, con gli indici di disoccupazione giovanile ai vertici storici, era inevitabile che ci fossero. Aggiungerei: è bene, istruttivo che ci siano stati. Sono segni dell’urgenza di uscire da un presente che è la continuazione di un passato non ripetibile.
La manifestazione e le pressioni che essa esprime chiedono un rinnovamento della politica. È una sfida positiva agli attuali partiti di sinistra a uscire dal passato e prendere atto di quel che nel mondo è cambiato. La crisi attuale - più pesante, dicono in molti, di quella del 1929 - non può essere superata con i soliti strumenti. Negli Usa fu affrontata con il New Deal e in Italia e Germania, dove lo sbocco fu a destra, non con le privatizzazioni, ma con le nazionalizzazioni di banche e industrie. Ci ricordiamo dell’Iri, fondamentale nell’economia anche dopo la caduta del fascismo?
Quello che è accaduto ieri deve aprirci gli occhi e la mente. Non si può continuare a fare politica con le vecchie ricette. Ci dovranno essere cambiamenti anche nelle lotte sul lavoro e nel sindacato, e nella politica economica. Per concludere, vorrei ricordare che dopo il discorso di Sarteano anche un banchiere come Mario Draghi ha detto di capire le ragioni degli indignati. Forse siamo all’inizio di una nuova epoca.
Perderete la guerra
di Giovanni Sarubbi
Una riflessione a caldo sulla manifestazione di Roma del 15 ottobre *
Oramai il copione lo sanno a memoria, come attori consumati. Il palcoscenico è sempre lo stesso, quello delle manifestazioni di massa che altri hanno organizzato su altri contenuti e soprattutto con modalità pacifiche.
Parliamo dei cosiddetti “black block”, il “blocco nero” che ha già recitato la sua tragica commedia a Genova nel 2001 ed in altre parti d’Europa. Oggi 15 ottobre hanno recitato a Roma durante la manifestazione degli “indignati” a cui hanno partecipato oltre trecentomila persone. Loro, il “blocco nero” hanno incendiato, devastato, distrutto tutto quello che gli capitava a tiro con la polizia, come hanno detto tantissimi osservatori anche della TV e dei giornali, che ha sostanzialmente lasciato fare, come al G8 di Genova nel 2001. Appunto un copione imparato a memoria. Con gli stessi attori e la stessa regia. E come allora anche oggi è arrivata puntualissima agli “indignati” l’accusa di essere violenti da parte degli esponenti di quella destra eversiva che è al governo e che ha ridotto il paese alla bancarotta, favorendo con la propria politica l’arricchimento di finanzieri d’assalto, cricche e logge di tutti i tipi e costruendo una vera e propria corte di faccendieri che ha spolpato letteralmente l’Italia. E proprio ieri questa corte è stata ulteriormente incrementata con altri quattro sottosegretari di cui nessuno avvertiva la necessità. Altri quattro stipendi d’oro, altre auto blu e fondi pubblici da gestire e dirigere verso le proprie consorterie.
Le immagini e le cronache dei mass media dicono con chiarezza che si è cercato, da parte delle forze della cosiddetta sicurezza nazionale, il tanto peggio tanto meglio o forse sarebbe meglio chiamarlo “schema Cossiga”, quello schema che lo stesso oramai defunto ex presidente della Repubblica Cossiga raccontò in una intervista poco prima di passare a miglior vita. Lo schema che da ministro dell’interno aveva più volte usato, con l’infiltrazione di agenti provocatori all’interno delle manifestazioni pacifiche dei sindacati, per creare disordini e scontri e poter poi indicare i sindacati e i lavoratori come delinquenti e criminali, ottenendo poi anche l’approvazione di leggi liberticide.
Quando Cossiga, da ministro dell’interno, faceva queste cose si trovava però ad avere a che fare con un movimento sindacale organizzato, che conosceva una per una le persone che partecipavano alle manifestazioni ed i provocatori erano così subito smascherati ed isolati. E a quel punto spesso scattavano le cariche vere e proprie e spesso ci sono stati morti e feriti.
Anche le manifestazioni organizzate da Gandhi avevano la stessa caratteristica della organizzazione ferrea e meticolosa dei partecipanti, perché chi si pone l’obiettivo di cambiare profondamente la realtà sociale deve mettere in conto la provocazione violenta di chi vede messo in discussione il proprio potere. E chi provoca lo fa per tentare di passare dalla parte della ragione, per additare coloro che contestano il suo potere come violenti e come nemici della pace sociale. E’ una storia vecchia, un copione oramai consunto per il suo troppo uso.
E’ chiaro a tutti, anche guardando le immagini trasmesse dalle TV, che l’enorme maggioranza dei pacifici manifestanti di Roma, che non erano a questo preparati, si sono trovati ad avere a che fare con un gruppo di persone militarmente addestrati ed altrettanto militarmente organizzati. Non si può, infatti, indossare una maschera antigas senza un addestramento specifico al suo uso, né si possono usare esplosivi o bombe molotov o altri strumenti bellici senza uno specifico addestramento. Chi lo facesse rischierebbe di morire sul colpo per mano sua stessa.
In Italia le organizzazioni in grado di fornire un addestramento di tipo militare, che è anche molto costoso, non sono molte e sono tutte note. Ve le indichiamo di seguito. Scegliete poi voi quale di queste organizzazioni vi sembra essere quella dove vengono addestrati i “black block”. Oltre ai vari corpi militari dello Stato, e ce ne sono tanti (esercito, marina, aeronautica, carabinieri, polizia, Guardia di Finanza, servizi segreti) c’è la criminalità organizzata, che ha un proprio esercito addestrato all’omicidio ai pestaggi e all’uso di esplosivi. E poi ci sono i gruppi neonazisti, di cui spesso sono segnalati dei veri e propri campi paramilitari in giro per l’Italia mascherati in vario modo, dove si “gioca alla guerra” e dove vengono usate armi giocattolo ad aria compressa che sono una perfetta imitazione di quelle vere, con tanto di assalti, imboscate e battaglie.
Ma la provocazione e l’esistenza di vere e proprie agenzie del reclutamento e della formazione di delinquenti provocatori, non avrebbe alcuna possibilità di avere successo se il movimento di massa attuale fosse come quello sindacale dei primi anni ’70 del secolo scorso, o come quello organizzato da Gandhi in Sud Africa o in India, o come quello messo su da Capitini per organizzare la sua prima marcia per la pace Perugia-Assisi.
Oggi ci troviamo di fronte invece ad un movimento di persone che si dicono “indignate” per quello che stanno subendo, che dicono di essere apartitici nel senso di apolitici cioè lontani dal sudiciume e dal ladrocinio che oggi domani la politica nazionale. La miseria e la violenza che si stanno scaricando su milioni e milioni di persone disoccupate, senza casa, a cassa integrazione o privi del diritto alla studio, o fallite, soprattutto nel mondo capitalistico, stanno portando queste persone a reagire e a dire basta.
Ma questo significa che siamo solo al primo gradino di un lungo percorso in salita che dovrà trasformare l’indignazione, la rabbia, la paura per il proprio futuro e per quello dei propri figli in coscienza di ciò che è necessario fare per dare un futuro a questa umanità e al pianeta Terra che ci ospita come ospiti sempre più sgraditi. E si tratta di gradini che devono portare milioni di persone ad imparare a partecipare alle manifestazioni in modo organizzato, su parole d’ordine precise, con modalità rigidamente pacifiche che escludano qualsiasi forma di violenza. Si dovrà tornare a parlare con le persone in carne ed ossa, rifiutando l’egoismo, l’individualismo, l’apparire invece che l’essere, l’ingordigia smodata dei ricchi e gaudenti che sta uccidendo milioni e milioni di esseri umani. Si dovrà imparare dalla esperienza del movimento sindacale italiano o da quella dei grandi movimenti nonviolenti di Gandhi, Martin Luther King, Capitini. Si dovranno capire bene i meccanismi che hanno portato l’umanità sull’orlo del baratro e chiedere e pretendere che i responsabili siano puniti ed arrestati, come hanno fatto nella pacifica Islanda.
Ieri ci auguravamo che la manifestazione di oggi a Roma fosse l’inizio di un grande e pacifico movimento di massa di milioni di persone per fermare la follia della guerra che è oggi il pericolo reale e incombente su tutta l’umanità. I “black block” e chi li manovra oggi hanno forse segnato un punto a loro favore, ma noi siamo sicuri che perderanno la guerra perché la guerra sarà bandita dalla vita dell’umanità. Che vinca la vita!
Giovanni Sarubbi
* Il dialogo, Sabato 15 Ottobre,2011 Ore: 23:09
La solidarietà di Draghi? Cornuti e mazziati... *
di Claudio Fava *
Il governatore uscente della Banca d’Italia Mario Draghi dice d’essere solidale con gli “indignati”, i giovani italiani che protestano per una crisi economica che colpisce anzitutto le loro vite e il loro futuro. Due giorni fa Luca Cordero marchese di Montezemolo aveva detto altrettanto: fanno bene questi ragazzi a protestare... Si tratta, com’è noto, di due omonimi del Draghi futuro presidente della Bce e del Montezemolo ex presidente di Confindustria. Se questi ragazzi sono con la merda fino al collo lo devono anche alle politiche padronali e alle letterine della Bce che reclama conti in ordine, tagli all’occupazione e più precarietà per tutti. A sentirsi offrire la solidarietà di Draghi e Montezemolo, quei ragazzi dovrebbero sentirsi cornuti e mazziati. Ma per fortuna è solo un caso di spiacevole omonimia.
* Il Fatto Quotidiano, 15.10.2011
http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/10/15/la-solidarieta-di-draghi-cornuti-e-mazziati/164084/
I RACCONTI CORRONO SUL WEB
"Sognavo Piazza Tahrir e Wall Street
mi sono trovato in mezzo al fuoco"
Su Twitter rabbia e delusione:
«Hanno oscurato la protesta»
di GIUSEPPE BOTTERO (La Stampa, 15.10.2011)
«Ho abbandonato il corteo. Wall street, Plaza de Cataluña e Piazza Tahir sono lontanissime». Paolo De Guidi, pacifista, per buona parte dell’anno gira il mondo con uno scooter, o a piedi. E’ un creativo, indignato davvero contro il governo e la cattiva politica. Ma oggi, dopo aver iniziato la marcia di Roma a «San Lorenzo» sotto «un sole glorioso» ha lasciato il serpentone. Deluso. Amareggiato. «Guerra, boati, gente che scappa in massa» racconta, come sempre, sul suo account Twitter. «Porto un cartello "keep calm and occupy everything" e mi sento tanto fuori posto. Questo non è #occupyrome è il solito triste corteo, la solita inutile fiera dei megafoni, il solito degrado».
Capita, in mezzo a migliaia di persone, di sentirsi solo: «Non ho notizie ma scommetto che siamo gli unici in Europa a far guerra. Mi vergogno d’esser qui». Però non è l’unico. Sono centinaia quelli gridano «basta violenza», «fermatevi». Eppure, per Paolo, il colpo d’occhio è desolante: «Pochi, disorganizzati, arroganti e provinciali».
I colpevoli? Gli incappucciati nero. I gruppi organizzati. In diretta racconta: «La manifestazione è divisa in spezzoni indipendenti. Ognuno corre per avere il suo striscione più in vista».
Da piazza della protesta virtuale Twitter si trasforma in raccoglitore di sfoghi. «Mi viene da piangere, l’Italia non è questa» dice Elena Schiavon. Da Londra rimbalzano le fotografie di Assange, da Roma quelle degli scontri. Confuso tra i manifestanti c’è Frankie Hi Nrg, il rapper: «Peccato quei caschi, quelle sciarpe, quei cappucci neri, vecchi e brutti.. Oggi siamo in piazza per portare bellezza» twitta dalla piazza. Francesco: «Sembra Genova 2001, forse anche peggio». Risponde Francesca Mazzuccato, scrittrice e blogger: «Restare senza parole va insieme a restare senza speranza».
In piazza contro i banchieri
di Gad Lerner (la Repubblica, 15.10.2011)
Lungi dal rallegrarsi per il prestigioso incarico che un nostro connazionale verrà chiamato ad assolvere fra due settimane al vertice della Banca centrale europea, gli indignados lo demonizzano. Per loro, Draghi ribelli, il governatore rappresenta la personificazione di una cupola tecnocratica che impone sacrifici ai poveri e protegge i ricchi, costringendo i governi a onorare i debiti sovrani e finanziare le banche in crisi. Lo stesso presidente Napolitano viene criticato dai manifestanti per la sua "sottomissione" alle richieste della finanza internazionale, di cui Draghi sarebbe il rappresentante.
Fino a ieri nel nostro paese era più facile trovare qualcuno disposto a parlar male di Garibaldi, piuttosto che a criticare apertamente la Banca d’Italia, istituzione che ha sempre goduto di un raro rispetto bipartisan. Mai prima d’ora Palazzo Koch e le sedi periferiche della Banca d’Italia erano stati oggetto di azioni dimostrative e tentativi d’occupazione. È doveroso che tali proteste si mantengano entro i limiti della legge e della nonviolenza, ma, ciò premesso, sarebbe ingenuo liquidarle come isolato fenomeno estremista.
I giovani scolarizzati ma precari, i lavoratori autonomi della conoscenza e i dipendenti delle aziende in crisi, masticano abbastanza di economia e sono abbastanza informati sui meccanismi di arricchimento al vertice della piramide sociale, da trarne una consapevolezza divenuta senso comune: il potere e i soldi si allontanano; la finanza convive sempre peggio con la democrazia.
Ciò spiega il palese disinteresse rivelato dagli indignados nostrani, tutt’altro che provinciali, anzi, compiaciuti del proprio gergo poliglotta, nei confronti delle convulsioni parlamentari e governative in atto. Snobbano Berlusconi, marionetta in disuso; prendono sul serio Napolitano, quale garante della sovranità nazionale; ma gli preme di misurarsi con Draghi, figurandoselo entità sovrastante. È come se volessero sottolineare l’irrilevanza della politica, imbelle nel fronteggiare la Grande Depressione. Una politica soggiogata per intero al diktat che Jean-Claude Trichet e Mario Draghi il 5 agosto scorso hanno avuto l’ardire di certificare per iscritto, nella loro lettera ultimativa al governo italiano. Procedura inusitata, quella lettera, ma senza la quale probabilmente la Bce non avrebbe mai approvato il provvidenziale piano d’acquisti di Titoli di Stato italiani.
Ecco spiegata la ruvida attenzione concentrata sulla Banca d’Italia, di per sé un’istituzione dotata di poteri d’indirizzo e vigilanza tutto sommato ridotti, da quando non c’è più la lira; eppure riconosciuta più autorevole degli altri Palazzi, in quanto "succursale" di un vero potere sovranazionale. Perfino la torbida controversia sulla nomina del successore di Mario Draghi, irresponsabilmente trascinata oltre i limiti della decenza, contribuisce a enfatizzare Via Nazionale come nuovo Palazzo d’Inverno.
Mercoledì scorso, quando hanno consegnato al Presidente della Repubblica una lettera alternativa a quella firmata da Draghi e Trichet, chiedendo un rovesciamento delle priorità in essa contenute, i Draghi ribelli hanno compiuto un gesto tutt’altro che sprovveduto. Segnalano l’emergere su scala planetaria di un pensiero fortemente alternativo ai vincoli imposti dai mercati finanziari.
C’è molto imbarazzo nella sinistra italiana a discuterne, per il timore di figurare poco affidabili in Europa proprio ora che sembra riavvicinarsi la prospettiva del governo. Ma con le istanze del movimento che scende in piazza oggi a Roma sarà doveroso fare i conti. Perché la sinistra del futuro non potrà contraddistinguersi per il solo risanamento finanziario. Dovrà cimentarsi in un difficile tentativo di redistribuzione della ricchezza, dopo la lunga stagione dell’iniquità.
La follia dei replicanti armati
di Gad Lerner (la Repubblica, 16 ottobre 2011)
Una replica fuori tempo massimo dell’insurrezionalismo novecentesco si è sovrapposta con la violenza alla novità di un movimento democratico che lanciava la sua sfida creativa alla tirannia finanziaria. Ha preso la mira per sbriciolarlo e per impossessarsene, riconducendolo agli schemi di un’ideologia militaresca. Un’ideologia che i giovani di tutto il mondo, sia pure ribelli, avevano ripudiato da anni. A questo scopo i replicanti hanno sfregiato la città di Roma, calpestando la resistenza inutilmente opposta loro dal corteo formato in massima parte da un popolo che crede nella protesta pacifica; perché a loro piace ridurre ogni popolo a fenomeno criminale.
Vandalismi dissennati, offese gratuite a simboli religiosi, vili aggressioni che hanno gettato nella costernazione gli organizzatori della mobilitazione nazionale degli indignati. Come un maledetto déjà-vu si ripropone il dubbio che il nostro Paese sia impedito a vivere una stagione davvero nuova, in cui sfide anche radicali di cambiamento possano esprimersi sotto forma di confronto democratico. L’impressione è che anche le forze dell’ordine siano giunte impreparate all ’appuntamento, come già accadeva negli anni in cui da più parti si puntava a imprigionare in una logica bellica il conflitto sociale. Ma questo dubbio non attenua di certo la condanna doverosa dei parassiti mascherati, capaci solo di recitare la parodia della guerriglia urbana.
Penoso è il confronto con le altre sollevazioni giovanili che hanno contraddistinto l’intero corso del 2011. Perfino quando i militari gli sparavano addosso, nel gennaio scorso, gli occupanti egiziani di piazza Tahrir hanno saputo prevalere grazie alle tecniche della nonviolenza. A Madrid in primavera gli indignados hanno circondato pacificamente il Parlamento. Tel Aviv ha convissuto per mesi con un accampamento nel suo boulevard centrale. A New York il sindaco ha rinunciato a sgomberare il Zuccotti Park di fronte al comportamento esemplare dei manifestanti. I saccheggi estivi a Londra nulla avevano a che fare con le rivendicazioni di giustizia sociale su cui s’è interconnesso il movimento "for global change". Solo la Grecia ha conosciuto episodi di violenza ideologica simili a quelli perpetrati ieri a Roma, ma in un contesto di sofferenza sociale ben più acuto. Gli spaccatutto incappucciati nostrani sono portatori di un arsenale ideologico per nulla rappresentativo delle realtà di disoccupazione, precariato, povertà che affliggono l’Italia contemporanea. Sono meri guastatori, cui dava solo fastidio il clima di comprensione e simpatia che da alcuni giorni cominciava ad aleggiare intorno alla protesta degli indignati.
Ieri mattina lo stesso Mario Draghi, pure additato come supremo rappresentante della cupola tecnocratica contro la quale era stata indetta la manifestazione, aveva riconosciuto le buone ragioni della protesta (anche se di certo non ne condivide gli obiettivi). E il premio Nobel statunitense Paul Krugman invitava i suoi colleghi economisti e i "sapientoni della finanza" a un esercizio di umiltà, visto il fallimento delle loro ricette: «I dimostranti hanno ragione». Così poteva, doveva accadere pure a Roma. Scendevano in piazza le avanguardie di un movimento rappresentativo di quella maggioranza della popolazione - forse non il "99 per cento" scandito negli slogan, ma comunque una larga maggioranza - rimasta vittima troppo a lungo di una scandalosa ripartizione del benessere a favore di pochi. Si erano inventati un linguaggio e delle forme di lotta aspre ma innovative, capaci di scavalcare i recinti di un confronto politico retrogrado. Proponevano soluzioni eretiche rispetto ai dogmi delle istituzioni finanziarie internazionali, forse impraticabili ma che era doveroso prendere in considerazione, come il default pilotato e il reddito di cittadinanza.
Temo che da oggi per un po’ non si potrà più scherzare sulla "santa insolvenza", né discutere più seriamente sulla legittimità della lettera inviata dalla Bce al nostro governo. Perché gli indignados qui in Italia sono stati calpestati dai black bloc e ancora una volta, inevitabilmente, prioritario diviene il ripristino della sicurezza urbana. Un tetro alibi di ferro, regalato a una politica capace solo di balbettare di fronte ai giovani che rialzano la testa. A togliere loro la speranza, stavolta, ci provano degli zombie, sbucati fuori dal passato oscuro della nostra democrazia malata.
Per un giorno il mondo parla spagnolo
Novecento città unite nella protesta nata 5 mesi fa a Madrid
Il mondo parla con inconfondibile accento spagnolo. Sono più di novecento le città di oltre 80 paesi dei cinque continenti che oggi scenderanno in piazza rispondendo a un appello venuto da lontano.
di Manuel Anselmi, Alessandro Oppes e Angela Vitaliano (il Fatto, 15.10.2011)
MADRID Era il 30 maggio, appena due settimane dopo la nascita del movimento degli “indignados”, quando nel clima di euforia della Puerta del Sol, fra tende da campeggio, gruppi di lavoro e assemblee permanenti, nacque l’idea un po’ folle di trasformare una protesta locale in manifestazione planetaria. Lo slogan globale venne scandido la prima volta nelle piazze di Spagna il 15 maggio: “Uniti per un cambiamento globale. Non siamo merce nelle mani di politici e banchieri, loro non ci rappresentano”. Parole concordate nell’assemblea preparatoria che, nei giorni scorsi, ha riunito a Barcellona i rappresentanti di una quindicina di paesi.
In Spagna saranno oltre 60 le città che scenderanno in piazza, ma il cuore della protesta sarà, ancora una volta, la Puerta del Sol, dove tutto prese il via in un pomeriggio di primavera, a pochi giorni dalle elezioni amministrative che segnarono la disfatta del Psoe di Zapatero. Anche questa volta, ci sono elezioni in vista: manca un mese alle politiche. Ma loro, gli “indignados” di Spagna, ripetono: “Non ci interessa. Questi politici non ci rappresentano”.
NEW YORK Alla fine, gli “indignados” di Wall Street si sono armati, ma solo di scope, disinfettanti e strumenti da giardinaggio per rifare un po’ il make up delle aiuole di Zuccotti Park. La decisione degli occupanti è scattata dopo che il sindaco Bloomberg, giovedì sera, aveva annunciato che ieri mattina, alle 7, gli addetti alla sanitation si sarebbero recati nell’area per il regolare lavoro di pulizia che, da circa un mese, non viene effettuato proprio per la protesta in atto. Il sindaco, che aveva fatto una visita a “sorpresa” agli “occupanti”, spiegando che Zuccotti Park doveva essere sgomberato prima dell’arrivo degli spazzini, aveva provato anche a rassicurarli sul fatto che, subito dopo, la protesta avrebbe potuto ricominciare regolarmente. Un’ipotesi che, però, non è andata giù ai ragazzi che temevano la messa in atto di regole ancor più restrittive, come il divieto di utilizzo di sacchi a pelo, unica difesa contro il freddo e la pioggia che nella notte di giovedì è caduta copiosa. Intanto per oggi, è prevista una mobilitazione degli studenti delle scuole di ogni grado, in supporto all’occupazione di Zuccotti Park la cui onda d’urto non accenna a diminuire.
SANTIAGO Sono giovani, sono comuniste e sono donne. Hanno dei ruoli di dirigente, di portavoce, di responsabili. L’opinione pubblica mondiale, conosce soprattutto il nome di Camila Vallejo. Soprattutto grazie alla sua bellezza. Ma la Vallejo il 15 novembre, data della rielezione del portavoce della Confech, la confederazione dei movimenti universitari, molto probabilmente lascerà. Forse sparirà nell’anonimato come molti suoi predecessori, forse, come invece spera il Pc cileno che l’ha già inserita nel coordinamento nazionale del partito, continuerà a fare politica. Di sicuro, dietro di lei, tra le fila de movimento, ci sono tante ragazze pronte a prendere il suo posto. Come Camila Donato, Daniela Serrano o come Karola Carioli. Ancora più giovani della già giovane Vallejo. È singolare che molte di loro si chiamano Camila, qualcuno ipotizza in onore di Camilo Cienfuegos, il compagno di lotta di Fidel Castro morto per un incidente subito dopo la rivoluzione. Di sicuro molte di queste ragazze vengono da famiglie di comunisti che hanno sopportato duramente gli anni della dittatura di Pinochet.