di Susanna Turco *
La calabrese Angela Napoli è una mosca bianca del Pdl. Sul suo conto, per intendersi, i berluscones più forsennati dicono «è inaffidabile». Rigorosa, troppo rigorosa: ergo, inaffidabile. È una finiana, naturalmente, ma fuori dalle nuances del Pdl è molto di più. Da cinque legislature, seduta in commissione Antimafia, fa la guerra alla ’ndrangheta e alla mafia in genere. Denunce e appelli che le hanno portato in dote due macchine di scorta che la seguono da sette anni. Giorni fa, ad Annozero, non ha avuto dubbi nell’avvertire come la criminalità organizzata sia in piena attività per garantirsi posti in consiglio regionale. Così, adesso, se le si chiede che idea si è fatta di quel che sta accadendo a Rosarno, non ci va leggera.
Ha notato la coincidenza rispetto alla bomba scoppiata meno di una settimana fa a Reggio?
«I disordini sono cominciati in contemporanea con la seduta del Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza a Reggio. Se è una coincidenza, non può passare inosservata. Non può non far pensare a interventi di depistaggio da parte della ’ndrangheta».
È andata a Rosarno?
«No, ma ho seguito costantemente cosa accadeva. E valutando gli atti intimidatori dai quali era partita la protesta, ho capito che doveva esserci senz’altro l’intervento della mafia. È chiaro è stata una provocazione: una provocazione consapevole della reazione ci sarebbe stata.
Un diversivo, lei dice.
«Un possibile depistaggio rispetto all’attenzione su Reggio dopo l’esplosione dell’ordigno alla Procura generale: per portare altrove le indagini e il controllo».
Qualcuno dice che quella potrebbe essere la risposta alla svolta positiva che c’è stata negli ultimi ptempi negli uffici giudiziari.
«Nell’ultimo anno c’è effettivamente stata un’attività encomiabile da parte della Procura, ma soprattutto da parte dell’organico della Dda reggina. C’è una grande attività di contrasto alla malavita, una maggiore attenzione dal punto di vista processuale e investigativo».
Ad Annozero lei ha lanciato l’allarme sul rischio che il consiglio regionale che si va ad eleggere sia infiltrato.
«Occorre premettere che l’attuale, quello che sta per scadere, è il consiglio regionale più inquisito d’Italia».
Quanti sono?
«Non so, ma c’è tutt’ora gente in galera. Io stessa, nella scorsa legislatura, avevo chiesto lo scioglimento del consiglio. E ora leggo che diversi consiglieri dell’attuale maggioranza tentano di migrare».
Per essere ricandidati nel Pdl e liste collegate?
«C’è per esempio Cherubino, che ha lasciato lo Sdi per i socialisti di Mancini. La Rupa, rinviato a giudizio per voto di scambio, in transito verso il Pdl. Morrone, già assessore con Loiero e rappresentante del vecchio sistema clientelare. Tripodi, tutt’ora indagato, ex Udeur ora Udc. Poi, tra i papabili per le liste, ci sono amministratori dei comuni sciolti per infiltrazione mafiosa».
Ma non sono condannati.
«E questo li rende candidabili. Eppure, se questi amministratori sono citati nelle relazioni d’accesso come responsabili di atti che hanno portato allo scioglimento, mi sembra che almeno questo giro dovrebbero restare fuori. Soprattutto in questo momento di sfida della ’ndrangheta verso lo Stato».
La mafia che vuole sedere in consiglio regionale, dice lei.
«Vuole continuare a farlo».
Conservazione dell’esistente?
«Con l’aggravante della nuova strategia: quella della ’ndrangheta vestita di nuovo, fatta anche da gente laureata e quindi in grado entrare direttamente in politica. Persone che cercano di andare laddove si può vincere. E che contribuiscono di fatto a determinare la vittoria».
Qualcuno che faccia qualcosa?
«Non c’è, secondo me, coscienza da parte dei partiti politici: mirano al risultato, non alla qualità del consenso. Devo dire però che una voglia di pulizia comincia ad esserci, ma serve in citamento da parte della società civile. Tanta gente mi dice “grazie per aver avuto il coraggio di dire quello che tutti sappiamo”».
Già, ma nessuno parla.
«Perché non si sentono protetti. Il sindaco di San Lorenzo del Vallo oggi ha ricevuto una lettera minatoria perché aveva chiesto pulizia nelle liste. Trovare le forze non è facile».
Mandano bossoli anche a lei?
«No, con me usano tecniche diverse. L’isolamento. Minacce larvate che sono comprensibili solo per chi conosce determinati usi. Come le querele. O le richieste di chiusura di Annozero dopo la mia intervista. Ce n’era una ieri sulla Stampa».
E lei si sente isolata?
«Non c’è dubbio. Isolata dall’ambiente politico. Proprio perché sono considerata troppo intransigente. Non avrebbero gradito nemmeno la mia ricandidatura. Ma tant’è».
* l’Unità, 10 gennaio 2010
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
REGGIO CALABRIA. BOMBA ALLA PROCURA GENERALE. NAPOLITANO: «PIENO SOSTEGNO A MAGISTRATI».
ANGELA NAPOLI (BLOG)
A San Giovanni in Fiore catena umana per l’Abbazia e la Legalità
CHIESA: MAGISTERO SENZA GRAZIA ("CHARIS").
Calabria, restauro dell’Abbazia florense: tra "Pinocchio" e il silenzio assordante
PAURA NEL GIORNO DELLA VISITA DI NAPOLITANO
Auto con armi all’aeroporto di Reggio
"Forse un’intimidazione a Napolitano"
Nel veicolo trovato un vero arsenale.
I carabinieri frenano: nessun legame
con la visita odierna del Capo di Stato *
REGGIO Un vero arsenale bellico è stato trovato dai carabinieri su un’automobile parcheggiata nei pressi dell’aeroporto di Reggio Calabria. La macchina si trovava in via Ravagnese. La scoperta è stata fatta durante i pattugliamenti predisposti per la visita del Capo dello Stato Giorgio Napolitano.
L’episodio, stando a quanto si apprende, non è da collegarsi alla visita del presidente, bensì a una banda di criminali (probabilmente astorsori) che si sono sentiti in pericolo proprio per i pattuglioni delle forze dell’ordine che hanno vigilato per l’intera permanenza del Capo dello Stato a Reggio. Nell’auto sono stati sequestrati due fucili a canne mozze, due pistole (una a tamburo e una semi automatica), esplosivo e benzina. Nell’autovettura, una Fiat Marea di colore nero, risultata rubata nei giorni scorsi a Reggio Calabria, i militari dell’Arma hanno anche rinvenuto tre passamontagna di colore verde, oltre alle armi, a due ordini rudimentali e ad una tanica con liquido infiammabile.
I carabinieri del Comando provinciale di Reggio Calabria hanno escluso in maniera categoria che il fatto fosse legato alla visita del Presidente della Repubblica. L’auto è stata individuata da una pattuglia intorno alle 12.30 in via Ravagnese, regolarmente parcheggiata, ma non chiusa e con un finestrino semi aperto. All’interno i carabinieri hanno trovato due fucili semiautomatici da caccia calibro 12 con le canne tagliate. Poi, sotto il sedile del guidatore sono state trovate due pistole, una calibro 7.65 ed una 38 a tamburo, e due ordigni rudimentali, un composto da un tubo lungo una trentina di centimetri e largo 12 ed un altro di 15 centimetri per 12, collegati con una miccia a lenta combustione e tre passamontagna di colore verde. Nel bagagliaio, infine, è stata trovata una tanica da due litri con liquido infiammabile alla quale erano attaccati fiammiferi antivento. Secondo i carabinieri, gli ordigni e le armi, con ogni probabilità, dovevano servire a compiere attentati di intimidazione nei confronti di commercianti o imprenditori.
Di parere diverso gli esperti antimafia che collegano - stando a quanto riferito dall’agenzia Agi - l’episodio di oggi con quanto accaduto il 3 gennaio con la bomba artigianale fatte esplodere davanti gli uffici giudiziari di Reggio. «La scoperta dell’auto nei pressi dell’aeroporto di Reggio Calabria durante la visita dal Capo dello Stato può benissimo essere un atto intimidatorio, una sorta di sfida lanciata dalla ’ndrangheta». «È strano - si fa notare - che dei criminali viaggino con un arsenale a bordo di un’auto durante la visita del presidente della repubblica, durante la quale, chiaramente, vengono rafforzate tutte le misure di sicurezza e controlli nelle strade». «D’alta parte, però sottolineano gli stessi inquirenti »il fatto rappresenta anche un segno di debolezza della criminalità organizzata calabrese messa a dura prova dalle continue operazioni e indagini che l’antimafia sta portando avanti nel paese«.
* La Stampa, 21/1/2010 (13:40)
MAFIA.
Napolitano, ’ndrangheta forse la piu’ insidiosa
Applicare Rognoni-La Torre su confische *
ROMA - Giovedì andrò a Reggio Calabria per mobilitare ancora una volta l’impegno dei giovani contro la criminalità organizzata e incontrerò i magistrati impegnati nelle indagini sulla ndrangheta, l’organizzazione criminale forse più insidiosa che c’é e contro la quale è indispensabile ottenere risultati come quelli conseguiti in Sicilia", ha detto il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano incontrando al Quirinale i dirigenti della Fondazione Paolo Borsellino.
"C’é l’esigenza di applicare pienamente quella grande conquista che fu la Legge Rognoni-La Torre per la confisca dei beni mafiosi, uno strumento essenziale di lotta che ha avuto successo", ha detto il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano incontrando al Quirinale i dirigenti della Fondazione Paolo Borsellino. Napolitano ha annunciato che giovedì prossimo sarà a Reggio Calabria per partecipare a una assemblea di studenti promossa dal ministro della Pubblica Istruzione Maria Stella Gelmini. "So che in Calabria- ha aggiunto - c’é un problema irrisolto di gestione dei beni confiscati alla mafia. Il rischio che i beni confiscati possano essere lasciati degradare colpisce molto. Significherebbe negare la battaglia che si è fatta. Bisogna trovare una soluzione".
* ANSA, 19 gennaio 2010, 16:33
Calabria, adesso è il momento del coraggio
di Giuseppe A. Veltri (l’Unità, 11.01.2010)
Gli eventi di Rosarno possono sconvolgere un lettore che non sia al corrente dell’attuale situazione della Calabria, ma non sorprendono chi conosce la realtà di una regione caduta in una profonda crisi sociale ed economica. Il parastato rappresentato dalla criminalità organizzata ha mostrato il modo in cui intende regolare il fenomeno immigrazione, con sfruttamento e intimidazione, senza l’ostacolo della vasta maggioranza dei cittadini calabresi.
Questi cittadini vivono una grossa contraddizione: se da un lato chiedono l’intervento dello stato contro il sottosviluppo economico e il crimine organizzato, dall’altro hanno chiuso gli occhi verso la politica locale che non si è quasi mai fatta carico dei problemi reali della Calabria. Una politica completamente prosciugata da ogni spinta ideale e ridotta a mera amministrazione e spartizione delle risorse pubbliche.
Casi come quello della senatrice Napoli sono sempre più rari, la politica nazionale e locale ha rinunciato a tentare di migliorare la società calabrese. Appare incredibile come le cosiddette forze progressiste non aiutino o interagiscano con i pochi movimenti anti criminalità organizzata, come «Libera» o «Ammazzateci Tutti», non intervengano sulla corruzione e infiltrazione mafiosa nella cosa pubblica.
I cittadini calabresi sono da anni stretti in una morsa feroce tra ’ndragheta e politica corrotta, eppure nessun fallimento clamoroso, vedi casi nella sanità calabrese o la gestione del territorio tra frane e discariche tossiche abusive, ha dato loro la forza di reagire. Un pericoloso miscuglio di paura e negazione dell’evidente non permette di capire che il disastro è dietro l’angolo, l’emigrazione è tornata ai livelli degli anni ’50 o che le responsabilità delle amministrazioni locali ormai quasi bilanciano quelle dello stato centrale. Quale amministrazione comunale, provinciale e regionale calabrese può seriamente dire di non essere a conoscenza dei problemi del territorio? Quante iniziative forti hanno mai intrapreso? Quale battaglia di civiltà hanno posto come fulcro della loro azione politica?
Tra poco, il 17 Gennaio, si terranno le primarie del Pd. I candidati non avranno una migliore occasione per dire quali saranno le loro iniziative concrete contro la criminalità organizzata. Il timore è quello che anche questo esercizio di democrazia sia svuotato da una politica senza coraggio che ha rinunciato a trasformare la realtà calabrese e si è resa complice del suo abbrutimento.
Ora tocca ai romeni
L’ordine delle ’ndrine: «Via chi non ci serve»
Le arance marciscono, i prezzi crollano, conviene lavorare di meno e
intascare gli aiuti europei. I neri protestavano ed il cerchio si è chiuso
di Gianluca Orsini (l’Unità, 11.01.2010)
Non ci servite più. E adesso ve ne potete andare. Questo il messaggio che le ’ndrine hanno voluto dare ai braccianti»: ossia i meno docili, ma trattati in maniera più disumana. E che alla fine si sarebbero ribellati. Sergio Genco coordina la Cgil calabrese e sui motivi della «seconda rivolta» dei migranti di Rosarno ha idee chiare. Il mercato di arance e clementine è asfittico, i prezzi sono crollati, molti piccoli produttori lasceranno marcire i frutti sui rami pur di non affrontare i costi della manodopera alla raccolta, e i rosarnesi e le cosche infiltrate nel mediazione tra produttore e consumatore non volevano più la massa di lavoratori irregolari, oltre 1200, deportati tra sabato e domenica dai «lager» Rognetta, Opera sila e Colline di Rizziconi.
«I clementini? Per me sui rami possono marcire! Ma almeno non mi devo vedere tutti questi neri tra i piedi!»; il signor Giovinazzo abita in contrada Bosco, dove i braccianti inferociti della ex Opera Sila giovedì sera hanno dato alle fiamme la vettura della 31enne Antonella Bruzzese, picchiandola e intimidendo i suoi due figli di 10 e 2 anni,e scatenando così la più violenta delle ritorsioni rosarnesi di questi giorni.
Allo «Spartimento» il quadrivio tra Statale 18 e la poderale per il mega Inceneritore della Piana, per giorni gli abitanti del posto hanno atteso al passo con le mazze i migranti uscissero in fuga per vendicarsi. Ma molti di loro prima impiegavano gli immigrati nei loro «giardini», come i calabresi chiamano i fondi agricoli. Ma da un paio d’anni a questa parte, non più.
Da quando la politica agricola dell’unione europea è cambiata con l’ingresso di Romania e Bulgaria, mutando il sistema dei rimborsi per gli agrumeti. «All’agricoltore calabrese, come in tutto il Meridione, paradossalmente entrano più soldi in tasca a lasciare i frutti marcire,che a farli raccogliere dagli intermediari che li destinano alle industrie della trasformazione insucchi e marmellate - spiega Antonino Calogero, un sindacalista di Gioja Tauro che studia la filiera produttiva degli agrumi da decenni - i prezzi sono crollati a 6 centesimi al chilo per le arance». Più remunerative le clementine, i mandarini della Piana: ben 10 centesimi per chilo raccolto «sulla pianta».
L’associazione di categoria Coldiretti precisa che il prezzo delle arance dall’albero alla nostra tavola subisce una moltiplicazione del 474 percento. Cifre folli, e con un prezzo indicato dai rappresentanti degli agricoltori che non rispecchiano nemmeno i reali prezzi contrattati al mattino dai contadini con i capibastone che acquistano per le ’ndrine locali, padrone del settore. Per Coldiretti il prezzo delle arance è 27 centesimi al chilo per il frutto da tavola. I «purtualli» (per un calabrese) destinati al succo di frutta non vengono pagati più di 6 centesimi al chilo. «I rimborsi Ue con il nuovo sistema comunitario, garantiscono una resa maggiore per ettaro» spiega Calogero. prima si pagava l’agricoltore per i quintali prodotti dai fondi, certificati dalla Regione; ora i soldi vengono rifondati a seconda degli ettari di terra posseduti, e dichiara di aver coltivato; se lamenta invenduto si consola con gli euro di Bruxelles. Se consideriamo che anche pagando in nero i braccianti 20 euro algiorno, per cassetta di arance raccolte il costo di raccolta non scende sotto gli 8centesimi. Raccogliere è un gioco al ribasso.
Ecco perché i migranti di Rosarno erano diventati un peso. «Ai pochi che ancora volessero raccogliere i frutti, o i grandi possidenti che su tonnellate di prodotto raccolto, hanno ancora un utile, bastano e avanzano i rumeni, ucraini bulgari e maghrebini residenti in città, quasi tutti in case in affitto» spiega Pino, un ex bracciante alla «Casa del popolo Valarioti», nel centro città. Era già così l’anno scorso; chi si fosse avventurato sulla statale 18 alle 6 del mattino con Gabriele Del Grande, il blogger di «Fortress Europe» e studioso della migrazione, avrebbe passato una mattinata insieme a ragazzi maliani, burkinabè e senegalesi che aspettavano invano agli angoli delle strade perché le porte dei furgoncini dei «capi neri» (come i migranti chiamavano i caporali del primo livello, gli sfruttatori extracomunitari, unici a poter trattare prezzi e disponibilità di giornata con i caporali calabresi) si aprissero per portarli a lavorare. Già nell’inverno 2009 i «neri» non erano più graditi dopo aver osato manifestare contro la ’ndrina per le strade rosarnesi nel dicembre 2008
Gli inquirenti: le cosche schierate con la gente.
Tra i fermati il figlio di un boss
"La caccia al nero una vendetta dei clan"
"Volevano spostare l’attenzione"
La pista del collegamento con la bomba a Reggio
di Attilio Bolzoni (la Repubblica, 11.01.10)
ROSARNO - La caccia al nero che abbiamo raccontato dagli aranceti calabresi non l’ha scatenata la rabbia dei contadini e dei possidenti di Rosarno. È stata una "ritorsione organizzata": c’è forse la firma della ‘ndrangheta nei raid per le campagne e nelle ronde che hanno braccato gli africani. Una rappresaglia mafiosa per dimostrare chi comanda in quel territorio, per schierarsi al fianco degli abitanti infuriati, per terrorizzare gli immigrati. La ‘ndrangheta dopo quarantotto ore di guerriglia ha vinto la sua battaglia: la Piana è stata liberata dai "negri" in rivolta che Rosarno voleva cacciare.
Un investigatore riassume i fatti e delle scorribande ne indica la matrice: «I boss hanno cavalcato la protesta per far vedere che stanno con la gente e non contro la gente. La caccia all’uomo è stata una vendetta a freddo, calcolata».
Per chi non conosce a fondo la Calabria: la caccia al nero è andata in scena in una striscia della Piana dove cinque comuni, uno attaccato all’altro - Rosarno, San Ferdinando, Gioia Tauro, Taurianova, Rizziconi - negli ultimi due anni sono stati chiusi per "infiltrazioni mafiose". Lì, proprio in questo regno della ‘ndrangheta, c’è stato il regolamento di conti contro i neri che avevano osato ribellarsi.
Erano solo sospetti. Erano solo ipotesi d’indagine. Oggi però gli indizi sembrano più consistenti, le tracce lasciate prendono la forma delle impronte digitali della mafia calabrese. Le indagini puntano verso i boss di Rosarno e di Gioia Tauro. Il procuratore capo di Palmi Giuseppe Creazzo ha aperto un’inchiesta - ha già ascoltato alcuni testimoni - e aspetta le prime informative e i primi rapporti dalla polizia giudiziaria. Se la pista mafiosa sarà confermata, l’inchiesta passerà nei prossimi giorni alla procura distrettuale di Reggio Calabria.
Ma già ci sono i primi elementi che potrebbero portare a una regia dei clan. Il primo elemento intorno al quale s’indaga è il tipo di armi usate per ferire gli immigrati: fucili caricati a pallini. Un’arma che può fare molto male ma non uccidere, un’arma che è stata scelta "soltanto" per ferire. Tutti i neri ricoverati negli ospedali della Piana avevano addosso i segni di quei pallini: sempre lo stesso tipo di fucile leggero in una zona dove ogni settimana sequestrano quintali di armi pesanti.
Il secondo elemento è nella dinamica degli agguati: la facilità con la quale, una dopo l’altra le vittime - nascoste in casolari, in fuga per i campi - sono state individuate. «Questo presuppone una conoscenza e un controllo del territorio che solo gli uomini di mafia possono avere», spiegano ancora gli investigatori. Il terzo elemento è il più evidente di tutti: la presenza, sulle barricate e nei posti di blocco presidiati dagli abitanti di Rosarno, di molti personaggi legati alla ‘ndrangheta. Gente dei Bellocco e dei Pesce, le due cosche dominanti in paese. Fra gli arrestati della rivolta c’è anche Antonio Bellocco, il figlio di Michele, il capo della famiglia.
In Calabria non è la prima volta che la ‘ndrangheta appoggia proteste di strada, manifestazioni di popolo. È accaduto già una decina di anni fa quando un ragazzo - Giosé Carpenteri - è stato travolto e ucciso a Locri dall’auto blindata che faceva da scorta al sostituto procuratore della repubblica Nicola Gratteri. Gli abitanti di Locri occuparono la linea ferrata sullo Jonio, incendiarono cassonetti sulla statale 106, scesero in piazza a migliaia, formarono "comitati popolari cittadini" e riempirono i muri del loro paese di scritte contro "gli sbirri". Dopo alcuni mesi si scoprì che a fomentare la sommossa erano stati i Cordì, mafiosi di Locri.
Ma se la pista mafiosa è quella che sembra al momento una delle più attendibili per spiegare le spedizioni punitive fra le arance della Piana, resta ancora un mistero il movente della guerra fra bianchi e neri cominciata a Rosarno giovedì sera. Si rincorrono voci. Una - assolutamente priva di riscontri e ripetuta da più parti - collega gli avvenimenti di Rosarno con la bomba ritrovata alla procura generale di Reggio Calabria l’altra settimana. «Per spostare l’attenzione di stampa e tivù dai giudici e dalle loro indagini», dicono in molti. Voci confuse, incontrollate. Nessuno, qui in Calabria, ancora oggi sa dire perché la Piana è diventata per due giorni e due notti un campo di battaglia.
Inchiesta sul ruolo della ’ndrangheta
di Roberto Galullo (Il Sole 24 Ore, 10 gennaio 2010)
Feriti (50) e schioppettate per, le campagne di Rosarno. Accerchiamenti e sprangate, disperati in fuga. E la questura che vuole smantellare le tante baraccopoli in giro per la città. Il terzo giorno di scontri nella città della Piana reggina di Gioia, dopo la violenze scatenate dai lavoratori stagionali attaccati in precedenza, è filato via tra bus organizzati dal Viminale che hanno allontanato verso centri di accoglienza altri extracomunitari (in tutto un migliaio) dai luoghi in cui erano tornati a rifugiarsi e, soprattutto, l’abile regia delle cosche che ha mantenuto volontariamente alta la tensione in tutta l’area. Cinque i fermi convalidati. Spunta (sul web) pure l’ipotesi di uno sciopero per marzo.
In prima fila, a scandire i ritmi della protesta, a partire da quella all’ex oleificio occupato dagli extracomunitari e protetto da un cordone di polizia, la famiglia Bellocco. Antonio, rampollo emergente della famiglia mafiosa, il giorno prima è stato arrestato durante gli scontri insieme ad altri due pregiudicati, uno dei quali era stato condannato in primo grado per l’omicidio della fidanzata. Ieri le consegne delle famiglie mafiose sono passate all’esercito di disperati sui quali può contare la ’ndrangheta e che hanno seguito le disposizioni: reagire con violenza allo smacco subito dai "negri". Riportare nelle mani delle cosche il bastone del comando. Mischiate tra il centinaio di persone radunate davanti all’oleificio da Domenico Ventre, ex assessore alla Protezione civile della Giunta sciolta per mafia, c’erano parecchi volti, in gran parte giovani, conosciuti dalle forze dell’ordine. Mentre loro, inveendo contro Stato, regione, immigrati e santificando la pulizia della precedente Giunta, attendevano al varco i bus, a Roma lo Stato prendeva decisioni.
Alla task force governativa per gli interventi finalizzati all’organizzazione di centri di aggregazione sociale, per la bonifica di zone disagiate e per l’investimento in opportunità di sviluppo, l’esecutivo ha messo a disposizione 1,9 milioni attinti dalle risorse sequestrate alla ’ndrangheta e immediatamente utilizzabili. Lo ha annunciato Tonino Malerba, delegato regionale della Croce rossa, che si trova nell’unità di crisi allestita dalla Prefettura. Risorse che serviranno anche per ricondurre a condizioni umane la vita dei lavoratori che resteranno sul territorio. Ed è quanto ha affermato anche il Segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone. «La giustizia - ha affermato - deve guardare innanzitutto ai poveri e agli oppressi ed essere amministrata con umiltà, nella consapevolezza che giustizia e pace non sono raggiungibili senza Dio e senza grazia».
Dio e grazia cui le cosche hanno sempre contrapposto una cultura di morte e omertà. Ne è convinto Giuseppe Creazzo, capo della Procura della Repubblica di Palmi. «Quando il fenomeno assume certe dimensioni - dichiara al Sole-24 Ore - c’è sempre di mezzo la ’ndrangheta. Qui c’è una società che produce nel proprio seno la cultura ’ndranghetista. Le persone che abbiamo arrestato ieri, una delle quali si è spinto a tutta velocità con una ruspa contro le persone che aveva trovato di fronte, sono tutte riconducibili direttamente o indirettamente alla cosca Bellocco».
Stefano Musolino, sostituto procuratore della Repubblica, ricorda un episodio dello scorso anno quando fu invece arrestato un componente di infimo livello vicino all’altra cosca, Pesce. «Questa persona - afferma - imponeva il taglieggiamento a molti extracomunitari. Parliamo di mance, due o tre euro al giorno». Uno dei tanti cani sciolti che le cosche lasciano vagabondare per riaffermare che la giustizia, da queste parti, è (spesso) solo quella della ’ndrangheta.