LUNGA VITA ALL’ITALIA: "RESTITUITEMI IL MIO URLO"!!!
Messaggio originale----- Da: La Sala
Inviato: domenica 27 gennaio 2002 0.09
A: posta@magistraturaassociata.it
Oggetto: Per la nostra sana e robusta Costituzione...
Stimatissimi cittadini-magistrati
"Nella democrazia - come già scriveva Gaetano Filangieri nella sua opera La Scienza della Legislazione (1781-88) - comanda il popolo, e ciaschedun cittadino rappresenta una parte della sovranità: nella concione [assemblea di tutto il popolo], egli vede una parte della corona, poggiata ugualmente sul suo capo che sopra quello del cittadino più distinto. L’oscurità del suo nome, la povertà delle sue fortune non possono distruggere in lui la coscienza della sua dignità. Se lo squallore delle domestiche mura gli annuncia la sua debolezza, egli non ha che a fare un passo fuori della soglia della sua casa, per trovare la sua reggia, per vedere il suo trono, per ricordarsi della sua sovranità"(Libro III, cap. XXXVI).
Tempo fa una ragazza, a cui da poco era morta la madre e altrettanto da poco cominciava ad affermarsi il partito denominato "Forza Italia", discutendo con le sue amiche e i suoi amici, disse: "Prima potevo gridare "forza Italia" e ne ero felice. Ora non più, e non solo perché è morta mia madre e sono spesso triste. Non posso gridarlo più, perché quando sto per farlo la gola mi si stringe - la mia coscienza subito la blocca e ricaccia indietro tutto. Sono stata derubata: il mio grido per tutti gli italiani e per tutte le italiane è diventato il grido per un solo uomo e per un solo partito. No, non è possibile, non può essere. E’ una tragedia!". Un signore poco distante, che aveva ascoltato le parole della ragazza, si fece più vicino al gruppo e disse alla ragazza: "Eh, sì, purtroppo siamo alla fine, hanno rubato l’anima, il nome della Nazionale e della Patria. E noi, cittadini e cittadine, abbiamo lasciato fare: non solo un vilipendio, ma un furto - il furto dell’anima di tutti e di tutte. Nessuno ha parlato, nessuno. Nemmeno la Magistratura!".
Oggi, più che mai, contro coloro che "vogliono costruire una democrazia populista per sostituire il consenso del popolo sovrano a un semplice applauso al sovrano del popolo"(don Giuseppe Dossetti, 1995), non è affatto male ricordarci e ricordare che i nostri padri e le nostre madri hanno privato la monarchia, il fascismo e la guerra del loro consenso e della loro forza, si sono ripresi la loro sovranità, e ci hanno dato non solo la vita e una sana e robusta Costituzione, ma anche la coscienza di essere tutti e tutte - non più figli e figlie della preistorica alleanza della lupa (o della vecchia alleanza del solo ’Abramo’ o della sola ’Maria’) - figli e figlie della nuova alleanza di uomini liberi (’Giuseppe’) e donne libere (’Maria’), re e regine, cittadine-sovrane e cittadini-sovrani di una repubblica democratica.
Bene avete fatto, con la Vs. Lettera aperta ai cittadini, a rendere pubbliche le vostre preoccupazioni e a dire e a ridire che la giustizia non è materia esclusiva dei magistrati e degli addetti ai lavori, ma un bene di tutti e di tutte, e che tutti i cittadini e tutte le cittadine sono uguali davanti alla legge.
E altrettanto bene, e meglio (se permettete), ha fatto il Procuratore Generale di Milano Borrelli, già all’inizio (e non solo alla fine) del suo discorso di inaugurazione dell’anno giudiziario, quando ha detto: "porgo il mio saluto, infine, ai cittadini, anzi, alle loro maestà i cittadini, come soleva dire il compianto Prefetto Carmelo Caruso, avvicinati oggi da un lodevole interesse a questa cerimonia, del resto non esoterica nonostante il paludamento, ma a loro destinata"; e, poco oltre, riferendosi specificamente alle "difficoltà che la giustizia minorile incontra", ha denunciato che "il denominatore comune - generatore del disagio donde nascono devianze, sofferenze, conflitti - è rappresentato dalle carenze di un’autentica cultura dell’infanzia, a volte necessitata dalle circostanze, a volte frutto di disattenzione, spesso causata dall’incapacità negli adulti di trasmettere valori che si discostino dall’ideologia di un’identità cercata, secondo la nota espressione di Erich Fromm, nell’avere piuttosto che nell’essere".
Da cittadino-magistrato non ha fatto altro che dire e fare la stessa cosa che don Lorenzo Milani, il cittadino-prete mandato in esilio a Barbiana, in tempi di sonnambulismo già diffuso (1965): suonare la campana a martello, svegliare - praticare la tecnica dell’amore costruttivo per la legge e, ricondandoci di chi siamo e della parte di corona che ancora abbiamo in testa, avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani....
Cordiali saluti
Federico La Sala
MA COME RAGIONANO GLI ITALIANI E LE ITALIANE?!
L’Italia e’ diventata la ’casa’ della menzogna... e della vergogna?!
di Federico La Sala *
Elementare!, Watson: Se, nel tempo della massima diffusione mediatica della propaganda loggika, l’ITALIA è ancora definita una repubblica democratica e "Forza Italia" (NB: ’coincidenza’ e sovrapposizione indebita con il Nome di tutti i cittadini e di tutte le cittadine d’ITALIA) è il nome di un partito della repubblica, e il presidente del partito "Forza Italia" è nello stesso tempo il presidente del consiglio dello Stato chiamato ITALIA (conflitto d’interesse), per FORZA (abuso di potere, logico e politico!) il presidente del partito, il presidente del consiglio, e il presidente dello Stato devono diventare la stessa persona. E’ elementare: queste non sono ’le regole del gioco’ di una sana e viva democrazia, ma di un vero e proprio colpo di Stato! (Shemi EK O’KHOLMES).
IL DIALOGO, Sabato, 31 gennaio 2004
LA PAROLA RUBATA
Una lettera aperta all’ ITALIA (e un omaggio agli intellettuali: Gregory Bateson, Paul Watzlawick, Jacques Lacan, Elvio Fachinelli).
di Federico La Sala *
L’ITALIA GIA’ DA TEMPO IN-TRAPPOLA-TA.................e noi - alla deriva - continuiamo a ’dormire’ , alla grande! "IO STO MENTENDO": UNA LETTERA APERTA SULL’USO E ABUSO ISTITUZIONALE DELL’ "ANTINOMIA DEL MENTITORE".
Cara ITALIA
MI AUGURO CHE LE GIUNGA DA LONTANO IL MIO URLO: ITALIA, ITALIA, ITALIA, ITALIA, ITALIA, ITALIA, ITALIA! IL NOME ITALIA E’ STATO IN-GABBIA-TO NEL NOME DI UN SOLO PARTITO....E I CITTADINI E LE CITTADINE D’ITALIA ANCHE!!!
NON E’ LECITO CHE UN PARTITO FACCIA PROPRIO IL NOME DELLA CASA DI TUTTI I CITTADINI E DI TUTTE LE CITTADINE! FERMI IL GIOCO! APRA LA DISCUSSIONE SU QUESTO NODO ALLA GOLA DELLA NOSTRA VITA POLITICA E CULTURALE! NE VA DELLA NOSTRA STESSA IDENTITA’ E DIGNITA’ DI UOMINI E DONNE D’ITALIA!
Cosa sta succedendo in Italia? Cosa è successo all’Italia? Niente, non è successo niente?! Semplicemente, il nome Italia è stato ingabbiato dentro il nome di un solo PARTITO e noi, cittadini e cittadine d’ITALIA, siamo diventati tutti e tutte cret... ini e cret..ine. Epimenide il cretese dice: "Tutti i cretesi mentono". E, tutti i cretini e tutte le cretine di ’Creta’, sono caduti e cadute nella trappola del Mentitore.... e, imbambolati e imbambolate come sono, si divertono persino. Di chi la responsabilità maggiore?! Di noi stessi - tutti e tutte!
Le macchine da guerra mediatica funzionano a pieno regime. Altro che follia!: è logica di devastazione e presa del potere. La regola di funzionamento è l’antinomia politico-istituzionale del mentitore ("io mento"). Per posizione oggettiva e formale, non tanto e solo per coscienza personale, chi sta agendo attualmente da Presidente del Consiglio della nostra Repubblica non può non agire che così: dire e contraddire nello stesso tempo, confondere tutte le ’carte’ e ’giocare’ a tutti i livelli contemporaneamente da presidente della repubblica di (Forza) Italia e da presidente del consiglio di (Forza) Italia, sì da confondere tutto e tutti e tutte... e assicurare a se stesso consenso e potere incontrastato.
Se è vero - come ha detto qualcuno - che "considerare la politica come un’impresa pubblicitaria [trad.: un’impresa privata che mira a conquistare e occupare tutta l’opinione pubblica, fls] è un problema che riguarda tutto l’Occidente"(U. Eco), noi, in quanto cittadini e cittadine d’Italia, abbiamo il problema del problema, all’ennesima potenza e all’o.d.g.! E, per questo e su questo, sarebbe bene, utile e urgentissimo, che chi ha gli strumenti politici e giuridici (oltre che intellettuali, per togliere l’uso e l’abuso politico-istituzionale dell’antinomia del mentitore) decidesse quanto prima ... e non quando non c’è (o non ci sarà) più nulla da fare. Se abbiamo sbagliato - tutti e tutte, corriamo ai ripari. Prima che sia troppo tardi!!!
ITALIA! La questione del NOME racchiude tutti i problemi: appropriazione indebita, conflitto di interessi, abuso e presa di potere... in crescendo! Sonnambuli, ir-responsabili e conniventi, tutti e tutte (sia come persone sia come Istituzioni), ci siamo fatti rubare la parola-chiave della nostra identità e della nostra casa, e il ladro e il mentitore ora le sta contemporaneamente e allegramente negando e devastando e così, giocati tutti e tutte, ci sta portando dove voleva e vuole ... non solo alla guerra ma anche alla morte culturale, civile, economico-sociale e istituzionale! Il presidente di Forza Italia non è ...Ulisse e noi non siamo ... Troiani.
Non si può e non possiamo tollerare che il nome ITALIA sia di un solo partito... è la fine e la morte della stessa ITALIA!
La situazione politica ormai non è più riconducibile all’interno del ’gioco’ democratico e a un vivace e normale confronto fra i due poli, quello della maggioranza e quello della minoranza. Da tempo, purtroppo, siamo già fuori dall’orizzonte democratico! Il gioco è truccato! Cerchiamo di fermare il ’gioco’ e di ristabilire le regole della nostra Costituzione, della nostra Legge e della nostra Giustizia. Ristabiliamo e rifondiamo le regole della democrazia.
E siccome la cosa non riguarda solo l’Italia, ma tutto l’Occidente (e non solo), cerchiamo di non andare al macello e distruggerci a vicenda, ma di andare avanti .... e di venir fuori da questa devastante e catastrofica crisi. Io, da semplice cittadino di una ’vecchia’ Italia, penso che la logica della democrazia sia incompatibile con quella dei figli di "dio" e "mammasantissima" che si credono nello stesso tempo "dio, papa, e re" (non si sottovaluti la cosa: la questione è epocale e radicale, antropologica, teologica e politica - e riguarda anche le religioni e la stessa Chiesa cattolica) si danno da fare per occupare e devastare le Istituzioni! Non si può tornare indietro e dobbiamo andare avanti.... laici, cattolici, destra, sinistra, cittadini e cittadine - tutti e tutte, uomini e donne di buona volontà.
Allora facciamo che il gioco venga fermato e ... e che si apra il più ampio e diffuso dibattito politico e culturale - si ridia fiducia e coraggio all’ITALIA, e a tutti gli Italiani e a tutte le Italiane. E restituiamo il nome e la dignità all’ITALIA: a noi stessi e a noi stesse - in Italia e nel mondo...... cittadini e cittadine della Repubblica democratica d’Italia. Un semplice cittadino della nostra bella ITALIA!
Federico La Sala
* IL DIALOGO, Mercoledì, 05 aprile 2006
Caro PRESIDENTE CIAMPI
Ripartire dall’ITALIA!!!
di Federico La Sala *
Alla luce della campagna elettorale, che si è svolta come si è svolta, e alla luce della legge elettorale che ha ‘permesso’ i risultati che ha ‘permesso’, è da dire - in modo chiaro e tondo - che sulla vittoria del centro sinistra non ci sono affatto dubbi, ha vinto l’ITALIA, e che alla coalizione di centro sinistra ora tocca l’onere e la responsabilità della direzione del Paese. Se si vuole, e si vuole (come credo), iniziare bene, la prima decisione da prendere, e da prendere con la più grande unità politica di tutti e due i poli (centro destra e centro sinistra) - pena il permanere nell’ambiguità e nella corresponsabilità del trattenere il Paese nel clima di degrado e di scontro - sia è quella di rimuovere assolutamente la ‘confusione’ relativa al Nome della Casa politica di tutti gli Italiani e di tutte le Italiane, ITALIA. Un fatto è che esistano due cosiddette “Italia” (maggioranza e minoranza) nella stessa comune Italia, un altro fatto è che esista un partito, che si sovra-espone, si sovrappone, e si contrappone a tutta l’Italia: "Forza ITALIA"!!!
Nell’epoca della comunicazione, della pubblicità, dell’importanza dei simboli, dei “logo”, dei “marchi”, e della manipolazione psicologica, è assolutamente vergognoso, pericoloso, e delittuoso - da parte di tutti gli italiani e di tutte le italiane, della destra come della sinistra, e di tutte le Istituzioni della Repubblica!!! - lasciare la situazione come sta e far finta di nulla, e che tutto sia normale!!!
Vogliamo o non vogliamo essere cittadini e cittadine d’Italia?! O vogliamo essere, tutti e tutte, di destra e di sinistra, veramente ... operai ed operaie nella vigna del ‘Signore’?!
Nel nome dell’ITALIA, e per l’ITALIA: VIVA, VIVA L’ITALIA - W O ITALY!!! (11.04.2006 d. C.)
Federico La Sala
*IL DIALOGO, Martedì, 11 aprile 2006
IL "FORMAGGIO DEL BEL PAESE", LA STORIA D’ ITALIA, E UN "MARCHIO" (LOGO) BREVETTATO: #LINGUA, #METALINGUA, E #COSTITUZIONE (#LOGOS).
IL PROBLEMA DELLA #IDENTITA’ DI UN’#AZIENDA (DI UN #PARTITO) DI UNA #NAZIONE E LA SUA #STRATEGIA ECONOMICO-POLITICA DI #COMUNICAZIONE: IL CASO #GALBANI, NEL PRIMO #NOVECENTO.
GALBANI: "[...] La storia di Bel Paese inizia nel 1906 grazie ad una felice intuizione di Egidio Galbani, fondatore dell’azienda, che volle creare un prodotto capace di contrastare i formaggi d’Oltralpe. La sua #filosofia è ben riassunta da questa frase, riportata sul "Catalogo Illustrato delle Varie Specialità" del 1906: "Non era senza un vero dispiacere che per l’addietro, sostando davanti al negozio dei principali salumieri delle nostre città, non si potesse scorgere alcun formaggio di lusso che portasse un nome italiano. Fui il primo che, dopo lunga esperienza, riuscii a soppiantare l’importazione estera, mettendo in commercio i miei formaggi di lusso, uso Francesi".
Nasce così il "Formaggio del Bel Paese", nome ispirato al libro dell’abate Antonio #Stoppani "Il #BelPaese", pubblicato nel 1873 e dedicato a una minuziosa descrizione della nostra penisola sotto il profilo geofisico.
Il libro all’inizio del #Novecento conservava intatta la sua fama, da qui l’idea di accoppiare il nuovo prodotto ad un’immagine ormai consolidata nell’#immaginario collettivo e carica di valori simbolici.
Il "Formaggio del Bel Paese" non fu ispirato da alcun prodotto particolare, com’era stato per altri formaggi Galbani, ma nacque da una ricerca originale: materie prime di alta qualità, facile conservabilità, digeribilità, gusto semplice.
E a fianco di questa intuizione produttiva, c’è il vero colpo di genio, antesignano del moderno #marketing: la realizzazione di un #packaging originale in un mondo di formaggi venduti sfusi, al taglio, e una politica commerciale innovativa, ben sostenuta anche a livello pubblicitario.
Il nuovo formaggio intendeva rivolgersi ad un pubblico elitario, ma non localizzato: grazie ai propri camioncini ma soprattutto al progresso della rete ferroviaria, Egidio Galbani voleva conquistare i consumatori più evoluti delle grandi città, in tutta Italia e all’estero, facendo anche leva sui sentimenti nazionalistici degli italiani oltre confine.
Il successo fu immediato (negli anni Trenta uscivano dagli stabilimenti Galbani ben 7500 quintali di Bel Paese) e testimoniato da una serie di riconoscimenti a concorsi internazionali, tra cui uno a Parigi di cui Egidio Galbani era molto fiero: Bel Paese era nominato "Roi des fromages".
Il "grande avversario", il formaggio francese, era stato raggiunto. [...]" (cfr. Galbani, "Storia Bel paese" )
Nota:
Mattarella: "Costituzione, inno e bandiera i riferimenti che ci guidano"
Il Presidente nel messaggio per l’Unità d’Italia: "La Carta garantisce risorse per sfide complesse"
di Redazione ANSA (17 marzo 2023->https://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2023/03/17/mattarella-costituzione-inno-e-bandiera-i-riferimenti-che-ci-guidano_c7b81537-523c-4aee-9fa1-81087ae76988.html])
ROMA. "Viviamo oggi, con il conflitto scatenato dalla Federazione Russa in territorio ucraino, un’aperta minaccia che ci impone una ferma risposta unitaria in seno alla comune identità europea e atlantica, affinché venga posta fine ai combattimenti e si raggiunga un duraturo accordo di pace".
Lo afferma il presidente della Repubblica Sergio Mattarella in un messaggio in occasione dell’anniversario dell’Unità Nazionale, della Costituzione, dell’Inno e della Bandiera.
Con lui - tra gli altri - il presidente del Senato, Ignazio La Russa, la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, il vicepresidente della Camera Fabio Rampelli e la presidente della Corte Costituzionale, Silvana Sciarra. Il capo dello Stato ha deposto una corona d’alloro sulla tomba del Milite Ignoto.
"La Repubblica, in innumerevoli prove e, da ultimo, durante la pandemia, ha confermato sentimenti di unità e coesione stringendosi ai valori costituzionali. Gli stessi che, ispirando la nostra società, garantiscono le risorse morali necessarie a fronteggiare le sfide complesse che la contemporaneità ci mette innanzi", afferma Mattarella nel messaggio.
"La Repubblica, in innumerevoli prove e, da ultimo, durante la pandemia, ha confermato sentimenti di unità e coesione stringendosi ai valori costituzionali. La Costituzione, l’Inno degli italiani e la Bandiera sono i riferimenti che ci guidano nell’impegno comune di consolidare un’Italia fondata su pace, libertà e diritti umani" prosegue il capo dello Stato.
"Celebriamo oggi - prosegue il Capo dello Stato - l’anniversario dell’Unità d’Italia, che è "Giornata dell’Unità Nazionale, della Costituzione, dell’Inno e della Bandiera". 162 anni fa, sotto il Tricolore, con i plebisciti popolari si espressero la sovranità e la volontà che, attraverso l’opera risorgimentale, avevano portato alla costituzione dello Stato italiano. Il primo pensiero va alle generazioni che hanno accompagnato questo traguardo, a quanti, con il loro operato, hanno contribuito alla nascita e alla crescita del nostro Paese, promuovendo quei valori di civile convivenza, quegli ideali di libertà e democrazia, di pace e di partecipazione allo Stato di diritto e alla comunità internazionale, che hanno trovato consacrazione nella nostra Costituzione. Viviamo oggi, con il conflitto scatenato dalla Federazione Russa in territorio ucraino, un’aperta minaccia a questi valori che ci impone una ferma risposta unitaria in seno alla comune identità europea e atlantica, affinché venga posta fine ai combattimenti e si raggiunga un duraturo accordo di pace". "La Repubblica - conclude Mattarella - in innumerevoli prove e, da ultimo, durante la pandemia, ha confermato sentimenti di unità e coesione stringendosi ai valori costituzionali. Gli stessi che, ispirando la nostra società, garantiscono le risorse morali necessarie a fronteggiare le sfide complesse che la contemporaneità ci mette innanzi. La Costituzione, l’Inno degli italiani e la Bandiera sono i riferimenti che ci guidano nell’impegno comune di consolidare un’Italia fondata su pace, libertà e diritti umani".
"Oggi l’Italia celebra la Giornata dell’Unità nazionale, della Costituzione, dell’Inno e della Bandiera, le fondamenta robuste sulle quali la nostra comunità si erge e dalle quali essa prende ispirazione". Lo afferma in una nota la presidente del Consiglio Giorgia Meloni. "Il 17 marzo di 162 anni fa iniziava il cammino dell’Italia come Stato unitario e si realizzava l’auspicio di un giovane genovese, visionario e ribelle, come Goffredo Mameli: poter vedere gli italiani non più "calpesti e derisi" e "divisi", bensì raccolti in "un’unica bandiera". Il 17 marzo è la solennità nazionale più unificante che abbiamo e nel corso della quale quale siamo chiamati a ricordare le ragioni del nostro stare insieme. Perché, come ha spiegato Ernest Renan, la Nazione è una "grande solidarietà, un plebiscito che si rinnova ogni giorno e che si fonda sulla dimensione dei sacrifici compiuti e di quelli che ancora siamo disposti a compiere". Questa è la sfida che abbiamo davanti, è l’impegno che dobbiamo onorare ogni giorno: riannodare i fili di ciò che ci unisce e riscoprirci una comunità. Solo così possiamo liberare le migliori energie della Nazione e dimostrare che nessuna meta è preclusa all’Italia. Buon 17 marzo a tutti gli italiani!"
AGENZIA ANSA
FdI: speriamo di festeggiare l’unità d’Italia già il 17 marzo 2024 - Politica
Con la proposta di legge che chiede di istituire il 17 marzo come festa nazionale dell’unità d’Italia, Fratelli d’Italia spera che il 17 marzo del 2024 si possa già festeggiare. (ANSA)
L’ ITALIA, LE “ROBINSON-NATE”, E LA “POESIA” DEL PRESENTE ... *
“OGGETTO: Per la nostra sana e robusta Costituzione.... ” (Mail, 2002): “[...] Tempo fa una ragazza, a cui da poco era morta la madre e altrettanto da poco cominciava ad affermarsi il partito denominato “Forza Italia”, discutendo con le sue amiche e i suoi amici, disse: “Prima potevo gridare “forza Italia” e ne ero felice. Ora non più, e non solo perché è morta mia madre e sono spesso triste. Non posso gridarlo più, perché quando sto per farlo la gola mi si stringe - la mia coscienza subito la blocca e ricaccia indietro tutto. Sono stata derubata: il mio grido per tutti gli italiani e per tutte le italiane è diventato il grido per un solo uomo e per un solo partito. No, non è possibile, non può essere. E’ una tragedia!”. Un signore poco distante, che aveva ascoltato le parole della ragazza, si fece più vicino al gruppo e disse alla ragazza: “Eh, sì, purtroppo siamo alla fine, hanno rubato l’anima, il nome della Nazionale e della Patria. E noi, cittadini e cittadine, abbiamo lasciato fare: non solo un vilipendio, ma un furto - il furto dell’anima di tutti e di tutte. Nessuno ha parlato, nessuno. Nemmeno la Magistratura!” (Si cfr. RESTITUITEMI IL MIO URLO! ... DALLA CINA UNA GRANDE LEZIONE!).
ITALIA, 2 GIUGNO 2019. A pag. 2 dell’inserto “ROBINSON” (n. 130) di “la Repubblica” del 1° Giugno 2019, in un testo con il titolo “Mia madre, il Re e la cosa di tutti “, e il sottotitolo “Il 2 giugno 1946 l’Italia scelse di non essere più una monarchia. Lessico familiare del Paese che puntò su se stesso”. L’autore - dopo aver premesso che “una persona sola che incarna lo Stato e incarna il popolo intero non può che essere, essere, simbolicamente, una persona «sacra»“, e chiarito che “è per definizione, per ruolo un signore al di sopra delle parti, non rappresenta una frazione, rappresenta l’intero. L’unità. La comunità. (...) la sua carica è elettiva. Non è un raggio divino, e nemmeno il raggio della Storia attraverso l’espediente dinastico, a fargli incarnare «la cosa di tutti»” (...) La repubblica è anti-assolutista anche in questo suo sapiente scegliere gli uomini che la incarnano a seconda dei sommovimenti della politica e della società (...) così si avvia alla conclusione: “Dunque si è repubblicani - o almeno lo sono io - se si ama e si accetta ciò che non è assoluto, NON SIMULA L’ETERNO, ACCETTA IL LIMITE, lo traduce in politica”.
E, INFINE, l’autore così CHIUDE: “Mi rimane da dire che quando Eugenio Scalfari fondò un giornale che si chiamava «la Repubblica» andavo all’università e subito pensai: che bel nome! Che nome giusto per un giornale! Ma come è possibile che a nessuno prima di lui, sia venuto in mente di chiamare così un pezzo di carta che si occupa soprattutto della «res publica», della cosa di tutti, e lo fa tutti i giorni? E’ al tempo stesso un nome umile e alto. Peggio per chi non se ne è accorto prima” (Michele Serra).
POESIA, COSTITUZIONE, E FUTURO RADICALE...: “Come certi capi indiani che si trovarono di fronte al fatto che, una volta entrati nelle riserve, non risultasse più comprensibile cosa fosse un atto coraggioso, quale attività potesse esemplificarlo, visto che le pratiche che sino ad allora avevano dato senso a tali attività erano venute meno - i bisonti scomparsi, le guerre con altre tribù proibite” (Italo Testa - sopra).
ITALIA: “ESAME DI MATURITA’ 2019”. - PER UN CONVEGNO E UNA RIFLESSIONE SUL CONCETTO DI UNITÀ E DI SOVRANITÀ (SOVRA-UNITÀ). Materiali sul tema .
Federico La Sala (20 giugno 2019)
CRONACA
Csm a pezzi *
"Una ferita profonda e dolorosa", un "passaggio delicato" che richiede una reazione forte e immediata: o si riscatta "con i fatti il discredito che si è abbattuto su di noi o saremo perduti". E’ affidato alle parole del vicepresidente David Ermini il senso di una crisi istituzionale senza precedenti che ha scosso il Consiglio superiore della magistratura per effetto dell’Inchiesta di Perugia, nella quale sono indagati Luca Palamara, e Stefano Rocco Fava, pm a Roma, e il togato dimissionario del Csm Luigi Spina. Ma la sua non era l’unica sedia vuota ieri pomeriggio nell’aula Bachelet dove si è riunito un plenum straordinario convocato a seguito della bufera che ha travolto il Consiglio e l’interra magistratura italiana: quattro togati si sono autosospesi.
Lunedì sera Corrado Cartoni e Antonio Lepre, di Magistratura Indipendente, non indagati ma che avevano preso parte a incontri con gli esponenti del Pd Luca Lotti e Cosimo Ferri per discutere della nomina del procuratore di Roma, e ieri, annunciandolo poco prima del plenum, Gianluigi Morlini, di Unicost, e Paolo Criscuoli di Mi. Ma dall’assemblea di Palazzo dei Marescialli, insieme alla presa d’atto della gravità della situazione, arriva anche una forte assunzione di responsabilità e un richiamo alla compattezza: con un documento approvato all’unanimità tutti i consiglieri, laici e togati, si dicono "sgomenti e amareggiati", denunciano comportamenti da cui "prendere con nettezza le distanze" e richiamano la necessità di "un radicale percorso di autoriforma. E da più parti arriva il riconoscimento al vicepresidente Ermini di una gestione saggia, ferma e responsabile della situazione e al valore imprescindibile della guida del capo dello Stato, Sergio Mattarella, che del Csm è il presidente.
Di "un giorno cupo come pochi altri" per il Csm parla il togato di Autonomia &indipendenza Piercamilo Davigo, che esprime apprezzamento per la posizione unitaria su cui tutti i consiglieri si sono ritrovati facendo prevalere allo "spirito di appartenenza o di fazione" la "tutela dell’Istituzione". Michele Ciambellini, di Unicost, invita il Consiglio a dare "una risposta seria energica senza ambiguità e a percorrere insieme una strada che riaffermi il prestigio dell’Istituzione". Da Giuseppe Cascini, di Area, il paragone forte del momento "grave e drammatico" con i tempi dello scandalo della P2. Invita a una "generale presa di coscienza" il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Mammone, che esprime l’auspicio che "la consapevolezza costituisca un valido deterrente a che ulteriori comportamenti individuali vengano adottati in violazione delle regole fondamentali della deontologia".
Il laico M5S Fulvio Gigliotti si dice certo che il Csm "continuerà a mantenere quell’alto livello di garanzia e credibilità istituzionale" attraverso "il più attento rigore e la massima fermezza" nelle funzioni che tutti i componenti sono chiamati a esercitare. Al centro delle riflessioni di Ermini, inevitabilmente, anche il tema delle nomine ai vertici degli uffici che devono essere "trasparenti", compiute "fuori da logiche spartitorie", e preservate dalle "degenerazioni correntizie" e dai "giochi di potere" che sono emersi dall’inchiesta dei pm perugini. E ogni determinazione del Consiglio deve essere assunta "al riparo da interessi esterni" e "al solo fine di assicurare l’efficienza e la conformità alla costituzione dell’attività giurisdizionale" il tutto sotto la "guida illuminata" del Capo dello Stato. Il plenum ha anche preso atto delle dimissioni di Spina e ha deliberato il suo rientro in ruolo alla procura di Castrovillari, suo ufficio di provenienza.
LA LEZIONE DI DANTE, OGGI. Nonostante le lezioni di Benigni, non abbiamo ancora capito le ragioni dantesche di Ulisse all’inferno. E la cultura italiana continua a navigare in uno "stato" sonnambolico.... *
M5S, Lega e l’assalto alle istituzioni
I nuovi Proci e l’Italia
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 30.05.2018)
Anagraficamente Salvini e Di Maio appartengono alla generazione che avevo battezzato Telemaco: figli che hanno avuto il coraggio di farsi avanti, di impugnare le sorti del loro destino, di impegnarsi in prima persona per cambiare l’avvenire del loro Paese. Ma politicamente essi - anche alla luce di questo ultimo tristissimo quanto drammatico episodio della loro lunga marcia verso il potere - sembrano assomigliare di più ai Proci. Sono i cosiddetti “pretendenti”, i giovani principi che nell’Odissea di Omero esigono di possedere la regina Penelope e di insignorirsi del trono decretando Ulisse morto, disperso in chissà quale mare. Nel poema essi rivendicano il loro pieno diritto di governare Itaca nonostante non abbiano mostrato alcun rispetto per le sue istituzioni democratiche. Qui il lettore può spaziare ampiamente nella sua memoria tra le infinite ingiurie leghiste e grilline alle nostre istituzioni: ma non è forse questo il cemento armato della loro più profonda convergenza?
L’atteggiamento dei Proci non è però solo antiparlamentare - interrompono con le armi lo svolgimento di un’assemblea convocata da Telemaco, saccheggiano e deturpano la reggia che li ospita - ma è offensivo verso la Legge stessa della città. Il vuoto di Legge che si è determinato con l’assenza di Ulisse li rende padroni assoluti. Evocare la morte di Ulisse significa infatti evocare la morte della politica che deve lasciare il posto all’arroganza di chi rivendica il proprio diritto inscalfibile alla successione.
L’anti-parlamentarismo si ribalta così in una spinta furiosa ad occupare le istituzioni parlamentari. Una differenza sostanziale differenzia però i nuovi Proci dai vecchi. I nuovi hanno ottenuto democraticamente il consenso del popolo per governare la polis. Hanno un mandato, il popolo è con loro, li sostiene. Tuttavia, la Legge della città ha il compito di ricordare loro che il diritto a governare non implica lo sconvolgimento delle regole democratiche della convivenza, non significa introdurre l’anti- parlamentarismo nelle istituzioni nel nome del popolo. Lo squadrismo fascista violava la vita democratica in nome del popolo. Ed è sempre, come è tristemente noto, in nome del popolo che si sono commesse le più grandi atrocità nella storia. I padri costituenti hanno affidato al presidente della Repubblica un ruolo di garanzia. Bisogna che qualcuno ricordi ai nuovi Proci le regole complesse di una democrazia. Il diritto a governare non può mai coincidere con il diritto a fare quello che si vuole, con il puro arbitrio. Leghismo e grillismo empatizzano facilmente tra loro perché sono le espressioni più radicali del populismo: oppongono la volontà del popolo alla vita della politica.
Di fronte al collasso senza precedenti della sinistra e del Pd, di fronte al vuoto della Legge della città che sembra prolungare all’infinito la lunga notte di Itaca, c’è voluto ancora una volta il volto di un padre simbolico a testimoniare che le istituzioni non sono proprietà di nessuno, che il diritto al governare non coincide con il diritto a cancellare i principi elementari di una democrazia rappresentativa. È stato necessario il gesto coraggioso di un padre per salvare le speranze di Telemaco, per ricordare ai nuovi Proci che Ulisse è ancora vivo.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
Nonostante le lezioni di Benigni, non abbiamo ancora capito le ragioni dantesche di Ulisse all’inferno. E la cultura italiana continua a navigare in uno "stato" sonnambolico....
GLI ESEMPI TAROCCATI DI BARICCO E DI SCALFARI E L’ITALIA STRETTA NELL’ABBRACCIO MORTALE DEL "CAVALEONTICO" ULISSE DI ARCORE.
GENITORI, FIGLI, E FORMAZIONE: AL DI LÀ DEL FALLIMENTO, COSA RESTA DEL PADRE? PER MASSIMO RECALCATI, OBBEDIENTE A LACAN, RESTA ANCORA (E SEMPRE) LA LUNGA MANO DELLA MADRE.
Federico La Sala
Il Presidente della Repubblica grida: Forza Italia.
Il Presidente del Partito "Forza italia" grida: Forza Italia.....
Chi è il vero Presidente della Repubblica?!!!
IL "QUIZ" CONTINUA ....!!!
Cosa significa essere italiani
di Carlo Galli (la Repubblica, 14.09.2011)
«L’Italia è il Paese che amo». In questa dichiarazione - l’inizio della Grande Propaganda - c’era molta verità. Berlusconi ama veramente l’Italia perché ama veramente se stesso, avendo evidentemente operato una sintesi a priori fra l’Italia e la propria persona. Il suo amore non è un rapporto con l’oggetto amato; è il preventivo annullamento della sua autonomia, a cui segue l’identificazione con l’amante. Non è neppure un’inclusione: è un’illusione, un culto idolatrico.
Un culto il cui primo adepto, oltre che il primo beneficiario, è proprio Berlusconi. Il quale crede veramente di essere l’Italia. Non di rappresentarla - come nelle moderne dottrine della regalità il Re col proprio corpo concreto rappresentava l’intera complessità del regno - ma di coincidervi.
Una delle conseguenze di questa smisurata proiezione egolatrica è la indistinguibilità di pubblico e privato - l’annullamento del conflitto d’interessi, trasformato nella più perfetta identità d’interessi, passati presenti e futuri, fra Berlusconi e l’Italia - , ma anche la loro intercambiabilità (è Berlusconi che decide che cosa è pubblico, come per esempio la telefonata per Ruby, e che cosa è privato, come le serate con le escort). Un’altra è la coincidenza della parte col Tutto, del suo Partito con l’intero Popolo (il nome del Pdl è tutto un programma), e quindi l’esclusione degli avversari di Berlusconi dall’Italia - da questa Italia fittizia, fatta di proiezioni mentali, ma anche molto concreta nella sua configurazione di potere - . Quelli che lo criticano perdono ogni legittimità politica e morale, poiché non sono una parte che si contrappone, com’è normale in una democrazia, a un’altra parte, ma sono faziosi, traditori e sabotatori, che attaccando il Capo attaccano ipso facto il Paese. Nemici interni, dunque. Una terza conseguenza è che sovrana non è la legge, che vorrebbe considerare Berlusconi un cittadino fra gli altri; sovrano è lui, che è l’Italia, e che in quanto tale è il soggetto della legge e non è soggetto alla legge. Chi potrà mai voler processare l’Italia se non degli anti-italiani?
L’identificazione del governo con lo Stato, e dell’opposizione con l’attività anti-nazionale, è, certo, un’abusata strategia retorica, di ogni tempo e di molti Paesi - per lo più autoritari -; ma in concomitanza con la crisi finale della sua politica e della sua stessa avventura pubblica, Berlusconi sta toccando il grottesco. Il suo ricorso al tema-chiave della sua propoganda, alla radice della sua costruzione di legittimità, è ormai parossistico. Ora, è giunto il momento di squarciare il velo di Maya, di spezzare l’incantesimo, di dissipare le nebbie dell’illusione. E di spiegare a tutti (molti, in verità, lo stanno già comprendendo da soli, all’amara luce dell’esperienza), e in primis all’interessato, che Berlusconi non è l’Italia, che l’Italia non è Berlusconi, e che essere italiani non è essere berlusconiani. Che Berlusconi non è il destino dell’Italia e che lo si può attaccare senza essere anti-italiani.
Essere italiani non è una cosa soltanto, non significa realizzare un’essenza, un carattere, una vocazione unica. L’Italia non ha un’identità compatta, né nella nazione né nella razza, né nella religione né nell’ideologia. E quindi essere italiani vuol dire molte cose; essere portatori di interessi diversi, di ideali diversi, di visioni del mondo e della società differenziate. E questa pluralità, questa complessità - che hanno radici nella storia e nella geografia, nell’economia e nella politica -, non riconducibili a una unanimità, a un unico modello omologante, a un pensiero unico, possono essere una ricchezza, una riserva d’energie e di prospettive, se il punto d’unificazione del Paese, l’essenza dell’essere italiani, non sta nell’identificazione fra l’Italia e un Capo - che in realtà è stata superficiale ed episodica, e che ha avuto come effetto reale la più grave frantumazione della nostra società in mille linee di frattura disarticolate - ma al contrario nella sovranità della legge e nel più solenne dei vincoli: la Costituzione.
Essere italiani, oggi, può significare, in positivo, il riconoscersi in un’unità giuridica e politica, in un sistema di norme e in un’idea di democrazia pluralistica, che costituiscono, in realtà, un patto di uomini e di donne libere. Uniti dal rispetto delle leggi, e quindi dalla reciproca fiducia in se stessi, e dal riconoscersi nelle istituzioni: dall’identificarsi non in un uomo ma nella Repubblica e nei suoi ordinamenti. Essere italiani significa prendere sul serio la Costituzione, che è l’essenza dell’italianità, il progetto di una patria viva e libera perché consapevole della propria ricchezza plurale e della propria volontà di un destino civile comune. Una patria, un Paese, che non dipende dalle affabulazioni, dai rancori e dalle smanie narcisistiche di Uno - che dapprima ama, e che infine, quando l’incantesimo finisce, ingiuria -, ma dall’orgoglio civile di tutti. Dalla voglia, di tutti, di sciogliere il vincolo - tutt’altro che indissolubile - col Capo, e di riprendere, dopo tanti anni perduti, un cammino comune, libero dall’eccezione permanente, dall’anomalia in servizio perenne ed effettivo. Convinti che sia possibile, e magari anche bello, essere italiani.
ECONOMIA
Già 800 testimonianze a Repubblica.it. Racconti di chi si vede negata ogni chance
Dagli stagisti ai piccoli imprenditori, in diretta la condizione giovanile in Italia
Storie dalla generazione perduta -"Ci avete traditi, restituiteci la vita"
di FEDERICO PACE *
C’è collera e disincanto. Avvilimento e indignazione. Nelle ottocento email spedite dai giovani, in poco meno di quarantotto ore, a Repubblica.it, si sovrappongono parole rabbiose e spietate analisi. I ragazzi che sono stati mandati a casa con la crisi, sono mortificati per il lavoro che non c’è. Pentiti del tempo e della dedizione riservata agli studi. Arrabbiati per l’assenza di meritocrazia che li tiene ancora fuori da tutto.
Nelle testimonianze arrivate da ogni parte d’Italia ci sono le peripezie quotidiane di quelli ingabbiati nella "trappola dello stage" e il disappunto degli eterni precari appesi alle promesse di un datore di lavoro. Ci sono i docenti e i ricercatori senza alcuna certezza. Ma anche i giovani avvocati e gli architetti che lavorano a "euro zero". I piccoli imprenditori alle prese con affari che vanno in malora. Ci sono quelli che il lavoro non lo hanno mai trovato. C’è chi è partito. E chi non sa più cosa fare.
Il lavoro perduto. Da Ascoli Piceno un ventottenne, che fino a poco tempo fa aveva un contratto a tempo indeterminato, ha spedito quello che sembra un epitaffio o una poesia bruciante di Toti Scialoja: "L’azienda ha chiuso. Sono rimasto a casa." Ogni altra parola sarebbe di troppo. Una ragazza della provincia di Venezia invece il posto c’e l’ha ancora. Ma sa che non durerà. "Sono assistente sociale - racconta la ventisettenne con un contratto a tempo -, lavoro con una cooperativa che mi paga molto meno delle mie colleghe di pari grado. Ora l’amministrazione comunale sta ’ridisegnando l’organico’: cioè sta per eliminare il mio posto. A volte non dormo di notte. Tra poco sarò di nuovo a spasso".
In questo labirinto senza via d’uscita, ci sono molti che accettano di ridursi le mansioni. Si fa anche questo per cominciare a vivere e non rimanere senza niente in mano a fine mese. Da Roma arriva una storia esemplare: "Laureato in giurisprudenza - scrive il nostro lettore - dopo tante collaborazioni a progetto, nel 2007 ho deciso di dequalificarmi spinto dal desiderio di creare qualcosa con la mia compagna. Ho accettato un posto da operaio messo a disposizione da un’agenzia per il lavoro presso una multinazionale". Ma purtroppo non è bastato neppure questo. "A giugno scorso l’azienda ha deciso che insieme ad altri novanta colleghi non era più necessaria la mia collaborazione lasciandomi a casa".
Il posto mai trovato. Ma molti un lavoro non l’hanno mai. Da Torino una ragazza scrive: "Sono diplomata in lingue da un anno. Dicevano che era un buon settore per l’impiego. Girando per le varie agenzie della mia città ho scoperto che non era così. Tutti mi chiedono se ho esperienze lavorative e, sentendo la mia risposta negativa, mi guardano con aria scocciata come se in realtà stessi chiedendo l’elemosina". Da Varese una ragazza di venticinque anni confessa la delusione per l’inutilità della laurea. Ha trovato solo qualche lavoretto pagato "250 euro al mese per fare la pendolare da Varese a Milano. Dopo sette mesi speri in qualcosa di meglio. E lo chiedi. Come risposta ti ritrovi senza niente. Niente di niente. La banca mi ha comunicato che il mio conto è a secco. Vivo di ’paghette’".
Troppi stage. Chi riesce a fare il primo passo è costretto ad accettare gli effimeri "surrogati" dell’assunzione. I tirocini soprattutto. Percorsi che difficilmente conducono al lavoro "stabile". Un ventisettenne di Padova racconta: "Dopo una laurea e un master sono caduto nel vortice degli stage. Prima in un’agenzia a Roma ed ora in un ufficio a Milano. Non ci sono prospettive di assunzione di alcun tipo. Non vi è un rimborso spese, non ci sono neppure i buoni pasto". Ma non basta. Il problema, dice il lettore, è che "molto spesso arrivo in ufficio e non mi viene assegnato neppure un compito in tutto il giorno. Non imparo. Perdo tempo."
Professionisti e imprenditori. In questo grande arcipelago della generazione a cui vengono concesse poche chance e nessuna prospettiva non ci sono solo le figure (addetti di call center o precari della scuola) che abbiamo imparato a conoscere. Una trentaduenne pugliese scrive: "Sono laureata in giurisprudenza, non vorrei fare l’avvocato ma non ho altra scelta. Sono sette anni che lavoro presso avvocati. Gratis o quasi perché la condizione dei praticanti e neo avvocati è di dipendenti a tempo pieno senza diritti. Se ti ammali o sei in maternità, sei finita."
A scrivere sono anche quelli che tentano la via della piccola imprenditoria. Da Milano arriva la lettera di un 34enne. "Avevo una mia piccola attività d’erboristeria. Ho deciso di fidarmi di un caro amico. Abbiamo costituito una nuova società. Avevamo un nuovo negozio più grande, c’era l’entusiasmo, la gioia per qualcosa che cresceva e che poteva dare di più. E’ trascorso un anno da quell’inizio ed oggi mi ritrovo senza più nulla." Anche a Napoli succede qualcosa di simile: "Disperato, dopo ennesimi mesi di ricerca di lavoro completamente vana, ho tentato l’ultima carta: mettere su un’attività, un piccolo negozio. Con un prestito familiare, ovviamente. Però l’attività non produce altro che debiti. Fra pochi mesi dovrò chiudere".
Lontani da casa. Più della metà di chi ci ha scritto, ha lasciato il posto dove è nato. Il 15 per cento è partito dalla città d’origine. Il 23 per cento ha cambiato regione. A partire sono quasi sempre loro. Quelli che dal Sud vanno al Nord. Qualcuno ha fatto più di 400 chilometri. Altri anche il doppio. Spesso senza ottenere nulla in cambio. Una laureata in ingegneria si è trasferita da Agrigento a Novara, in quello che lei definisce "il ricco Nord. Mi sono ben inserita come precaria. Fino al giugno 2009. Poi la catastrofe. Da un giorno all’altro senza lavoro, a inseguire il titolare per farmi dare quello che mi spetta per progetti fatti ma che non vuole pagare". Un trentunenne racconta, con rabbia, di avere lasciato la Calabria per Milano: "Mi sono laureato in ingegneria credendo di potere trovare un lavoro in modo più semplice. Non è stato così. Lavoro in una società dello Stato che mi sfrutta come un cane". Un ragazzo sardo di ventinove anni scrive: "Sono un giovane che, dopo la laurea, ha deciso di lasciare il Sud per salire a Milano, in cerca di fortuna. Non è che ne abbia trovata molta: contratti a tempo determinato (ho avuto anche un contratto di 1 settimana!!!), zero gratifiche lavorative, zero possibilità di carriera. A fine anno mi scade il contratto. Penso proprio che lascerò l’Italia." Ciascuna parola, scritta da questi ragazzi, chiama in causa un’intera classe politica e un sistema economico che sembra averli dimenticati, prima ancora di averli traditi.
Belpaese addio. Il 17 per cento delle testimonianze è di chi è andato via dall’Italia per riuscire ad avere un’occasione. Molti sono soddisfatti di averlo fatto. Come risulta evidente dal telegrafico messaggio che arriva dall’Austria. "Trasferito a Vienna. Felicissimo, occupato e per nulla nostalgico". Da Siracusa è partita anche una ragazza con laurea e master in nuove tecnologie perché "l’impiegata di un’agenzia interinale del nord mi offrì un posto come commessa in un negozio di alimentari. Così decisi che all’Italia avevo dato l’ultima possibilità e me ne andai all’estero". Dice di parlare correntemente quattro lingue e di avere vinto, "un concorso pubblico non italiano, per il quale ha davvero contato solo il merito" e di avere "un salario più che decente. Oggi guardavo il mio profilo su Linkedin e mi sono accorta che ho scritto il mio cv in inglese, francese e spagnolo e non in italiano...".
Ma c’è anche chi, pure al di là dei confini nazionali, non ha trovato alcun Eldorado. Dal Regno Unito un ragazzo napoletano racconta che all’estero le cose non vanno affatto bene. "Vivo in Inghilterra da più di cinque anni e ho sempre lavorato in ruoli da impiegato per grosse aziende. In cinque anni ho registrato tre redundacies, ovvero licenziamenti per motivi di trasferimento del business. L’ultima a marzo 2009. Adesso ho cominciato a lavorare con un rimborso di appena 100 sterline a settimana. Loro la chiamano probation (prova), io sfruttamento".
La fatica e il sogno. Infine a chi è ancora convinto, in buona o cattiva fede, che alle nuove generazioni manchi la forza per rimboccarsi davvero le mani, sembra rispondere Angelo, 32 anni da Brindisi: "Ho cominciato a lavorare da bambino nella piccola officina meccanica di mio padre. Mi sono diplomato come tecnico delle industrie e ho assolto la leva militare. Studiavo ancora quando ho preso un patentino come conduttore di caldaie a vapore che mi ha permesso di cominciare a lavorare. Ho iniziato con un lavoro stagionale. Dopo una stagione ero nuovamente disoccupato. Da allora è cominciata la mia storia di precario. Da quel momento ho fatto, in nero e non, il caldaista civile, l’operatore macchine utensili, il falegname, il carpentiere, il muratore, il pescivendolo, lo chef, il rappresentante, il letturista di contatori, l’agricoltore, il tubista..." e proprio alla fine, quando l’elenco sembra non finire mai, sintetizza in poche parole tutta l’essenza problematica di una generazione a cui la società non sembra offrire alcuna vera opportunità: "Ormai ho imparato a vivere della giornata e quel sogno del posto fisso, beh... mi sono reso conto che è davvero un sogno".
© la Repubblica, 30 ottobre 2009
Sette domande al Primo Ministro italiano, Signor Silvio Berlusconi - di Carlo Cosmelli *
NASCITA DI UN LADRO
a c. di don Aldo Antonelli
Il N. 42 di CRITICA LIBERALE dell’8 Luglio ripercorre, sotto forma di domande, la nascita e la crescita del Ladro.
Che si sappia!
Ed anche se le disposizioni di legge contamplano l’istituto della prescrizione, nella coscienza dei cittadini certi comportamenti, ancorché reiterati, soprattutto se sono l’espressione del DNA di una persona, non sono soggetti a termini di scadenza.
Potrà fare quello che vuole, potrà imbandire tavole di beneficenza a iosa, iscriversi ai mille circoli di Dame della Carità, farsi la doccia con le acquesante benedette nei Sacri Palazzi, celebrare pontificali su Libertà e Democrazia: a meno che non pervenga ad una pubblica, vera conversione, è e resterà un Ladro accomparato con la Mafia e affiliato alla P2. Il plauso del popolo squalifica il popolo stesso e non gli ridona nessuna verginità.
Aldo Antonelli
Ecco l’articolo di Critica Liberale:
Sette domande al Primo Ministro italiano, Signor Silvio Berlusconi *
Al Primo Ministro della Repubblica Italiana sono state rivolte dieci domande circa le sue relazioni con una ragazza minorenne invitata più volte anche a cene ufficiali. Fino ad ora si è rifiutato di rispondere. Si potrebbe fare uno sconto al Signor Silvio Berlusconi, chiedendogli di rispondere a sette domande.
Signor Berlusconi, potrebbe rispondere pubblicamente a queste domande?
Premessa:
La Banca Rasini di Milano, di proprietà negli anni ’70 di Carlo Rasini, è stata indicata da Sindona e in molti documenti ufficiali di magistrati che hanno indagato sulla mafia, come la principale banca utilizzata dalla mafia per il riciclo del denaro sporco nel Nord - Italia.
Di questa Banca sono stati clienti Pippo Calò, Totò Riina e Bernardo Provenzano, negli anni in cui formavano la cupola della mafia.
In quegli stessi anni il Sig. Luigi Berlusconi lavorava presso la Banca, prima come impiegato, poi come Procuratore con diritto di firma e infine come Direttore.
1) Nel 1970, il procuratore della banca Luigi Berlusconi ratifica un’operazione molto particolare: la banca Rasini acquisisce una quota della Brittener Anstalt, una società di Nassau legata alla Cisalpina Overseas Nassau Bank, nel cui consiglio d’amministrazione figurano Roberto Calvi, Licio Gelli, Michele Sindona e monsignor Paul Marcinkus. Questo Luigi Berlusconi, procuratore con diritto di firma della banca Rasini, era suo padre?
2) Sempre intorno agli anni ’70 il Sig. Silvio Berlusconi ha registrato presso la banca Rasini ventitré holding come “negozi di parrucchiere ed estetista”, è lei questo Signor Silvio Berlusconi?
3) Lei ha registrato presso la banca Rasini, ventitré “Holding Italiane” che hanno detenuto per molto tempo il capitale della Fininvest, ed altre 15 Holding, incaricate di operazioni su mercati esteri. Le ventitré holding di parrucchiere, che non furono trovate ad una prima indagine della guardia di finanza, e le ventitré Holding italiane, sono la stessa cosa?
4) Nel 1979 il finanziere Massimo Maria Berruti che dirigeva e poi archiviò l’indagine della Guardia di Finanza sulle ventitré holding della Banca Rasini, si dimise dalla Guardia di Finanza. Questo signor Massimo Maria Berruti è lo stesso che fu assunto dalla Fininvest subito dopo le dimissioni dalla Guardia di Finanza, fu poi condannato per corruzione, eletto in seguito parlamentare nelle file di Forza Italia, e incaricato dei rapporti delle quattro società Fininvest con l’avvocato londinese David Mills, appena condannato in Italia su segnalazione della magistratura inglese?
5) Nel 1973 il tutore dell’allora minorenne ereditiera Anna Maria Casati Stampa si occupò della vendita al Sig. Silvio Berlusconi della tenuta della famiglia Casati ad Arcore. La tenuta dei Casati consisteva in una tenuta di un milione di metri quadrati, un edificio settecentesco con annesso parco, villa San Martino, di circa 3.500 metri quadri, 147 stanze, una pinacoteca con opere del Quattrocento e Cinquecento, una biblioteca con circa 3000 volumi antichi, un parco immenso, scuderie e piscine. Un valore inestimabile che fu venduto per la cifra di 500 milioni di lire (250.000 euro) in titoli azionari di società all’epoca non quotate in borsa, che furono da lei riacquistati pochi anni dopo per 250 milioni.(125.000 euro). Il tutore della Casati Stampa era un avvocato di nome Cesare Previti. Questo avvocato è lo stesso che poi è diventato suo avvocato della Fininvest, senatore di Forza Italia, Ministro della Difesa, condannato per corruzione ai giudici, interdetto dai diritti civili e dai pubblici uffici, e che lei continua a frequentare?
6) A Milano, in via Sant’Orsola 3, nacque nel 1978 una società denominata Par.Ma.Fid. La Par.Ma.Fid. è la medesima società fiduciaria che ha gestito tutti i beni di Antonio Virgilio, finanziere di Cosa Nostra e riciclatore di capitali per conto dei clan di Giuseppe e Alfredo Bono, Salvatore Enea, Gaetano Fidanzati, Gaetano Carollo, Carmelo Gaeta e altri boss - di area corleonese e non - operanti a Milano nel traffico di stupefacenti a livello mondiale e nei sequestri di persona. Signor Berlusconi, importanti quote di diverse delle suddette ventitré Holding verranno da lei intestate proprio alla Par. Ma.Fid. Per conto di chi la Par.Ma.Fid. ha gestito questa grande fetta del Gruppo Fininvest e perché lei decise di affidare proprio a questa società una parte così notevole dei suoi beni?
7) Signor Berlusconi da dove sono venuti gli immensi capitali che hanno dato inizio, all’età di ventisette anni, alla sua scalata al mondo finanziario italiano?
Vede, Signor Berlusconi, tutti gli eventuali reati cui si riferiscono le domande di cui sopra sono oramai prescritti. Ma il problema è che i favori ricevuti dalla mafia non cadono mai in prescrizione, i cittadini italiani, europei, i primi ministri dei paesi con cui lei vuole incontrarsi, hanno il diritto di sapere se lei sia ricattabile o se sia una persona libera.
P.S. Dato che lei è già stato condannato in via definitiva per dichiarazioni false rese ad un giudice in un tribunale, dovrebbe farci la cortesia di fornire anche le prove di quello che dice, le sole risposte non essendo ovviamente sufficienti.
Carlo Cosmelli
Vacuità della politica
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 31/5/2009)
Non è la prima volta che il presidente del Consiglio s’indigna per il trattamento che gli riservano i magistrati che lo processano, o i giornalisti che indagano sulla spregiudicatezza con cui mescola condotte private e pubbliche. S’indigna a tal punto che le due figure - il magistrato, il giornalista - sono equiparate a quella del delinquente: è avvenuto giovedì all’assemblea della Confesercenti. Le tre categorie sono assimilate a loro volta all’opposizione politica. Le accuse che vengono loro rivolte sono essenzialmente due. Primo, l’offesa al popolo sovrano, al consenso che esso ha dato alle urne e che imperturbato rinnova nei sondaggi. Secondo, la natura pretestuosa di tali attacchi antidemocratici: il primato dato alla forma sulla sostanza, ai problemi finti degli italiani su quelli veri, allo show sulla realtà, al gossip sulla politica del leader.
L’accusa va presa sul serio, perché il premier ha costruito il proprio carisma sulla maestria dello show e non ha concorrenti in materia. In particolare sa abbandonarlo, se serve, e presentare l’avversario come vero manipolatore della società dello spettacolo. Come ha scritto Carlo Galli, «il suo vero potere è sul linguaggio e sull’immaginario»: qui è l’egemonia che dagli Anni 80 esercita sul senso comune degli italiani, e che l’opposizione non ha imparato a scalfire (la Repubblica 25 maggio).
Ma qualcosa si va scheggiando, in questo perfetto potere d’influenza, come accade agli apprendisti stregoni che non dominano più interamente i golem fabbricati.
Il gossip, lo show, il privato che fagocita il pubblico, i problemi veri semplificati fino a divenire non-problemi, dunque falsi problemi: questi i golem, e tutti provengono dalle officine del berlusconismo. Sono la stoffa della sua ascesa, gli ingredienti della sua egemonia culturale in Italia. Quel che succede oggi è una nemesi: il problema finto divora quello vero, show e gossip colpiscono chi li ha messi sul trono. All’estero la condanna è dura. Non da oggi, certo: l’Economist lo giudicò «inadatto a governare» il 28 aprile 2001, sono passati anni e Berlusconi resta forte. Ma lo sguardo esterno stavolta s’accanisce, perché finzioni e non-verità si accumulano.
Il fatto è che nel frattempo il mondo è cambiato, attorno a lui. Berlusconi è figlio di un’epoca di vacuità della politica: il mercato la scavalcava impunemente, ignorando ogni regola; l’imprenditore-speculatore sembrava più lungimirante e realista del politico di professione. Il liberalismo dogmatico regnò per decenni, e Berlusconi fu una sua escrescenza. Ma questo mondo giace oggi davanti a noi, squassato dalla crisi divampata nel 2008. La regola e la norma tornano a essere importanti, il realismo dei boss della finanza è screditato, la domanda di politica cresce. È quel che Fini presagisce: senza dirlo si esercita in toni presidenziali, conscio del prestigio miracolosamente sopravvissuto del Colle. La crisi del 2007-2008 è sfociata in America nella sconfitta di Bush, ma quel che Pierluigi Bersani ha detto in una recente conferenza è verosimile: «Il capitalismo non finisce, ma finisce una fase ad impronta liberista della globalizzazione. E non finisce perché c’è Obama, ma c’è Obama perché finisce».
Questo spiega come mai Berlusconi - a seguito della sentenza Mills che lo indica come corruttore di testimoni e della vicenda Noemi in cui appare come boss che esibisce private sregolatezze fino a sfidare il tabù della minorenne - irrita più che mai chi ci guarda da fuori. Un’irritazione che si accentua di fronte ai troppi nascondimenti della verità: nel caso Mills la verità di sentenze che non sono tutte di assoluzione ma anche di prescrizione o assenza di prove; nel caso Noemi la verità di incontri poco chiari. Non dimentichiamolo: quando si incolpano le bolle, finanziarie o politiche, è di menzogne e sortilegi che si parla.
Quel che finisce, attorno a noi, è la negligenza dell’imperio della legge, della rule of law. Non tramonta solo il dogma del mercato onnisciente ma la figura del sovrano-boss, eletto per stare sopra le leggi, i magistrati, le costituzioni, le istituzioni. La fusione tra il suo interesse-piacere privato e il suo agire pubblico diventa un male non più minore ma maggiore, perché nelle democrazie c’è sete di regole e istituzioni, dopo lo sfascio, e non di favole ottimiste ma di realtà e verità. C’è bisogno di gesti fattivi e antiburocratici come la presenza in Abruzzo o a Napoli sui rifiuti, ma c’è anche bisogno di cose che durino più di una legislatura e non siano bolle. È utile osservare l’America, oggi: l’immenso sforzo pedagogico che sta compiendo Obama, per convincere i cittadini che il breve termine è letale, che la Costituzione e le norme devono durare più dei politici.
Deve poter durare il sistema di checks and balances innanzitutto: l’equilibrio tra poteri egualmente forti e indipendenti. Il presidente americano sta riconquistando l’egemonia della parola, con linguaggio semplice e vera passione pedagogica. Il suo discorso su Guantanamo e terrorismo, il 21 maggio, lo conferma: «Nel nostro sistema di pesi e contrappesi, ci deve essere sempre qualcuno che controlli il controllore. \ Tratterò sempre il Congresso e la giustizia come rami del governo di eguale rango». Berlusconi va oggi controcorrente: all’estero non ha altra sponda se non quella di Putin, figura tipica di politico-boss.
Tuttavia la società italiana gli crede ancora, e questo consenso varrà la pena studiarlo, con la stessa umile immedesimazione mostrata da Obama. Varrà la pena studiare perché gli italiani somigliano tanto ai russi, come se anch’essi avessero alle spalle regimi disastrosi. Perché tanta sfiducia verso le regole, lo Stato, la res publica. Non esiste una congenita debolezza morale degli italiani, e dunque occorre capire come mai la politica è così profondamente sprezzata, il conflitto così radicalmente temuto. La tesi esposta più di vent’anni fa dallo studioso Carlo Marletti è tuttora valida: è vero che da noi esiste un «eccesso di pluralismo e complessità che le istituzioni legali non semplificano» adeguatamente. E che al loro posto si sono installate auto-organizzazioni informali, claniche o familiste, che non sono arcaiche ma si sono adattate alla modernità meglio di altre. Marletti spiega come lo sviluppo industriale si sia mescolato alla criminalità organizzata e come si siano creati, in assenza di uno Stato che semplifichi la complessità, meccanismi di semplificazione sostitutivi, solidaristico-clientelari, «di tipo nero o sommerso» (Marletti, Media e politica, Franco Angeli, 1984).
Berlusconi prometteva questa fuga nella semplificazione deviante, meno ingarbugliata che ai tempi della Dc. Secondo il filosofo Václav Belohradsky, essa è basata sul prevalere dei fini personali o corporativi sui mezzi che sono le norme prescritte a chi vuol realizzare tali fini. Tra i due elementi è saltata ogni coerenza ed è il motivo per cui l’Italia vive nell’anomia sociale, come fosse fuori-legge.
In Italia accade questo: le mete del singolo sono tutto, le norme nulla. La legalità vale per gli altri (i clandestini), non per noi, scrive Carlo Galli. Per noi le leggi sono d’impedimento: quelle italiane e anche quelle dell’Unione Europea, come ha ripetuto Berlusconi alla Confesercenti. L’opposizione potrebbe ripartire da qui: dalle norme pericolosamente sprezzate, dall’Europa che il governo finge di poter aggirare senza rischi, dalla sovranità nazionale che esso finge di possedere, a cominciare dal clima. La commistione privato-pubblico ha condotto a tutto questo, non è solo la storia di un padre, di una moglie mortificata, dei loro figli. I più preveggenti dicono: dopo la crisi il mondo non sarà più eguale. Berlusconi promette di conservarlo: anche questo è bolla, ed è spinta rivoluzionaria che si sta esaurendo
Ansa» 2009-05-23 11:38
NAPOLITANO, IN RICORDO DI FALCONE E BORSELLINO SIAMO NAZIONE
PALERMO - Nell’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo, le commemorazioni del diciassettesimo anniversario della strage di Capaci. Alla manifestazione, alla presenza di centinaia di studenti di tutt’Italia di Napolitano e dei ministri Maroni, Alfano e Gelmini.
"Mai come in momenti come questo, uniti nel ricordo incancellabile di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e le altre vittime della mafia sentiamo di essere una nazione", ha detto il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nell’aula bunker di Palermo.
"Lo Stato c’é e si fa sentire. I risultati degli sforzi compiuti dalle forze dell’ordine e dai magistrati sono sotto gli occhi di tutti". L’ha detto il ministro dell’Interno Roberto Maroni, intervenendo nell’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo. Maroni, ricordando l’impegno di giudici, carabinieri, polizia e finanza, ha espresso loro il suo ringraziamento.
"Nel 2008 sono stati sottratti alle mafie beni per 4 miliardi di euro. Il triplo del 2007. E’ questo il miglior modo per celebrare le vittime della mafia: ricordare magistrati e forze di polizia impegnati nel contrasto ai boss", ha detto il ministro Maroni. Maroni ha elencato i dati relativi a sequestri, arresti e confische messi a segno all’inizio dell’anno dalle forze dell’ordine. "Da gennaio ci sono stati 1.088 arresti - ha spiegato - 97 operazioni antimafia. Sono finiti in cella 70 latitanti, alcuni dei quali inseriti nella lista dei 30 più pericolosi". "Sempre dall’inizio dell’anno - ha proseguito - sono stati sequestrati mille beni per 330 milioni di euro e confiscati 146 beni per un valore di 28 milioni di euro". "Solo a Palermo - ha ricordato Maroni - dall’inizio dell’anno sono stati messi a segno 19 blitz antimafia, arrestate 129 persone, tra le quali 5 latitanti. Due di loro erano nella lista dei 100 più pericolosi. In questi 5 mesi sono stati sequestrati 43 beni per 7 milioni di euro e confiscati in tutto proprietà e liquidi per 14 miliardi di euro". Maroni ha, infine, ricordato l’arresto del boss latitante Antonino Lo Nigro e tutti i recenti blitz delle forze dell’ordine facendo riferimento, da ultimo, a quello che ieri ha portato in cella Leonardo Badalamenti, figlio dello storico capomafia don Tano.
SORELLA MARIA, CADUTO MITO IMPUNIBILITA’ MAFIA- La sorella di Giovanni Falcone, Maria, intervenendo nel dibattito in corso all’aula bunker ha parlato di "caduta del mito dell’impunibilità della mafia" e ha sottolineato come quest’anno sia stato scelto come tema centrale dell’appuntamento quello del lavoro e dello sviluppo. "Fare sviluppo economico legale in Sicilia significa fare antimafia", ha detto Maria Falcone. Un filmato realizzato dalla Fondazione Falcone ha ripercorso l’attività del giudice e del suo collega Paolo Borsellino, con momenti di grande commozione, e scegliendo di mostrare più volte l’immagine del procuratore Antonino Caponnetto, che dei due giudici fu, oltre che un mentore, quasi un padre.
MARCEGAGLIA, LIBERI DI VOLARE NEL MONDO DELL’ONESTA’ - "Dobbiamo essere liberi di volare nel mondo dell’onesta". E’ l’appello che nell’aula bunker dell’Ucciardone ha lanciato Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria. "Siamo qui - ha detto - per testimoniare l’impegno dell’associazione e delle imprese sane in favore della legalità e contro la cultura della corruzione, dell’evasione, della collusione che inquina il tessuto civile del nostro Paese". Marcegaglia ha ribadito, in un intervento più volte interrotto dagli applausi, che si è ormai affermata nel mondo dell’imprenditoria la "volontà di stroncare ogni forma di contiguità". E di spezzare il circolo vizioso del sottosviluppo che crea illegalità, che finisce per "impedire alla società sana di svilupparsi e progredire". Secondo il presidente di Confindustria l’economia sana non ha altra scelta che di espellere le sacche di collusione che ancora sopravvivono. Netto deve essere il "rifiuto di pagare il pizzo" ma anche l’impegno di isolare chi non denuncia il racket. "E’ questa un’operazione - ha sottolineato - che sta andando avanti estendendosi dalla Sicilia alle altre regioni. Gli imprenditori sanno che non ci può essere scelta diversa: o si sta dalla parte della legalità o contro la legalità". La conferma che questo processo è ormai in una fase avanzata viene, ha ricordato Marcegaglia, dal fatto che molti imprenditori che investono al Sud sono pronti a sottoscrivere protocolli di legalità.
NAPOLITANO INCONTRA LE VITTIME DI MAFIA Il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, prima di entrare nell’aula bunker dell’Ucciardone, ha incontrato i familiari di alcune vittime della mafia, alla presenza anche del procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso. Prima il Presidente della Repubblica ha reso omaggio alle vittime dell’attentato di Capaci recandosi nella caserma Lungaro della polizia, a Palermo. Dopo avere deposto una corona di fiori ha incontrato i familiari di altre vittime della mafia. Erano presenti il presidente del Senato, Renato Schifani, e il ministro dell’Interno, Roberto Maroni. Alla cerimonia hanno partecipato anche, tra gli altri, il capo della polizia, Antonio Manganelli, il procuratore nazionale antimafia, Pietro Grasso, il presidente della Regione Siciliana, Raffaele Lombardo e il sindaco di Palermo, Diego Cammarata.
George Orwell a palazzo Madama
di Stefano Rodotà (la Repubblica, 27 marzo 2009)
Ricordate George Orwell e la «neolingua» che compare nel suo "1984"? Parole manipolate per soddisfare le «necessità ideologiche» del regime, per «rendere impossibili altre forme di pensiero». È esattamente quello che è accaduto ieri al Senato della Repubblica, che ha battezzato come «dichiarazioni anticipate di trattamento» il loro esatto contrario, cancellando ogni valore vincolante del documento con il quale una persona indica le sue volontà per il tempo in cui, essendo incapace, dovesse trovarsi in stato vegetativo permanente. Sarà inutile seguire un tortuoso iter burocratico, da ripetere ogni tre anni, perché con esso si approderà semplicemente al nulla. E la maggioranza dei senatori ha fatto la stessa operazione battezzando come sostegno vitale l’alimentazione e l’idratazione forzata contro l’opinione larghissima del mondo medico internazionale che le considera trattamenti. È lo stesso consenso informato, uno dei grandi risultati civili del tempo recente, perde il suo valore fondativo del diritto di costruire liberamente la propria personalità. Il sequestro di persona, di cui ha parlato ieri Adriano Sofri, ha trovato il suo compimento. Missione compiuta, potrà dire il presidente del Consiglio al cardinale Bagnasco a tre giorni appena dall’ingiunzione dei vescovi a chiudere senza indugi e senza aperture la discussione sul testamento biologico.
È con grande amarezza che scrivo queste parole. Non si sta parlando di una vicenda marginale, ma del modo in cui si stanno delineando i rapporti tra le persone ed uno Stato che, abituato da sempre a legiferare sul corpo della donna come «luogo pubblico», rende ora «pubblici» i corpi di tutti, li fa tornare sotto il dominio del potere politico e si serve abusivamente della mediazione dei medici, di cui viene restaurato un potere sul corpo del paziente che era stato cancellato proprio dalla «rivoluzione» del consenso informato. Ora non sarà più la persona a decidere per sé. Altri lo stanno facendo, e lo faranno, al suo posto. Dov’era un «soggetto morale», quello nato appunto dall’attribuzione a ciascuno del potere di accettare o rifiutare le cure, troviamo di nuovo un «oggetto».
Non è solo una questione di costituzionalità, allora, quella che si è ufficialmente aperta. È una questione di democrazia, perché stiamo parlando del modo in cui si esercita il potere. Sono in discussione il diritto all’autodeterminazione e i limiti all’uso della legge.
Torniamo così alla costituzionalità del testo appena approvato, di cui la maggioranza appare sicura probabilmente perché alla Costituzione e alla sue logiche si mostra sostanzialmente estranea, come provano molte vicende degli ultimi tempi, e dei tempi meno recenti. Ma la Costituzione e i suoi guardiani sono ancora lì. Alla maggioranza conviene far sapere che, mentre si arrabattava in tutta una serie di espedienti legali per impedire che avesse attuazione la sentenza della Corte di Cassazione sull’interruzione dei trattamenti a Eluana Englaro, la Corte Costituzionale (sentenza numero 438 del 23 dicembre 2008) scriveva le seguenti parole: «La circostanza che il consenso informato trova il suo fondamento negli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione pone in risalto la sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all’autodeterminazione e quello alla salute».
Da qui bisogna partire già in questi giorni, mentre il disegno di legge passa dal Senato alla Camera. Non è retorica dire che il punto forte è costituito dal sentire delle persone, testimoniato da tutti i sondaggi, da quelli appunto sulle decisioni relative al morire a quelli sull’uso del preservativo, che mostrano non solo una distanza netta dalle posizioni delle gerarchie vaticane, ma soprattutto una consapevolezza profonda della libertà e della responsabilità che devono accompagnare le scelte di vita. Ai deputati bisogna far sentire la voce di questo paese, che la maggioranza politica non ascolta, chiusa com’è nelle sue convenienze e nei suoi ideologismi, e che il Partito democratico rischia di non sentire, lasciando così senza avere rappresentanza parlamentare proprio un mondo che potrebbe essergli vicino.
Fango sulle istituzioni
Come Voleva Gelli
di Tina Anselmi (la Repubblica, 30 gennaio 2008)
Caro direttore,
sono stata una moderata, non certo per la forza della mia passione civile, quanto per i modi in cui ho fatto politica e i luoghi della mia collocazione politica: ho sempre militato nella Dc e di quel partito sono stata a lungo parlamentare.
Mi rivolgo pertanto a quei moderati che hanno a cuore come me le sorti dell’Italia, che rispettano le istituzioni e le regole democratiche e che sovente ho sentito dichiararsi discepoli di Alcide De Gasperi.
Non metto in dubbio la loro buona fede allorché li vedo non solo chiedere a gran voce, con la forza del loro potere di parlamentari, elezioni subito; ma li vedo già scendere in campagna elettorale in un momento tanto delicato, in cui gli stessi presidenti del Senato e della Camera hanno ribadito che questo è il tempo della riflessione, del silenzio, del lavoro del capo dello Stato.
Mi rendo conto - pur con un notevole sforzo di immaginazione e andando contro quello che è il mio modo di intendere la politica e di considerare gli avversari mai nemici e mai indegni di rispetto - che solo il loro desiderio di mettersi al più presto al servizio del Paese, di tornare a governare per "salvare" l’Italia, li abbia portati a brindare in Senato alla fine di un governo, pur sempre eletto democraticamente dalla maggioranza dei cittadini e delle cittadine di cui faccio parte anch’io.
Tuttavia, da moderata e da cattolica - educata negli ideali di Dossetti e di De Gasperi a rispettare, a difendere la laicità dello Stato e a legare strettamente l’onestà dei comportamenti all’operato politico - mi rivolgo ai tanti che ho visto maturare e crescere nelle file del mio partito, e a tutte le donne e agli uomini di buona volontà che vorranno ascoltare le mie parole. E, aggiungo, da partigiana.
Come potrei non fare riferimento a quella mia intensa, dolorosa, forte, esperienza, di giovane staffetta partigiana, in questi giorni del 2008, in cui si celebrano i sessant’anni della nostra Carta Costituzionale? Permettetemi di ricordarvi, quale testimone di quei lontani anni del primo dopoguerra, che rispettare la Costituzione non vuol dire solo rispettarne i contenuti, ma rendere omaggio ai tanti che hanno concorso a elaborarla, a quelle donne e a quegli uomini, quegli italiani, che sacrificarono la loro vita per la democrazia. Vuol dire non dimenticare le tante vittime civili, i tanti giovani e meno giovani morti in una guerra scatenata dalla follia di onnipotenza della Germania di Hitler e delle tante nazioni, tra cui ahimé l’Italia fascista di Mussolini, che combatterono al suo fianco.
Purtroppo ciò che ho visto, ho analizzato, ho capito, durante gli anni del mio lavoro quale presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sulla loggia massonica P2 di Licio Gelli, mi spinge a vedere nella attuale crisi politica una grave situazione di emergenza democratica. Mi rendo conto che gli anni di Gelli e dei suoi compagni oggi appaiano lontani, ma quanto lontani?
Ebbene, insisto, e aggiungo che la parte del progetto di Gelli legato al discredito delle istituzioni democratiche, attuato dall’interno delle medesime e dalla loro esasperata conflittualità - che molti ultimi avvenimenti testimoniano - rischia di giungere all’atto conclusivo.
Immaginate quali guasti potrebbe arrecare al tessuto connettivo del nostro Paese una campagna elettorale - e ne abbiamo già visto un anticipo - vissuta all’insegna della selvaggia contrapposizione tra i due poli, della violenza verbale, degli insulti, di altro fango gettato sulle nostre istituzioni.
Anch’io ho vissuto la stagione infelice di tangentopoli, e in quegli anni mi sono battuta a viso scoperto perché non si cadesse nel facile qualunquismo del: così fan tutti. Vorrei pregare le persone per bene di ribellarsi a questo luogo comune scellerato: chi ha le mani pulite, chi ha la coscienza a posto, pretende, ottiene, i distinguo. Concludo con una frase di Jacques Maritain: «Non si può costruire una democrazia se non c’è amicizia».
Il grande distruttore
di Pietro Spataro *
Nel giorno della pausa è arrivata la cannonata. La minaccia di Berlusconi ("o il voto o la piazza") è risuonata ieri nelle stanze del Quirinale dove Napolitano è alle prese con una crisi complicata. È la prima volta che il leader di un partito minaccia di portare milioni di persone in piazza se il Capo dello Stato non esegue i suoi ordini. Lo fa, oltre tutto, mentre sono aperte le consultazioni, fase delicatissima nella nostra vita politica. Ma il capo di Fi ci ha ormai abituato: la sua storia è infatti un pericoloso passaggio di prima volta in prima volta.
Nessuno ovviamente mette in forse il suo diritto di chiedere le elezioni. Berlusconi si sta giocando l’ultima partita: prima si vota e più è sicuro di essere il candidato premier. Quindi: alle urne ad aprile o al massimo a giugno con la speranza di tornare a Palazzo Chigi. Libero di crederci e di provarci.
La questione è un’altra. È che il signore di Arcore conferma anche in questi momenti il suo profilo di instancabile distruttore. Per lui le regole sono meno che un optional, le ha considerate così mentre governava (con tutti i disastri che sappiamo), le considera così anche oggi che servirebbero saggezza e misura.
Veltroni ieri ha lanciato un appello al senso di responsabilità nazionale: ha parlato di coraggio. Berlusconi ha risposto con la marcia su Roma. Non è un buon segno. Ma dal giornale fondato da Gramsci non può che venire un forte sostegno a chi in queste ore si affida all’"ottimismo della volontà" di fronte al "pessimismo dell’intelligenza" (frasi gramsciane citate ieri anche dal presidente della Camera). Ricordando ai lettori (e agli elettori) che la legge elettorale che ora tutti vogliono cambiare perché è una vera "porcata" l’hanno voluta loro, Berlusconi e i suoi. Così, tanto perché si sappia chi è che ha fatto a pezzi le regole del gioco e contribuito a combinare questo bel pasticcio.
pspataro@unita.it
* l’Unità, Pubblicato il: 28.01.08, Modificato il: 28.01.08 alle ore 10.36
ILSOLE24ORE 26 GENNAIO 2008
Audio intervista / Borrelli: il clima del 1992 non è mai passato Audio intervista di Raffaella Calandra
"Il clima del ’92 non è mai passato. Anzi, ora verso la magistratura c’è una reattività ancora maggiore di allora". Paragona la situazione attuale agli anni di Tangentopoli, l’ex procuratore di Milano, Francesco Saverio Borrelli, il procuratore del triplice "resistere" che oggi- dice- "andrebbe ripetuto". "La classe politica vuole addebitare alla magistratura colpe che non ha, la cuda del governo non è dipesa dall’inchiesta di Santa Maria Capua Vetere. Mastella ha solo colto quest’occasione". Ospite della cerimonia dell’inaugurazione dell’anno giudiziario a Milano, Borrelli - intervistato da Radio24- definisce la classe politica "refrattaria ai controlli di legalità": "l’attività di Mani Pulite non è servita, il costume nazionale è quello che è". Per questo, invoca un "rinnovamento etico e culturale". In quest’intervista, parla anche delle intercettazioni e dei giudici in tv e ai suoi colleghi dice: "abbassiamo la cresta, il nostro è un ruolo di servizio".
L’intervista a Francesco Saverio Borrelli è di Raffaella Calandra
Clima da campagna elettorale. Domattina le consultazioni al Quirinale
di Lega, An, Udc e Rifondazione. Forse giovedì la decisione di Napolitano
Fi: "Al voto o la gente in piazza" Veltroni: "Cambiare regole del gioco"
Il Cavaliere smentisce il nome di Letta premier di un governo per le riforme
Il ruolo dell’Udc: "Tutto il possibile per un governo ponte ma non perdere tempo"
ROMA - Ufficialmente nulla è deciso e i giochi restano aperti, incarico istituzionale o elezioni subito. Ma il clima della domenica nel cuore della crisi politica è già da campagna elettorale: convegni altrimenti secondari diventano pulpiti per dichiarazioni programmatiche; collegamenti radio o tivù occasione per scandire programmi politici in pochi punti. I rumors del sottofondo della politica parlano di liste già pronte, ad esempio a Napoli, in Campania ma anche in Sicilia. E nei partiti più piccoli si stanno decidendo passi importanti, diaspore e migrazioni dettate da rapporti di forza e di necessità.
Le posizioni in campo restano quelle note. Quasi tutto il centro destra - Fi, An, Lega. Nuovo Psi e Nuova Dc - ma anche l’Udeur e il Pdci vogliono le urne e mettono in guardia da "pasticci" e, Berlusconi avverte: niente accordi diversi perché in quel caso migliaia di persone marcerebbero su Roma. Per un governo "costituente", cioè che duri almeno un anno per fare le riforme necessarie a cambiare la legge elettorale, a modificare i regolamenti parlamentari e a dare più poteri al premier, sono schierati Pd, Udc, Radicali e Psi. Un governo a tempo, riforma elettorale e poi voto entro l’estate, lo chiedono Rifondazione, Sd e Idv.
Terza giornata di consultazioni al Quirinale. La settimana clou delle consultazioni si apre in una situazione cristallizzata. Domani saliranno al Colle Lega (ore 9), Udc (ore 10), Rifondazione (ore 11), An (ore 12). Martedì sarà il turno di Forza Italia e del Partito democratico. Mercoledì il presidente Napolitano potrebbe prendersi una giornata di riflessione e poi giovedì decidere cosa fare. "Ogni sintesi al momento non è possibile" aveva detto sabato concludendo il secondo ciclo di colloqui. Il presidente Napolitano ha detto e ripetuto in ogni occasione che il paese ha bisogno di riforme. Farà di tutto quindi per tentare almeno la carta dell’incarico esplorativo. Ma ha fatto sapere che "si adeguerà" e che "non forzerà la mano". Indiscrezioni dicono che Napolitano potrebbe però anche usare la carta del referendum, ovvero far presente alle forze politiche che migliaia di italiani hanno firmato per cambiare l’attuale legge.
Berlusconi: "Al voto, altrimenti italiani in piazza". Il Cavaliere respinge anche oggi il richiamo di Veltroni. In collegamento telefonico con un convegno a Riva del Garda, il leader di Fi chiede di nuovo con insistenza che si vada al voto anticipato e in caso contrario avverte che saranno "milioni" gli italiani a scendere in piazza a rivendicare il diritto di andare alle urne. Gianfranco Fini la pensa allo stesso modo e così anche la Lega. L’ex premier poi smentisce ogni ipotesi di incarico a Gianni Letta.
Veltroni: "Riforme in un anno, poi al voto". Il segretario del Pd, a Firenze per chiudere un convegno dedicato all’ambiente, ripete la posizione espressa anche sabato al convegno liberal del Pd. La sua proposta è "un governo di responsabilità nazionale almeno per fare la nuova legge elettorale" e rivolge al centro destra un appello "al senso di responsabilità nazionale". "E’ necessario riscrivere le regole del gioco - dice - noi siamo disposti a farlo. E siamo convinti che sia possibile prendere otto, dieci mesi, forse un anno, per avviare una stagione di riforma: cambiare la legge elettorale, i regolamenti di Camera e Senato, dimezzare il numero dei parlamentari".
Il Cavaliere già in campagna elettorale. Pensa al simbolo e alle liste. Per il primo dice che "nel simbolo di Forza Italia potrebbe essere anche inserito un richiamo al Popolo delle Libertà. Poi annuncia che "nel suo futuro esecutivo potrebbe anche esserci posto per personalità della sinistra".
Udc, possibile pontiere. Resta distinta dal resto del centrodestra la posizione dell’Udc. Dice il segretario Lorenzo Cesa: "Domani al presidente Napolitano chiederemo se ci sono le condizioni di dar vita ad un governo di responsabilità nazionale perché il Paese non ce la fa ad andare avanti e dovremo comunque andare alle elezioni con regole nuove che permettano governi stabili". Anche a Cesa, però, la strada sembra molto in salita. "E al tempo stesso non bisogna perdere tempo. Quindi se non ci sono le condizioni per fare un governo di responsabilità nazionale, all’interno del quale ci sia Forza Italia e Partito Democratico, bisogna andare velocemente al voto".
* la Repubblica, 27 gennaio 2008.
Il Cavaliere interviene a Napoli e si mostra certo che alla fine si andrà al voto anticipato
"Il primo provvedimento sarà per limitare le intercettazioni telefoniche"
Berlusconi non aspetta il Quirinale
"Oggi apro la campagna elettorale"
ROMA - Le consultazioni del capo dello Stato sono appena iniziate con la salita al Quirinale dei presidenti di Senato e Camera, ma Silvio Berlusconi non sembra avere dubbi su quale sarà l’esito della crisi apertasi con il voto di sfiducia espresso ieri a Romano Prodi da palazzo Madama.
"Abbiamo dato qui l’inizio della campagna elettorale per la libertà", dice il leader di Forza Italia parlando a Napoli alla festa degli Italiani nel mondo, il movimento di Sergio De Gregorio, il senatore eletto nelle liste di Antonio Di Pietro e poi passato immediatamente con il centrodestra. Berlusconi è convinto che il presidente Napolitano dopo aver ascoltato tutte le forze politiche non potrà far altro che decidere lo scioglimento anticipato delle Camere, alle quali si oppone con fermezza ormai solo il Partito democratico.
"Il titolo comune della nostra campagna elettorale sarà la libertà", dice il Cavaliere. Parola d’ordine con cui intende forse recuperare il progetto del nuovo partito, messo nel cassetto per il precipitare della crisi. "Abbiamo dato vita al Popolo della libertà ed è un’intenzione che ha radici profonde e che vogliamo portare avanti - ricorda Berlusconi - Non sappiamo oggi se avremo il tempo per organizzarlo per le prossime elezioni che si annunciano così vicine. Lo faremo probabilmente dopo le elezioni, quindi ciascuna forza politica parteciperà al voto con il suo simbolo".
Nel suo intervento dal palco della convention napoletana, il Cavaliere, dando per scontato anche un successo alle elezioni anticipate, si spinge quindi a fare addirittura una scaletta dei primi interventi legislativi del suo futuro governo. "Non emetteremo mai una legge o un provvedimento che possa ridurre anche di un briciolo la libertà dei cittadini e quella sulle intercettazioni sarà la prima legge che approveremo", dice il leader della risorta Casa delle Libertà.
Berlusconi, si spinge quindi a fornire anche i dettagli della normativa che ha in mente. "Le intercettazioni - dice - saranno consentite solo per terrorismo, mafia e camorra". Per chi dovesse ordinare intercettazioni al di fuori di questa categoria, Berlusconi spiega di voler prevedere "cinque anni di prigione per chi le ordina, cinque per chi le esegue e due milioni di multa per chi le usa".
Insieme alle intercettazioni, Berlusconi immagina un pacchetto di interventi più vasto composto da "10-12 decreti legge da presentare agli elettori indicando, contestualmente, la data in cui entreranno in vigore". Tra questi dovrebbero trovare spazio, annuncia ancora il Cavaliere, l’abolizione dell’Ici, le opere pubbliche e i provvedimenti a sostegno dei giovani.
Completamente proiettato verso le auspicate elezioni anticipate, il leader del centrodestra usa persino parole di comprensione per lo sconfitto Prodi. "Per venti mesi - dice - siamo stati in balia di una minoranza rivoluzionaria esterna fatta dai movimenti che sono il popolo militante della sinistra e che ha chiesto a Diliberto, e agli altri componenti della sinistra che siede in parlamento, di essere di lotta". "Prodi - aggiunge - in questi mesi poteva solo dire sì ai diktat della sinistra estrema e nessuno al suo posto avrebbe potuto fare altro. L’alternativa era andare a casa".
Ansa» 2007-11-30 18:46 VELTRONI,CON BERLUSCONI CONVERGENZA SU NUOVO BIPOLARISMO
Si sono incontrati a Roma il leader del Pd, Walter Veltroni, e il leader azzurro Silvio Berlusconi sul tema delle riforme e della legge elettorale. Il faccia a faccia si e’ svolto al quinto piano di Montecitorio nello studio del vice segretario del Pd, Dario Franceschini, ed e’ stato in realta’ un incontro a quattro. Con Veltroni e Berlusconi, infatti, c’erano lo stesso vicesegretario del Pd Franceschini e Gianni Letta, da sempre braccio destro del Cavaliere.
VELTRONI,CON BERLUSCONI CONVERGENZA NUOVO BIPOLARISMO - Con Silvio Berlusconi ’’c’e’ stata la condivisione che bisogna passare ad un nuovo bipolarismo, da un bipolarismo forzoso ad un bipolarismo fondato sulla coesione programmatica’’. Ad evidenziarlo e’ il leader del Pd Walter Veltroni che evidenzia come ’’nel merito della riforma della legge elettorale c’e’ un territorio su cui si puo’ lavorare, cioe’ sulla necessita’ di un sistema proporzionale, che non rinunci al bipolarismo’’. ’’La riforma della legge elettorale e le altre riforme istituzionali sono legate. Tutto si tiene secondo una coerenza’’. Lo ha detto il segretario del Partito democratico Walter Veltroni durante la conferenza stampa seguita all’incontro.
MAI COME OGGI RIFORME POSSIBILI IN 12 MESI - ’’Mai come oggi e’ di fronte a noi la possibilita’ di dare a questo paese, nei prossimi 12 mesi, riforme certe e nuove. Questa e’ la condizione che si e’ creata’’. Lo ha detto il segretario del Partito democratico Walter Veltroni durante la conferenza stampa seguita all’incontro con il presidente di Forza Italia Silvio Berlusconi su legge elettorale e riforme.
CONFRONTO LEGGE ELETTORALE POI SUBITO VOTO - ’’Sono disponibile ad un confronto sulla legge elettorale per andare poi subito al voto’’. Lo ha detto il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi al termine dell’incontro con il segretario del Pd Walter Veltroni. ’’La legge elettorale e’ la regola del gioco e non credo che debba essere il frutto di un accordo tra le due forze maggiori ma cerco un consenso piu’ vasto possibile’’, ha detto il leader di Forza Italia. ’’Dissenso per i tempi che richiedono’’. Cosi’ Silvio Berlusconi, nella conferenza stampa dopo l’incontro con Walter Veltroni, parla delle riforme istituzionali. Il leader di FI ritiene tuttavia che le riforme siano necessarie, ’’e infatti noi le avevamo approvate nella scorsa legislatura’’. ’’Mi auguro che il clima del colloquio di oggi dia la possibilita’ di un confronto normale, e uso un vocabolo caro a qualcuno, come e’ giusto che sia tra forze protagoniste che si rispettino’’, ha detto Berlusconi. ’’Il calendario del confronto tra le forze politiche deve avere tempi brevissimi, strettissimi, per poi porre fine a questa esperienza di governo’’, ha aggiunto.
’’Abbiamo cercato di essere pragmatici e di confrontarci sul modello proposto da Veltroni che presenta punti di convergenza e altri di divergenza ma a mio avviso risolvibili’’. Cosi’ il leader azzurro Silvio Berlusconi si dice disponibile a discutere sulla proposta ’Vassallum’, un proporzionale con correttivi maggioritari. ’’Non si e’ parlato di grosse koalition nel modo piu’ assoluto. E preciso che anche in passato non ho mai parlato di governo di coalizione, se non quando mi hanno chiesto cosa avrei fatto in caso di una nostra vittoria risicata dopo il voto e io ho detto, come avevo gia’ fatto dopo le elezioni del 2006, che avrei scelto di condividere le responsabilita’ di governo con l’altra parte’’, ha detto Silvio Berlusconi.
’’Non e’ un’ipotesi realistica’’. Cosi’ Silvio Berlusconi, nella conferenza stampa dopo l’incontro con Walter Veltroni, risponde a chi gli chiede se sia disposto a confrontarsi sulle riforme istituzionali nel caso in cui il governo durasse e la legislatura proseguisse normalmente. ’’Il governo - aggiunge - ha esaurito la sua maggioranza parlamentare’’. Sul ’’piano politico’’ resta la ’’contrapposizione aperta al governo Prodi’’ per andare al piu’ presto al voto; sul ’’piano istituzionale’’, invece, ’’disponibilita’ a discutere di una nuova legge elettorale’’ e quanto alle riforme ’’dissenso per i tempi che richiederebbero’’. ’’Non abbiamo posto alla maggioranza una data pregiudiziale sulla data del voto ben sapendo che cio’ non compete a loro ma al Presidente della Repubblica. Tuttavia siamo convinti dentro di noi che si debba andare al voto dopo l’intesa sulla legge elettorale’’, ha detto il leader di Forza Italia.
FINI, NEGATIVO NO BERLUSCONI AD ALLEANZE PRIMA VOTO - ’’E’ positiva la volonta’ di Berlusconi di discutere per arrivare a varare una nuova legge elettorale che renda possibile il ritorno rapido alle urne. E’ negativa la sua indisponibilita’ ad una nuova legge elettorale che preveda la dichiarazione delle alleanze prima del voto’’. E’ quanto afferma il leader di An, Gianfranco Fini, commentando l’esito dell’incontro tra Silvio Berlusconi e Walter Veltroni sulla legge elettorale e le riforme.
Non si capisce (e non si è mai capito) cosa intenda veramente il nostro prof. La Sala col termine DEMOCRAZIA ! Avrà forse già letto l’ultima fatica (La democrazia in 30 lezioni) del Prof. Sartori ? È forse per lui democrazia l’intolleranza nei confronti di un Papa che non può parlare alla Sapienza, o di un Ferrara che non può parlare di aborto nelle piazze ? O di un presidente della Repubblica (che quando fa comodo si elogia) che deve essere blindato per parlare alla Fiera del Libro di Torino ?
Sono d’accordo con Fabio. Il Paese aveva bisogno di una semplificazione. Non era più tollerabile un Parlamento con decine di partiti e partitini, con quest’ultimi a ricattare quotidianamente il governo in carica !
Gli addebiti al pm De Magistris appaiono fragili e l’uguaglianza davanti alla legge è a rischio
Ecco perché va cancellato il tempo della furbizia
di GIUSEPPE D’AVANZO *
IMMAGINIAMO di essere non nell’ottobre 2007, ma nello stesso mese del 2005. Un pubblico ministero indaga il capo del governo (è Berlusconi) e il suo ministro di giustizia (è Castelli). Gli sottraggono una prima inchiesta, avocata dal procuratore capo. Il pubblico ministero si mette al lavoro su un’altra inchiesta. In un passaggio dell’indagine che egli ritiene decisivo, il ministro di Giustizia (le indagini raccontano che è in buoni rapporti con due degli indagati) chiede - come una nuova legge gli permette - il trasferimento cautelare del pubblico ministero a un altro ufficio.
Sarebbe la definitiva morte dell’inchiesta. Il provvedimento amministrativo non convince il Consiglio superiore della magistratura che lo deve disporre. Non ne intravede l’urgenza, prende tempo, tira in lungo. Il pubblico ministero iscrive, allora, il ministro nel registro degli indagati: atto dovuto per l’esercizio dell’azione penale e soprattutto garanzia per l’indagato. Ventiquattro ore dopo, il procuratore generale avoca a sé - sottrae al pubblico ministero - anche la seconda indagine.
Il passo è inconsueto e appare anomalo. Gli addetti ricordano, se hanno memoria buona, qualche modesto precedente di quindici anni prima. Le ragioni del procuratore generale stanno in piedi come un sacco vuoto.
Se il motivo dell’avocazione è l’"incompatibilità" per l’"inimicizia grave" tra il pubblico ministero e il ministro indagato (ha chiesto la punizione del pubblico ministero, che ne è risentito), si tratta una fanfaluca. Se si accetta il principio, qualunque indagato che denuncia il suo accusatore potrebbe invocare l’"inimicizia grave" e liberarsi del suo pubblico ministero. Cesare Previti, in passato e ripetutamente, ci ha provato. Non è andato lontano.
Ci sarebbe - trapela dalla procura generale - un’altra ragione per l’avocazione delle indagini: l’inerzia del pubblico ministero. L’accusatore è fermo. Non va né avanti né dietro. Non esercita l’azione penale. Non richiede l’archiviazione "nel termine stabilito dalla legge". Ora, l’inchiesta del pubblico ministero è nei termini stabiliti dalla legge (è un fatto) e di quel pubblico ministero tutto si può dire tranne che sia pigro o inoperoso (è un fatto). La seconda ragione appare, se possibile, anche più debole della prima e nonostante ciò il pubblico ministero perde l’inchiesta e il capo del governo e il ministro di Giustizia tirano un respiro di sollievo, si liberano di ogni controllo (che abbiano o no responsabilità punibili è un’altra storia, naturalmente).
Siamo nell’ottobre del 2005 - lo ricordate? - e in questo modo abusivo il capo del governo (è Berlusconi) e il ministro di Giustizia (è Castelli) si grattano la rogna, guadagnano un’illegittima impunità, contraria alla Costituzione e alla legge.
L’operazione liquidatoria consiglia di gridare allo scandalo. Non siamo nella Francia ancien régime dove, grazie a lettere chiamate Committimus, le persone favorite dal potere schivano le normali giurisdizioni e si presentano dinanzi a corti più mansuete. Se questo accade (e accade) si degrada a regola fluttuante, a canone fluido l’articolo 3 della Costituzione ("I cittadini sono eguali davanti alla legge senza distinzioni di condizioni personali e sociali"). E’ necessario interrogarsi allora sulla qualità di una democrazia, esprimere qualche preoccupazione se il potere politico rifiuta ogni contrappeso; annichilisce l’indipendenza della magistratura. E’ un obbligo chiedersi delle ragioni (e responsabilità) di una frattura istituzionale che impone a una magistratura servile di umiliare la sua stessa autonomia liberandosi delle "teste storte" convinte che atti uguali vadano valutati a uguali parametri giuridici, sia l’indagato un povero cristo o di eccellentissimo lignaggio.
Questo avremmo pensato e detto, con apprensione e qualche brivido, se nell’ottobre del 2005 fosse stata rubata l’inchiesta a un pubblico ministero "colpevole" di voler verificare i comportamenti del capo del governo (Berlusconi) e del ministro di giustizia (Castelli).
Non siamo (purtroppo?) nel 2005. Siamo nel 2007 e il capo del governo (indagato) è Romano Prodi, il ministro di Giustizia (indagato) è Clemente Mastella e l’esito dell’affare non è mai riuscito a Berlusconi, Previti, Dell’Utri, Castelli: il pubblico ministero che li ha indagati - Luigi De Magistris - si è visto trafugare l’inchiesta dal tavolo.
Se ne deve prendere atto con molta inquietudine. Ora che il "caso De Magistris" (o il "caso Prodi/Mastella"?) precipita verso un punto critico, è indispensabile che questo affare diventi finalmente, e nel mondo più rapido, trasparente. Che tutti i comportamenti, le responsabilità, gli usi e i soprusi siano squadernati in pubblico, possano essere verificati e, se necessario, presto corretti nel rispetto delle regole democratiche che assegnano a ciascuno degli attori ruolo e doveri.
Il governo governi senza condizionare l’autonomia della magistratura (se Mastella teme di cadere in tentazione, gli si assegni un altro incarico nell’esecutivo). Il pubblico ministero eserciti l’azione penale nel rispetto delle costrizioni procedurali (il Consiglio superiore ne verifichi l’ossequio, subito non in dicembre). Le gerarchie togate evitino ogni soggezione, rispettino i codici, non manipolino le procedure (la procura generale di Catanzaro receda dalla sua dissennata iniziativa).
Il presidente della Repubblica sia, come sempre è stato, il garante della Costituzione e dell’eguaglianza del cittadino dinanzi alla legge. Non c’è più spazio per il compromesso, la tolleranza, la furbizia. A meno di non voler cadere in quell’incubo che sembrava alla spalle con la sconfitta del cattivissimo Silvio Berlusconi.
* la Repubblica, 21 ottobre 2007.
L’affondo del presidente di Confindustria oggi a Caserta In questa situazione "è impossibile prendere decisioni di fondo"
Montezemolo: "Da 12 anni
il Paese non è governato"
"No alle elezioni senza una nuova legge elettorale" *
CASERTA - "Questo governo non è in grado neanche di tagliare le cravatte di due centimetri. Non è in grado di tagliare nulla. Non c’è coesione. Ma abbiamo bisogno che il governo governi, che prenda delle decisioni, qualsiasi esse siano". L’allarme di Luca Cordero di Montezemolo viene lanciato da Caserta dal palco del Forum della ’Piccola industria’. Il Paese, dice il presidente di Confindustria, "non è governato. Da 12 anni è impossibile prendere decisioni di fondo". E ribadisce il suo no alle elezioni senza prima mettere a punto una nuova legge elettorale. "Non si può tornare al voto lasciando il Paese così com’è". La priorità, ribadisce, è quella di cambiare la legge elettorale, senza però "fare una riforma all’amatriciana".
"Non è un bello spettacolo quello che la politica italiana sta dando in questi giorni - dice - e non sarebbe una bella prospettiva quella di tornare al voto condannando il Paese ad un altro periodo incerto e confuso, chiunque fosse il vincitore. Dobbiamo uscire dall’idea che ogni volta sia meglio andare a nuove elezioni senza affrontare i veri problemi invece che attuare le grandi riforme di cui abbiamo bisogno".
"Non sono contento di un paese che vede il proprio futuro politico con la Brambilla e con Grillo, non mi sta bene, non ci sta bene", scandisce Montezemolo. "Abbiamo il diritto di chiedere - prosegue - una politica forte, autorevole, una classe dirigente che sia in grado di pensare al futuro del paese e non solo alle elezioni del prossimo mese, come se fosse il modo di risolvere i problemi".
Proprio la "continua campagna elettorale" con cui si confronta il paese dal 2004 è stata bocciata da Montezemolo. Che non ha esitato a chiamare in causa l’opposizione. "Io vorrei chiedere, con rispetto, all’opposizione di questo paese, dopo che è stato al governo 5 anni, cosa intende fare per il futuro - ha affermato il leader degli industriali - Perché bisogna ricordare che a Bari nel 2004 ci fu detto che entro il 2006 l’Irap sarebbe stata azzerata e a Caserta che ci sarebbe stato un intervento sulla pressione fiscale. Ora, dal centrodestra - ha proseguito - l’Irap non è stata neppure sfiorata, e attendiamo di sapere dal centrosinistra cosa si intende fare per alleviare il peso fiscale insopportabile per il paese".
* la Repubblica, 27 ottobre 2007.
MARINI-BERTINOTTI: ’’IL PARLAMENTO E’ SOVRANO’’ *
ROMA - Avanti con i tagli dei costi della politica, a cominciare dal vitalizio dei parlamentari e a proseguire con le indennità. Ma il compito di realizzare le riduzioni spetta al Parlamento nella sua sovranità e attraverso la "autonoma assunzione di responsabilità". Lo affermano, in una dichiarazione congiunta, i presidenti di Senato e Camera, Franco Marini e Fausto Bertinotti.
"Sulla questione dei costi della politica - si legge nel comunicato congiunto dei presidenti delle Camere - le presidenze del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati confermano, nel momento in cui si dà inizio ai lavori sulla finanziaria, l’esigenza di proseguire nell’opera per la loro riduzione del resto già avviata". "L’azione intrapresa dai due rami del Parlamento con l’eliminazione di alcune storture che si erano venute determinando nei passati decenni, a partire da quella sul vitalizio dei parlamentari, proseguirà anche per ciò che riguarda le indennità degli stessi parlamentari. Sarà il Parlamento, nella sua sovranità - sottolineano Marini e Bertinotti - a realizzare questi compiti, sulla base della convinzione maturata al suo interno che la difesa delle sue prerogative e la conquista di un rinnovato rapporto tra le Istituzioni e il paese passa per questa sua autonoma assunzione di responsabilità".
MARINI: PATTO FRA POLI PER ATTUARE RIFORME
"Una sospensione delle ostilità per un patto tra le forze politiche e parlamentari che consenta di approvare le riforme istituzionali urgenti e indispensabili per il bene dell’Italia e degli italiani". A lanciare l’appello è il presidente del Senato Franco Marini, nel corso del suo intervento al convegno dei giovani di Confindustria che si tiene a Capri.
Franco Marini è convinto che "il tempo a disposizione per chiudere quella sul fronte delle riforme questa transizione infinita non sia molto, se non si vuole proseguire in quella specie di marcia del gambero già inaugurata dalla riforma elettorale approvata alla fine della scorsa legislatura". Marini chiede dunque di accelerare perché "non c’é molto tempo per rimediare alla disaffezione e al disinteresse dei cittadini per la politica".
* ANSA» 2007-10-05 21:03
Intervento del leader di Forza Italia alla festa di Azione Giovani
"Hanno le mani su tutto, ora anche la comunicazione è loro"
Berlusconi: "Antipolitica è colpa della sinistra
con loro non ci può essere alcun dialogo" *
ROMA - "L’antipolitica che si sta manifestando nel Paese ad alcuni ricorda lo spirito del ’92-’93, noi allora riuscimmo a dare una risposta con il Polo delle Libertà, una proposta seria ed efficace". Così il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi, ha aperto il suo intervento alla festa nazionale di Azione Giovani, movimento giovanile di An. "Oggi dobbiamo dare la stessa risposta data nel ’94" ha aggiunto Berlusconi. "Allora ci fu uno spirito di antipolitica, oggi c’è ancora, Grillo e la sua gente ne sono la dimostrazione. Credo che noi dobbiamo dare una risposta concreta".
Dopo il caso Rai, nessun dialogo con la sinistra sulle riforme. "Hanno finito per mettere le mani su viale MAzzini" ha continuato il Cavaliere, "così hanno tutte le istituzioni del Paese e adesso hanno anche lo strumento per poter fare la comunicazione che vogliono". E, visto che "pretendono di mantenere la presidenza, con questa sinistra non si può discutere".
"Quando non si riesce a nominare il quindicesimo componente della Corte Costituzionale", ha attaccato ancora il leader di Forza Italia, "dove la sinistra ha già 11 membri ascrivibili alla propria area e vuole anche avere il dodicesimo...quando sulla Rai pretende di mantenere la presidenza che gli abbiamo dato quando eravamo maggioranza...beh, con questa sinistra non si può discutere".
E il Grillo parlante liberò le nevrosi della politica
di Oliviero Beha *
Sarà pure uno «scemo di guerra» come dice qualcuno senza approfondire ma solo per esorcizzare. E per l’ironia e l’astuzia se non della storia almeno della cronaca, Scemo di guerra è il titolo di un film del 1985 di Dino Risi, appunto con Beppe Grillo e Coluche, il comico/politico italofrancese ahimé defunto che per certi versi più gli somiglia. Ma certamente Grillo ha nel suo dna un concentrato di mediaticità fenomenale. È uno strumento naturale di comunicazione.
E anche per questo che lui sottolinea tra i tanti elementi soprattutto l’elemento internet a proposito del successo stratosferico del V-Day di sabato scorso, con numeri che fanno arrossire la politica partitocratrica corrente. La tesi è semplice e palese: se vengo ignorato dai media tradizionali per mesi e anni, mentre dico agli italiani (ma non solo: avete visitato il suo sito in inglese?) le cose che tv, radio e giornali per lo più non dicono oppure dicono quasi soltanto a senso unico, incrociato, dal centro-destra contro il centro-sinistra e viceversa, e raggiungo i numeri del V-Day, di partecipazione e di firme per le petizioni popolari, ebbene ho svoltato.
Posso farne a meno, dei massmedia cioè di «questi» massmedia, mentre loro non possono fare a meno di me, di dare notizie sia pure in modo discutibile su di me e su quello che dico e faccio. Si apre con il mondo di internet un altro paesaggio. Arrivano i giovani a moltitudini, giovani scomparsi dalla scena dell’impegno e invisibili su altri palcoscenici che non fossero quello atroce eppur comprensibile di un programma della celestiale De Filippi. In piazza vedi finalmente le donne, altra categoria avulsa dalla scena socio-politica del paese ed evocata solo per dire che «all’università vanno meglio degli uomini».
Di più: abituati come siamo alla dicotomia degli eserciti di informazione al servizio dei due schieramenti, e del loro intreccio politico-economico-imprenditorial-finanziario e bancario, direi soprattutto bancario, ai non addetti probabilmente sfugge che mentre spessissimo vedere quel telegiornale o comprare quel giornale è un segno di riconoscimento politico/partitico a volte già stantio e ripetitivo, arrivare a Grillo e alle sue manifestazioni attraverso il web obbliga a ridiscutere il criterio.
Nessuno garantisce più che colui che lo segue dal blog in piazza sia «di sinistra», o «di destra». Sembrerebbe d’acchito la perdita di una garanzia per generazioni politicizzate come la mia. Garanzia che peraltro ha portato a l’Italia che abbiamo sotto gli occhi, quindi forse garanzia relativa... E comunque garanzia che evidentemente non regge più, almeno a prendere atto dei segnali del nostro «scemo di guerra» che invece vengono recensiti in maggioranza come aspetti di uno show. Mentre invece Grillo come fenomeno ed epifenomeno costringe alla esiziale domanda: e se essere «di sinistra» (o «di destra») all’italiana o all’amatriciana come accade oggi non fosse più praticamente una garanzia di nulla, almeno in partenza?
Se fosse così, come temo sia, forse bisogna cambiare mentalità e approccio. Forse non è la perdita di una garanzia, quello che sta accadendo con Grillo ma non solo con lui, con movimenti/associazioni/comitati ecc. in una malfamata e già usurata formula (ma allora i partiti?) quale la cosiddetta «società civile», bensì una forma di liberazione, di «reset», di nuovo inizio, così da fare in modo che la garanzia non sia di partenza, ma casomai d’arrivo, come fini e non come rendite di posizione. Non una recita, ma un difficile giorno per giorno. Diventare «di sinistra» forse oggi sarebbe un po’ meglio che battersi per stabilire se la sicurezza è patrimonio di una parte o dell’altra senza mettere a fuoco il contesto della questione.
Grillo in tutto ciò, al di là della formidabile vicenda mediatica di internet, comporta dunque oggi una serie di interrogativi di sostanza che in giro trovo assai poco evidenziati. Perché non conviene evidenziarli? Per «istinto di conservazione» dell’oligarchia dominante? Perché non si hanno risposte credibili e allora meglio non fare domande? Per esempio: Moretti e i girotondi erano la sinistra o chiunque fosse contro Berlusconi, non è vero? Ebbene, oggi chi firma con Grillo si schiera e si autocertifica «semplicemente» contro lo stato (minuscolo, per favore, non fraintendiamo a bella posta come spesso accade con il «comicastro» da parte degli epistemologi) italiano, inteso come un Paese alla rovescia. Non sto qui a ripetere l’elenco di magagne. Dico solo che in discussione c’è la gerenza della ditta al completo. O essa se ne rende conto, e dà segnali di comprendonio e resipiscenza, oppure le cose si metteranno per forza peggio, anche se non è detto che il peggio sia tale per tutti, diciamo certamente peggio per i bersagli delle critiche del V-Day.
Per esempio, nessuno può affermare che D’Alema & co siano colpevoli di qualche cosa. Ma proprio per questo non sarebbe meglio se costringessero loro stessi la Giunta deputata a permettere al giudice di raccogliere le loro testimonianze? Se non andranno dal giudice a testimoniare e immagino a documentare la loro innocenza, una specie di viatico a governare, la prossima volta Grillo e non solo lui pretenderanno pubblicamente di essere definiti caporioni non della «antipolitica» come ancora e ossessivamente si ripete, bensì degli «anticomitati d’affari». E lì rischierebbe davvero di venir giù tutto...
Insomma, il problema non è Grillo, e circoscriverlo come in molti fanno sembra sempre il tragico e stupido giochetto di chi vede il dito che indica la luna e non la luna italiana per di più attualmente così storta. Certo, poi uno come Grillo sa come usare il dito... ma pur essendo parte quasi immediata della stessa storia, per oggi è ancora un’altra storia. Usiamo il dito per la luna, non limitiamoci ai manicure della politica che su di essa hanno costruito il loro annoso potere e (alcuni) le loro fortune per diverse generazioni.
Un esempio chiarirà meglio il mio punto di vista. Mettiamo che tra poco, sabato 6 ottobre, quindi prima delle Primarie del Partito democratico, Beppe Grillo partecipi in qualche modo a Roma, a Piazza Farnese, alla prima manifestazione del Movimento «Repubblica dei cittadini per una Lista Civica Nazionale», teso a rimettere in gioco il rapporto tra la politica come è intesa oggi e appunto i cittadini, rifacendosi all’art.49 della Costituzione e non a Paperino. Mettiamo che Grillo appoggi con le sue energie psicowebbistiche uno degli obiettivi centrali di questo Movimento, le firme per una petizione popolare che conduca a una legge sui partiti del tutto «rivoluzionaria»: e cioè che finalmente, a sessant’anni dalla loro nascita costituzionale, i partiti, tutti i partiti, la smettano di figurare come associazioni private, con statuti che ormai non sanno di niente e niente garantiscono della loro vita interna in termini di efficienza, trasparenza e democrazia, per essere riconfigurati a norma di legge (una piccolissima, banale, infinitesimale leggina ordinaria...) così da rispondere alla legge stessa e portare i libri contabili in tribunale come qualunque altra azienda.
Mettiamo che a Roma il 6 ottobre venga chiesto questo (meglio se con la grancassa di Beppe Grillo per il suo robusto dito medio), e comunque questo è ciò che verrà chiesto alla classe politica, alle istituzioni, al Quirinale: sarebbe un’autentica rivoluzione, per o meglio direi contro i «comitati d’affari» e l’irrisolto problema dei costi/sprechi/privilegi della «casta». E una boccata d’ossigeno e di speranza per tutti i cittadini, di qualunque colore politico. Che si farà in quel caso? Continueremo a giocare con il dito del pur politicissimo (e meritorio) «scemo di guerra»?
www.olivierobeha.it
* l’Unità, Pubblicato il: 12.09.07, Modificato il: 12.09.07 alle ore 13.06
Venti ottobre
di Rossana Rossanda (il manifesto, 08.09.2007)
La manifestazione e il corteo che assieme a Liberazione questo giornale ha lanciato per il 20 ottobre sono stati bersaglio di una certa campagna stampa, avallata anche da alcuni politici che rischia di farci apparire il paese più instupidito d’Europa. Un corteo pacifico e, ci auguriamo, di massa che esprime bisogni e sensibilità molto reali sarebbe il cavallo di Troia per far cadere il governo Prodi? Sostenere questo governo, farlo inciampare o cadere è potere esclusivo delle forze politiche in Parlamento, del patto che le ha messe assieme e, o almeno così dovrebbe essere, del rispetto che farebbero bene a nutrire l’una per l’altra. Non è nella nostra possibilità né nei nostri intenti farlo, non siamo né vogliamo diventare un’istituzione né un gruppo di istituzioni.
Ma il governo dovrebbe ringraziarci per offrirgli l’occasione di saggiare consensi e inquietudini di una parte consistente della società civile che lo ha votato. E che è altra cosa dei gruppi parlamentari e dei partiti, tutti peraltro fattisi tanto leggeri da pardere ogni radicamento sociale diffuso, che fungeva da sensorio e raccoglitore di idee e competenze non meno che da cinghia di trasmissione «di un’ideologia».
L’asfissia dei partiti e il bipolarismo nel quale si vorrebbe costringere una società sempre più complessa stanno facendo dell’Italia l’ultima e mesta spiaggia di una democrazia rappresentativa riacquistata con il sangue, e aprono il varco per assai dubbie avventure populiste. A Giuliano Amato, che teme il formarsi di una destra infastidita dai lavavetri, suggeriamo di riflettere se il pericolo non sia altrove: a forza di scostare dalla sfera politica tutta quella parte di società che fa problema, essa le si rovescerà addosso.
Questo pericolo noi lo sentiamo duplice. Da un lato si indebolisce per mancata partecipazione ogni idea di risanamento democratico di un paese che ne ha più che mai bisogno; la seconda repubblica non è migliore della prima. Dall’altro si induce uno scontento che, sommato a certi spiriti animali che la destra ha coltivato (egoismi corporativi, interesse solo per il proprio giardino, disprezzo della solidarietà, fastidio per l’uguaglianza dei diritti) può portare a forme inarticolate di rifiuto più prossime alla rivolta che a una vera trasformazione sociale.
Tutti gli elementi per un’involuzione del genere esistono. La sfera politica è frastornata dalla povertà di idee ed è incapace di decidere non altro che quel che le è imposto per forza maggiore da vincoli internazionali auspicati in tutt’altre prospettive da quelle attuali. In presenza di una crescita che non riparte, di una crisi mondiale del sistema dei mutui e dei fondi sul quale anche il centrosinistra avevano puntato come sulla manna, mentre i salari italiani hanno cessato da un pezzo persino di star dietro all’inflazione e sono fra i più bassi in Europa occidentale, il potere d’acquisto è di conseguenza sempre più ridotto, quei vincoli sono percepiti come una strozzatura. Con ragione.
1 E’ stata grave la timidezza della maggioranza sul tema scottante delle pensioni, per i più vergognosamente basse e per pochi vergognosamente inuguali, come l’incapacità di chiudere con un precariato sempre più vasto, giovanile e no. E’ fuori dal mondo predicare ogni cinque minuti a chi poco ha e nulla può che l’obiettivo principale di un governo che si vuol democratico e di sinistra è il risanamento dei conti pubblici nel quadro della Bce. Questo può essere un obiettivo per un banchiere come Padoa Schioppa, ma non può essere un obiettivo di società. E’ un vincolo cui essa è tenuta e sarebbe stolido sottovalutare. Ma l’obiettivo è un altro: produrre di più e redistribuire meglio, non come un’elemosina ai più poveri ma come un principio di autentica equità, riducendo le diseguaglianze, recuperando la laicità dello stato sui problemi di etica pubblica e personale, smettendo di stare alle falde di un demente che non gode più credito nel suo stesso paese come George W. Bush.
Sono fini civili che premono non solo per le fasce sociali più in sofferenza ma per chiunque si definisca sul serio un democratico. A costoro abbiamo proposto di esprimersi, e non solo mugugnare, e non solo col voto segreto fra tre anni. Che i membri del governo partecipino o no a questa assemblea di popolo è affar loro, non nostro. Se ci verranno, bene, se non verranno, dovranno ascoltare. Per noi fa lo stesso. E si smetta di ricamare su sottintesi e ricatti - questi non ci interessano affatto. Fra l’altro, non sono nella nostra panoplia di possibilità, cosa, fra le non molte, che ci rallegra assai. E forse ci è invidiata.
La piattaforma di Rosy Bindi: "Diamo risposte alla protesta
o emergeranno personaggi pericolosi". "Non possiamo fare finta di niente"
"Tagliamo costi e privilegi
o la democrazia è a rischio"
di CLAUDIO TITO *
ROMA - "Il problema non è solo la manifestazione di Bologna. Ma le tante firme, la gente che ha fatto la coda per aderire. E se uniamo il tutto alle copie vendute dal libro "La casta", allora bisogna capire che siamo di fronte ad una ribellione contro la politica che va presa sul serio. Non possiamo far finta di niente". Beppe Grillo, il Vaffa-day, i privilegi della politica, gli stipendi dei parlamentari. Rosy Bindi li mette tutti in fila come anelli di un’unica catena che rischia di stritolare nella culla il nascente partito Democratico.
Per questo "dobbiamo dare una risposta". Non si può tacciare quel che accade come "qualunquista e demagogico". "Quando vado ai dibattiti, alla fine le domande della gente sono sempre le stesse: "perché noi non arriviamo alla fine del mese e voi vi arricchite?". E me lo chiedono anche alle Feste dell’Unità, perché il messaggio di austerità di Berlinguer è ancora vissuto sulla pelle da una parte del popolo della sinistra. E certe cose non vengono digerite". La sua risposta, allora, il ministro della famiglia già ce l’ha: abolizione del Senato, Camera con 450 deputati, dimissioni dei condannati, stop agli aumenti degli stipendi dei parlamentari, rimborsi spese sottoposti al controllo di una agenzia indipendente.
Ma perché la protesta di Grillo va presa così tanto sul serio? E soprattutto perché adesso?
"Perché o diventa una seria occasione di rinnovamento della politica o è chiaro che sarà l’anticamera dell’antipolitica".
Non lo è già?
"Non voglio usare toni apocalittici. Io ho vissuto in prima linea la stagione di tangentopoli. C’era una grande rabbia contro i corrotti, la rabbia ora è nei confronti di tutta la politica. So che nelle parole di Grillo ci sono venature qualunquiste e anche un po’ di volgarità, ma prima di liquidarle come ribellione antipolitica forse è il caso di chiederci se non sia una domanda di buona politica".
Eppure i suoi colleghi dell’Unione tengono a distanza il fenomeno Grillo.
"C’è sempre la tentazione di rimuovere".
E invece?
"E invece credo che il nostro 14 ottobre debba essere una straordinaria occasione per chiamare le persone a firmare per la buona politica e non contro la politica. Altrimenti - dopo aver suscitato attese - l’effetto non potrà che essere devastante".
Se vuole rispondere alla piazza bolognese, dovrà allora recepire le sue istanze.
"Siamo ancora in tempo a non legittimare il passato. Il governo, ad esempio, ha cominciato a ridurre le indennità dei ministri. Ma bisogna imprimere un forte cambiamento".
Nel concreto che vuol dire?
"Ecco le mie proposte: i parlamentari del Partito Democratico si dovranno impegnare a modificare la legge elettorale fino a dichiarare che non si candideranno con quella attuale. Immediata attuazione del nuovo titolo V della costituzione con la soppressione del Senato e l’istituzione di una Camera delle regioni. E così avremo 315 parlamentari in meno".
Ma ci saranno i membri di questa nuova Camera?
"Sì, ma si tratta di un’assemblea di secondo livello. E comunque ci dovremmo impegnare a ridurre del 30% anche i componenti della Camera dei Deputati. Ma non mi fermo qui".
Cioè?
"Dimissioni di chiunque abbia avuto problemi con la giustizia e quindi massima trasparenza per le liste elettorali del futuro. Interruzione immediata dell’indicizzazione delle nostre indennità. Solo noi e i magistrati abbiamo questo privilegio. Separazione netta tra indennità personale e rimborsi spese. Uno stipendio di 5000 euro va bene, i rimborsi vanno affidati ad una agenzia indipendente che valuti le finalità della spesa, verifichi se risponde ad un’attività politica o meno. Stesso discorso per la gratuità dei mezzi pubblici: vale per l’attività politica e non per i viaggi privati. Bisogna anche limitare i mandati e prevedere le primarie per tutti gli incarichi politici".
I suoi "colleghi" non saranno tanto contenti. Anche perché per fare la riforma elettorale serve un consenso che va oltre il Pd.
"Veniamo considerati dei privilegiati e quasi inutili per la comunità. Per questo ci chiedono quanto costa la politica. Dobbiamo spogliarci dei nostri privilegi. Il vitalizio, ad esempio, va dato a 65 anni e deve essere un’assicurazione privata. Va rivista anche la legge sui rimborsi elettorali e sui giornali di partito. Anche la vita "finanziaria" dei partiti andrebbe controllata di una agenzia indipendente. E sa perché faccio queste proposte? Perché ritengo che il finanziamento pubblico della politica sia necessario".
Sembrava il contrario.
"Per difendere il finanziamento pubblico bisogna correggere le distorsioni. Lo difendo perché altrimenti faranno politica solo i ricchi o quanti trovano dei finanziatori che però, prima o poi, presentano il conto".
Sembra quasi che lei voglia dire: attenzione se non sarò io il leader del Pd, tutto questo non accadrà.
"Mi auguro che nel Pd saremo in molti a pensarla così".
E se il Pd non seguirà questa linea?
"Guardi, Grillo può anche essere un provocatore, ma se ottiene questo consenso, seppure con accenti di qualunquismo, non si può pensare che tutto resti come prima. Io farò la mia battaglia su questo, in ogni caso".
Però anche nel Pd potrebbero risponderle che è facile richiamare la gente con il qualunquismo e la demagogia.
"Senza una politica autorevole la vita democratica di un Paese può correre dei rischi. La nostra sfida è quella di restituire dignità alla politica costruendo un partito nuovo. Un grande partito popolare e nazionale che non sia emanazione solo di una persona. Per questo va approvata una legga sulla regolamentazione dei partiti in attuazione dell’articolo 49 della Costituzione".
Lei chiede le dimissioni di chi ha avuto problemi con la giustizia. Ce ne sono anche nel centrosinistra. Vincenzo Visco è stato condannato per abuso edilizio. Dovrebbe dimettersi per questo?
"Io parlavo di corruzione e concussione. Il giustizialismo per me non è un valore, ma nel ’92-’94 quando la politica si rifiutò di autoriformarsi e si affidò alle aule dei tribunali, il risultato fu che arrivò Berlusconi. Come allora sono convinta che debba essere la politica a riformarsi".
Questa dunque dovrebbe essere la piattaforma del PD?
"Io penso che su questo si fonda il nostro futuro".
* la Repubblica, 10 settembre 2007.
Il ministro degli esteri: "Chi governa non fa i cortei contro il governo ma governa"
Per il leader della Quercia non ci saranno elezioni anticipate: "Solo propaganda"
Ministri in piazza, D’Alema
"Contraddizione insostenibile"
Mastella: "Anche se sfilano segretari di partito si apre un problema politico"
La Bindi: "Evitare ultimatum pretestuosi e fare ogni sforzo per tenere unita la coalizione"
TELESE TERME - I ministri non possono scendere in piazza e se lo fanno mettono in scena una incompatibilità insanabile. Il ministro degli Esteri Massimo D’Alema interviene, alla festa dell’Udeur a Telese Terme, sulla polemica in merito alla partecipazione di esponenti dell’esecutivo alla manifestazione del 20 ottobre contro il protocollo del Welfare promossa dalla sinistra radicale: "Se i ministri manifestano contro il governo questo pone dei problemi al governo. E’ una contraddizione insostenibile". E il ministro della Giustizia Clemente Mastella, sposando la tesi del leghista Calderoli, insiste: "Sarebbe un problema politico anche se i segretari di partiti della maggioranza andassero in piazza".
In particolare D’Alema sottolinea l’incoerenza di un eventuale simile gesto. "Il cittadino che va alla manifestazione chiederebbe a quel punto al ministro che è in piazza con lui: ’Allora ora perché non ti dimetti?’. E’ la loro posizione, della sinistra estrema, che diverrebbe contraddittoria e insostenibile".
La presenza dei ministri in un contesto di protesta, per D’Alema, "sarebbe un segno di debolezza e non di forza. Chi governa non fa i cortei contro il governo ma governa". Quanto alla possibilità di crisi di governo paventata ieri da Mastella, D’Alema ha precisato di non usare "l’espressione ’crisi di governo’ anche per ragioni scaramantiche".
"Elezioni anticipate? Propaganda". Il titolare della Farnesina scansa poi con decisione l’ipotesi di elezioni anticipate. "Non ci sarà nessuna elezione in primavera - ha precisato D’Alema - Ho l’impressione che gli annunci di Berlusconi siano come quelli delle sette religiose che fanno annunci che non si avverano mai. Insomma, è solo propaganda". Per il resto, il ministro precisa invece che "che la legislatura si va stabilizzando".
Mastella insiste. Se anche dunque fossero soltanto i segretari di partito a scendere in piazza "resta il problema politico, cioè l’idea di un partito di lotta e di governo. I partiti attuali possono scegliere la forma di governo, ma quando si è al governo si è al governo: si va in campo assieme per governare. Che i segretari di partito - continua
Quel cuore di tenebra dell’Italia
ALFIO CARUSO (La Stampa,12/8/2007)
Si dilata il cuore di tenebra di un Paese sempre più attratto dal peggio. Cresce l’Italia che tifa per Moggi o per Corona, per le Br o per Cosa Nostra, per i Borboni o per Previti, per chi incendia i boschi o i cassonetti della spazzatura, per chi blocca le autostrade o le stazioni ferroviarie, per il pluriomicida Battisti o per l’ex ergastolano Fioravanti, per gli evasori fiscali o per i profittatori di Stato, per il professore che frega la scuola o per il genitore che insulta la professoressa. Si procede, ormai, per strappi ulteriori. Dilaga il rifiuto di fare i conti con le proprie scelte. Quanti di voi, almeno una volta, non hanno udito, in risposta a una domanda scomoda, la celebre frase: ben altro è il problema? Esempio: se una parte della Chiesa è impestata dai preti pedofili, il suggerimento è di guardare ai pedofili delle altre religioni. Alla disperata, la responsabilità appartiene agli ebrei, ai massoni, ai radicalchic, ai bevitori di anisette, ai cultori della pesca con la mosca, agli autostoppisti.
Ognuno ha il proprio irregolare di riferimento e, benché le uniche regole calpestate siano spesso quelle del Codice penale, a costui affidiamo lo sfizio che c’induce al sovvertimento. Le motivazioni, lo spessore morale del nostro eroe contano quanto il due di spade con la briscola a oro: l’importante è stare contro, l’istinto è di prendersela con chi incarna il concetto di Istituzione. Pretendiamo persino di essere selettivi, di saper valutare fiore da fiore, dando ovviamente per scontato che soltanto il nostro meriti ogni indulgenza. Così, davanti alla magia dei Faraglioni di Polifemo succede di ascoltare l’appassionato comizio del dotto professore universitario: con il sostegno degli immancabili riferimenti in latino passa, lieve e ispirato, dalla strenua difesa delle ragioni storiche della mafia all’invettiva contro la Legge, incapace di sbattere Moggi dentro la cella più buia e di buttare la chiave.
Con micidiale indifferenza leggiamo sia le intercettazioni nelle quali i brigatisti elogiano l’omicidio di un poliziotto da parte dei presunti fascisti di Catania, sia dei cori contro la polizia echeggiati durante un’amichevole del Catania senza che qualcuno s’indigni, intervenga per farli cessare. Purtroppo la cultura dello «spertu e malandrinu» ha fatto proseliti. La famosa linea della palma avanzante, secondo Sciascia, di 500 metri all’anno è arrivata in vista delle Dolomiti. Stare continuamente in contatto con l’impudenza ha dilatato i confini dell’impunità: consideriamo normale che un inquisito sia nominato capo di gabinetto, componente della Corte dei conti, assessore. Della disavventura romana dell’onorevole Mele non stupiscono la cocaina e le ragazze a pagamento, bensì che Casini l’abbia candidato e tanti pugliesi l’abbiano votato, malgrado il suo coinvolgimento in una vicenda di tangenti, sperperate peraltro al casinò.
In difesa dall’accusa di aver favorito Provenzano, il gioviale Cuffaro, governatore della Sicilia, sostiene che incontrava il braccio destro del boss nel retrobottega di un negozio di Bagheria per concordare il nuovo tariffario sanitario. In un Paese normale la toppa sarebbe molto più grave del buco: significherebbe, infatti, che la Regione più spendacciona e con la peggiore sanità nazionale ha i costi delle convenzioni decisi da Provenzano. Tuttavia, chiamati a scegliere fra Cuffaro e la Borsellino, i siciliani non hanno avuto dubbi. Di conseguenza i capi delle famiglie mafiose sono tornati a occupare ruoli pubblici nei partiti come succedeva quando Salvatore Greco, il fratello di Michele, il papa, era segretario della Dc di Ciaculli.
Dall’alto di un’intolleranza accumulata in secoli di servitù abbiamo inventato la presunzione d’innocenza fino all’ultima sentenza, che in un sistema giudiziario dai tempi biblici significa dimenticarsi la colpa e il colpevole. Dentro la pseudoculla del diritto lo stracitato in dubio pro reo dei romani si trasforma nell’assoluzione di tutti i rei. La Storia ci racconta che in occasioni eccezionali un pirata può diventare baronetto, non che tutti i pirati devono diventare baronetti. Solo in Italia s’ignora che il passato ci precede, dunque don Gelmini e i suoi estimatori pensavano che bastasse cancellarlo per esserne esenti. La televisione insegna che siamo i cavalieri del bene o le vittime del sistema. Per male che vada, la si può buttare in politica. A eccezione di Salvatore Giuliano, il giochino finora è riuscito a tutti.
LA PAROLA DI KAVAFIS
di GIULIO VITTORANGELI *
Nel nostro pensare affannoso, consideriamo le parole cosa seria da utilizzare con liberta’ senza inutili sprechi. Le parole sono forme del linguaggio, forme d’espressione; significano, indicano, commuovono, diventano idee, frecce conficcate nella ruvida pelle della realta’. Per tutto questo non dovrebbero mai essere usate per non farsi capire, per non dire niente, o peggio, per stravolgere la realta’ raccontando bugie.
"Durante gli anni del potere berlusconiamo eravamo in tanti a ritenere che il massacro della verita’ fosse una sua prerogativa. Assistevamo a spudorate violazioni del diritto e alla contestuale lamentazione di presunte offese subite. E pensavamo che ’noi’ non avremmo fatto lo stesso: ’noi’, una volta alla guida del paese, non avremmo fatto strame della verita’. Ci sbagliavamo. Stiamo affogando in un mare di bugie. Anche questo fatto costringe a chiederci che cosa sia nato prima, se Berlusconi o lo spirito di questi tempi. Non si tratta soltanto di deformazioni, di omissioni, di travisamenti ed edulcorazioni. Questo sarebbe semplicemente ’ideologia’, gemella della politica. Siamo al rovesciamento delle cose e alla creazione di un’altra realta’" (Alberto Burgio, sul "Manifesto" del 26 luglio 2007).
Anche Annamaria Rivera, alcuni mesi fa, aveva espresso un concetto molto simile, sottolineando la progressiva perversione del linguaggio e della comunicazione che accompagna il governo Prodi, e che lascia allibiti.
Se lo stile berlusconiano era all’insegna della menzogna aperta, trasparente e fanfarona, quello dell’attuale governo e dei suoi partiti ha qualcosa di orwelliano e contorto, al tempo stesso grottesco. Quando le parole sono usate a stravolgere l’esperienza e la realta’ fanno piu’ danni perfino dei contenuti delle politiche. Non solo perche’ ingannano i cittadini, considerandoli incapaci di farsi un’idea della realta’, ma soprattutto perche’ minano profondamente il rapporto fra i cittadini e le istituzioni, e alimentano sfiducia.
Occultare la dura realta’ delle concessioni - obbligate, ci dicono, e forse talvolta in parte e’ vero - ai poteri forti e agli orientamenti "moderati" (un altro termine da abolire) con il ricorso a formule autoconsolatorie ed ingannevoli - quale la litania della "discontinuita’" - e’ una forma di perversione della comunicazione a lungo andare autolesionista.
Salutare con entusiasmo la furbesca relazione del ministro degli esteri sulla politica internazionale come una scelta limpida e avanzata in favore del "multilateralismo" (un’altra parola magica: una guerra puo’ essere multilaterale e nondimeno resta illegittima, ingiusta, sanguinosa) e’ far torto alla propria storia politica e all’intelligenza degli elettori. Risultato: la "bonta’" della guerra; diventata "democratica", "umanitaria", "operazione di polizia", ecc. Cosi’, anche il conflitto fra capitale e il lavoro ha subito uno scivolamento semantico, sparendo il capitale e restando il lavoro come problema di solidarieta’ con i meno fortunati, salariati a vari livelli e, salvo i dirigenti, tutti retribuiti meno d’una volta e sempre piu’ precari.
La verita’ e’ che nel liberismo spinto in cui siamo, con permanenti delocalizzazioni e in preda alla speculazione finanziaria, ne’ l’occupazione ne’ il potere d’acquisto dei salariati possono essere protetti; mentre la pace e’ un disvalore non essendo funzionale allo "sviluppo" ed alla "ripresa economica".
Noi restiamo profondamente convinti che le parole non sono fatte "di carta", ma di vita; della carne viva di uomini e donne. Per questo continuiamo a cercare quelle parole che interpretano e capiscono i fatti e provano a cambiarli; quelle parole che diventano azione e, una volta gettate sulla platea della storia, si traducono in movimento; quelle parole che portano con se un’idea di politica che si oppone alle miserie retoriche e alle menzogne travestite da strategie del bushismo contemporaneo, anche di casa nostra.
"Spesso osservo quanto poco interesse affidano gli uomini alle parole. Mi spiego meglio. Un uomo semplice (e con "semplice" non intendo sciocco) ha un suo modo di vedere, ma sa che la grande maggioranza ragiona in modo antitetico, e tace, credendo che non giovi parlare, credendo che - con le sue parole - non cambiera’ niente. E’ un grande errore. Io agisco diversamente. "Condanno, ad esempio, la pena di morte. Appena mi si presenta l’occasione lo dico apertamente, non perche’ sia convinto che, esprimendo la mia opinione, gli Stati subito, domani, l’aboliranno, ma perche’ credo che dicendo il mio parere possa contribuire al trionfo della mia idea. Il mio discorso non va perduto. Forse qualcuno lo ripetera’ e cosi’ potra’ raggiungere le orecchie di alcuni che lo ascolteranno e lo sosteranno. Puo’ darsi che, tra quelli che adesso non sono d’accordo, qualcuno se ne ricordera’ - in un momento opportuno - nel futuro, e in occasione di altre situazioni, e che sia poi convinto con il supporto di altre circostanze, e che sia scossa la sua precedente convinzione contraria.
"Cosi’ avviene anche in diverse altre questioni sociali, in alcune nelle quali e’ indispensabile l’azione. So di essere codardo e di non poter agire. Per questo soltanto. Ma non credo che le mie parole siano superflue. Agira’ un altro. Ma le mie molte parole - le parole di un vile - serviranno per l’azione. Spianano il terreno". (Costantino Kavafis, 19 ottobre 1902).
* NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 167 del 31 luglio 2007
Quei 425 milioni della Fininvest che macchiano anche Berlusconi
di Giuseppe D’Avanzo ( la Repubblica, 14 luglio 2007)
La sentenza che permise a Silvio Berlusconi di sottrarre la Mondadori al Gruppo Espresso-la Repubblica fu comprata con 425 milioni di lire forniti dal conto All Iberian di Fininvest a Cesare Previti e poi, dall’avvocato di fiducia di Silvio Berlusconi, consegnati al giudice Vittorio Metta. La Cassazione condanna definitivamente Cesare Previti, il giudice corrotto e, quel che soprattutto conta, rimuove una patacca che è in pubblica circolazione da due decenni.
L’uomo del fare, Silvio Berlusconi, è l’uomo del sopraffare, del gioco sottobanco, della baratteria illegale. La sentenza dimostra la forma fraudolenta e storta della sua fortuna imprenditoriale. Mortifica la koiné originaria con cui Berlusconi si è presentato al Paese ricavandone fiducia e consenso, entusiasmandolo con la sua energica immagine di imprenditore purissimo capace di rimettere in sesto il Paese - e rimodellarne il futuro - con la stessa sapienza e determinazione con cui egli aveva costruito il suo successo, conquistato aziende e quote di mercato, sbaragliato i competitori.
Berlusconi, se non sapeva delle manovre di Previti (e non si può dire il contrario), è stato un gonzo e, nella sua formidabile ingenuità, ha trascinato il Paese e le sue regole verso la crisi per difendere un mascalzone che soltanto agli occhi del Candido di Arcore appariva un maestro del diritto e un martire della giustizia.
La sentenza della Cassazione scolpisce dunque un’altra biografia di Berlusconi. Ci dice che non è oro quel che riluce nella sua storia imprenditoriale. Sapesse o non sapesse quali erano i metodi criminali del suo avvocato, il profilo di imprenditore dell’uomo di Arcore ne esce irrimediabilmente ammaccato, deformato. La sua Fininvest ha barato. Il suo avvocato giocava con carte truccate.
I fatti sono noti.
Il lodo arbitrale Mondadori risale al 21 giugno 1990. Riguarda il contratto Cir-Formenton. La decisione è assunta dai tre arbitri, Carlo Maria Pratis, Natalino Irti e Pietro Rescigno, incaricati di dirimere la controversia tra Carlo De Benedetti e la famiglia Formenton per la vendita alla Cir da parte dei Formenton di 13 milioni 700 mila azioni Amef (il 25,7% della finanziaria che controlla la Mondadori) contro 6 milioni 350 mila azioni ordinarie Mondadori. Il lodo è favorevole alla Cir e dà a De Benedetti il controllo del 50,3% del capitale ordinario Mondadori e del 79% delle privilegiate. Berlusconi perde la presidenza che va pro tempore al commercialista Giacinto Spizzico, uno dei quattro consiglieri espressi dal Tribunale, gestore delle azioni contestate.
Il 24 gennaio 1991, la Corte d’Appello di Roma presieduta da Arnaldo Valente e composta dai magistrati Vittorio Metta e Giovanni Paolini dichiara che una parte dei patti dell’accordo del 1988 tra i Formenton e la Cir è in contrasto con la disciplina delle società per azioni. Quindi, è da considerarsi nullo l’intero accordo e anche il lodo arbitrale. Berlusconi riconquista la Mondadori.
Vittorio Metta è il giudice corrotto da Cesare Previti, dice ora la Cassazione. Delle due, l’una. Se sapeva, Silvio Berlusconi è un complice che si è salvato soltanto perché, per le sue pubbliche responsabilità politiche, è parso meritevole delle "attenuanti generiche" così accorciando i tempi di prescrizione e uscendo dal processo qualche anno fa. Se non sapeva, l’esito non è che sia più gratificante. Perché bisogna concludere che l’ex-presidente del Consiglio non è poi l’aquila reale che ama dipingersi. Ha accanto un lestofante. Non se ne accorge. Ne è beffato, ingrullito per anni, per decenni, nella sua totale insipienza. Gli affida «un mandato professionale molto ampio per rappresentare la persona fisica come il gruppo Berlusconi». Lo ha raccontato lo stesso Previti: «Io rappresentavo il dominus per le questioni legali, sceglievo gli avvocati, esaminavo nei dettagli tutti gli argomenti che avremmo usato e anche le persone e le operazioni da organizzare nelle varie situazioni».
E’ un ruolo occulto, segretissimo e non se ne comprende la ragione (l’evasione fiscale non può spiegare tutto). Non c’è (né Previti lo ha mostrato in anni di processi) un solo documento processuale che porta la sua firma: un atto di citazione, una comparsa di risposta, una memoria conclusiva, un parere giuridico, un atto di transazione; come non esiste neppure (né è stata mostrata) una fattura, una ricevuta informale, un estratto dei libri contabili di Fininvest, un qualsivoglia documento che attesti la causale dei pagamenti effettuati da Finnvest a favore di Cesare Previti.
Berlusconi poteva non sapere di essersi tenuto in casa per decenni quel mascalzone. Meglio, gettiamo una buona volta ogni sospetto o incredulità e diciamolo chiaro. Silvio Berlusconi non sapeva, non ha mai saputo né immaginato per un attimo che ceffo fosse Previti e quali i suoi metodi di lavoro. L’uomo di Arcore era così accecato dal suo candore, dall’amicizia per il suo fedele sodale, che quando ne ha la possibilità, 1994, propone addirittura quel corruttore di giudici come ministro di Giustizia. Il Paese si salva per l’ostinazione di Oscar Luigi Scalfaro che dirotta il malfattore alla Difesa. E, nonostante il segnale e la documentazione offerta dalla magistratura, nemmeno allora Silvio Berlusconi nella sua assoluta dabbenaggine si scuote. Si può dire che una volta ritornato al governo - per salvare se stesso, è vero, ma anche e soprattutto il suo complice, che è più esposto per le indagini e per le prove raccolte - assegna a se stesso la missione di gettare per aria codici, procedure, tribunali, ordinamenti, accordi internazionali al fine di evitare guai all’avvocato che credeva immacolato. Il Parlamento che Berlusconi governa con una prepotente maggioranza non lascia intoccato nulla. Cambia le prove, se minacciose. Il reato, se provato. Prova a cacciare i giudici, a eliminare lo stesso processo. Non ci riesce per l’opposizione di un’opinione pubblica vigile, per l’intervento della Corte Costituzionale che protegge le regole elementari dello Stato di diritto e il sacrosanto principio della legge uguale per tutti. Meno male, ma il respiro di sollievo non può riguardare Silvio Berlusconi. Per anni ha spaccato il Paese usando come cuneo il processo all’avvocato-barattiere che egli riteneva un "figlio di Maria". Ora qualcosa l’uomo di Arcore dovrà pur dire perché purtroppo qualcosa, questa sentenza, dice di lui. Nella sua credulità, Silvio Berlusconi ha procurato un danno a se stesso, e tant’è, ma nella cieca fiducia che ha avuto per un avvocato fraudolento egli ha arrecato danno alla politica, alle istituzioni. Forse è una buona idea che dica in pubblico che è stato preso in giro e se ne dispiace.
Il miasma di Weimar
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 15/07/2007)
Difficile dire come mai quel che ultimamente vediamo sui telegiornali pubblici e privati non ci impressioni più di tanto. Accade ogni sera, ed è ormai pane quotidiano della politica, dell’informazione.
Il capo dell’opposizione, Silvio Berlusconi, gesticola su un pulpito nel mezzo d’una piazza e dichiara morto il governo definendolo illegittimo, figlio di brogli, erede di criminose ideologie defunte. Fa un comizio dopo l’altro davanti a folle enormi che lo osannano, come se fossimo nel cuore infiammato di una campagna elettorale. Probabilmente l’evento non ci impressiona perché siamo abituati al controsenso eretto a sistema. Perché la cultura dell’instabilità che avevamo riguardo a inflazione e moneta s’è trasferita nella politica. Perché la storia a noi dice poco, e le instabilità nostre non ci ricordano instabilità - come quella di Weimar - che altrove rimangono un’ossessione.
Se fossimo visitatori stranieri, quel che succede ci riempirebbe di stupore, d’incredulità. Infatti non siamo in mezzo a una competizione elettorale, il Parlamento non è sciolto, il governo sta governando a fatica ma governa. Berlusconi è solo, a gesticolare sui podi di Napoli o Lucca. Non ha rivali, come usa nelle campagne elettorali: oggi per i rivali è tempo di governo, non di comizi e conquista del potere. Lo straniero avrebbe non poche ragioni per domandarsi se per caso l’Italia non stia deragliando. Se non stia scostandosi da quel principio essenziale della ragione che è il principio di non contraddizione. Non si può al tempo stesso dire che l’uomo è animale bipede e il contrario: «niente simultaneamente può essere e non essere», insegna Aristotele.
Invece da noi no. C’è chi governa da oltre un anno e c’è chi fa finta che no, e agisce come se al comando non ci fossero che ombre usurpatrici o immaginarie. È menzogna illusionista, ma Berlusconi ha il talento di trasformare le menzogne in verità condivise dai più. Con tale dote suscita poteri opposti a quelli legali sino a farli apparire e renderli reali: poteri delle piazze, dei sondaggi, dei media, di corpi separati dallo Stato appunto come a Weimar. Per capire come fa, bisogna mettersi nelle vesti dell’osservatore straniero - condividere la sua capacità di stupirsi, d’interrogarsi - e cercare di penetrare lo speciale potere di persuasione esercitato dal leader dell’opposizione.
È un potere ben conosciuto da chi ha studiato la potenza delle masse, della pubblicità, della propaganda. Già nel 1895, quando scrisse la Psicologia delle folle, Gustave Le Bon - medico di formazione - indicò i tre ingredienti del fascino sprigionato dal meneur des foules, dal trascinatore di folle: l’affermazione che non tollera confutazioni anche se falsa; la ripetizione ininterrotta dell’affermazione; il contagio. Tutti ingredienti presenti nell’agire di Berlusconi, che per prosperare non possono fare a meno di una permanente campagna elettorale, fondata su un vuoto o un passaggio di poteri ingannevoli. Dice Le Bon: i trascinatori «tendono a rimpiazzare progressivamente i poteri pubblici a misura che questi sono messi in discussione e s’indeboliscono». I poteri pubblici non sono solo indeboliti: Berlusconi li dà per morti.
Ma il controsenso non nasce solo dalla discordanza fra governo e conquista del potere. Anche se fossimo in campagna elettorale, l’osservatore straniero si stupirebbe parecchio. Innanzitutto per la violenza, inaudita, che emana dalle folle aizzate (venerdì, a Napoli, Berlusconi ha incitato ad agire un «esercito delle libertà»). Poi per offese che altrove son tabù. Se la folla urla oscenità contro Prodi, Berlusconi non la frena ma la sprona: «Siete lievemente rozzi ma efficaci». Come in Elias Canetti, la ferocia distruttiva degenera in muta animale, se lusingata.
Le Bon spiega come il trascinatore sia a sua volta un trascinato: può esserlo da un’idea fissa e da dottrine nazionaliste, socialiste, o da entrambi. Nel caso di Berlusconi accade l’inedito: la folla, solitamente non mossa da interesse privato (è il singolo ad avere interessi personali) innalza la rivendicazione particolare a interesse collettivo. Nella Psicologia delle folle questa possibilità è contemplata: il capopopolo può essere motivato da privati interessi.
La piazza che un tempo era cruciale per l’ipnotizzatore delle masse è oggi la televisione, oltre alla stampa. Anche su di loro, dunque, s’esercita la triplice potenza dell’affermazione, della ripetizione, del contagio. Anch’esse scambiano per verità l’immagine incantatoria d’una competizione elettorale incessante, d’un governo inesistente, comportandosi spesso come poteri che dall’esterno indeboliscono l’autorità pubblica. Più di un anno è passato dalle legislative, e i notiziari tv non son cambiati. In teoria c’è differenza tra Rai e reti private, di Berlusconi. In realtà, il leader di mercato è tuttora Mediaset e Mediaset dà lo standard, come se non ci fosse stata alternanza: in televisione come in altri corpi dello Stato il governo è di Prodi ma il potere resta di Berlusconi (non pochi suoi uomini d’altronde sono oggi consiglieri ministeriali). Se il governo passa una legge con il voto di un senatore a vita, la televisione lo presenta come patologia (inutile ricordare che anche Berlusconi s’avvalse dei senatori non eletti: il 18 maggio ’94 il suo governo ottenne la fiducia per un solo voto, grazie ai senatori a vita Agnelli, Cossiga, Leone).
Vorremmo citare il Tg1, e in particolare il notiziario di venerdì sul voto al Senato della riforma della giustizia. La cosiddetta pratica del panino resta immutata: il tg apre con dichiarazioni di Castelli della Lega, di Fini e Matteoli di An, di Schifani di Forza Italia (12,47 minuti). Seguono Finocchiaro, Salvi e Mastella, della maggioranza (38 secondi). Chiude il comizio di Berlusconi a Lucca (1 minuto). È la normalità, non un’eccezione: la Rai si ritiene obbligata a offrire lo stesso prodotto del concorrente. Obbligata da chi? Da un istinto fortemente legato al contagio. Nulla è più contagioso della menzogna e dell’immagine chimerica, conclude Le Bon: «Le folle non hanno mai sete di verità. Deificano l’errore. Chiunque le disillude tende a divenire loro vittima».
Il contagio per definizione trasmette l’infezione a tutti, compresi i sani e la città intera: infetta l’opposizione e i suoi tifosi, ma anche sindacati e esponenti della maggioranza. Esponenti d’estrema sinistra che impediscono al governo di decidere. Esponenti di centro che prospettano - come Rutelli - coalizioni alternative senza dire che qualsiasi alternativa, per necessità numerica, includerà i berlusconiani. È l’imperio del miasma, che nella Grecia antica è una misteriosa esalazione che s’espande a causa d’una colpa o un male banalizzato. Il male è quell’interesse personale trasfigurato in interesse collettivo, unito alla convinzione che il governo legale abbia tradito la nazione con pugnalate alla schiena e di conseguenza non sia legittimo.
Esattamente come a Weimar sono tanti a esserne contaminati, nonostante l’oggi non sia mai identico a ieri. Ma il presente può somigliargli, anche se i colpevoli non sono quelli evocati da Ostellino sul Corriere di ieri. Non furono i socialdemocratici a sovvertire Weimar ma i comunisti e i corpi separati (esercito, Freikorps). Oggi come allora, comunisti e destre rivoluzionarie sono di fatto alleate, prigioniere del medesimo miasma. A Weimar l’alleanza fu evidente. A partire dal ’28 i comunisti seguono Stalin, scelgono i socialdemocratici come nemico primario, e nonostante cronici scontri con milizie hitleriane concordano azioni eversive con i nazional-socialisti: referendum contro il governo socialdemocratico in Prussia (1931); comuni mozioni di censura (1932 contro von Papen); sciopero di trasporti e picchettaggi congiunti (autunno ’32); mozione comunista, appoggiata da Hitler, contro il rilancio economico di von Papen (dicembre ’32); mozione che scioglie il Parlamento nel ’32.
L’abitudine al controsenso minaccia anche il rimedio alla distruttività delle folle, che Le Bon individua nell’esperienza. Ma l’esperienza agisce assai lentamente: «Solo se vien fatta su larga scala e ripetutamente». Non ne basta una, come credeva Montanelli, e sovente l’esperienza d’una generazione non vale per le successive. Non basta sapere che Berlusconi ha esorbitanti conflitti d’interesse ed è stato indagato più volte, se c’è miasma e il privato interesse viene deificato. Se c’è miasma Berlusconi appare come vittima immacolata, anche se assolta con formule dubitative e colpevole di numerosi reati prescritti. Effetto del miasma è che non se ne tiene conto. Che i fatti vengono sottratti alla vista, come scrive Marco Travaglio. L’impunità è quel che consente alla folla di inferocirsi senza rischiar nulla, osserva Le Bon. Mimetizzandosi con essa, Berlusconi molto freddamente ne profitta.
Pollari vorrebbe "chiarire" ma può dire la verità al processo di Milano, alla procura di Roma, al Copaco
I parlamentari della commissione d’inchiesta sarebbero alla mercè delle versioni di comodo
La Grande Spia tenta l’ultimo ricatto
Lo scontro esce dai "sotterranei"
di GIUSEPPE D’AVANZO *
ROMA - Nicolò Pollari, appena ieri lo spione più amato dalla politica italiana, si dice "pronto a raccontare i misteri d’Italia dagli anni Ottanta ad oggi, nonostante l’atmosfera di regime". Non si accontenta delle stanze chiuse della commissione di controllo sui servizi segreti (Copaco). Sono troppo protette, dice, e i commissari vincolati alla riservatezza per quel che ascoltano e accertano. Insomma, da quelle stanze lo spione non può parlare "ai cittadini", come si è messo in testa di fare.
Manco fosse un caudillo e non un funzionario dello Stato che, potentissimo agente segreto, ha lavorato nel "regime" e per "il regime". Curioso per uno spione, la segretezza è oggi un deficit per Pollari. Egli vuole che si sappia che cosa svela e insinua e manipola (è quel che solitamente gli riesce meglio). Attraverso un bizzarro "portavoce" (il senatore Sergio De Gregorio, che fa lo stesso mestiere per il generale Roberto Speciale) chiede allora la platea più visibile e sensibile, una illuminatissima commissione d’inchiesta parlamentare.
Lo spione sa che ogni iniziativa politica, se agitata nello spazio mediale e con la voce dei media, può fare a meno di autenticità e fondatezza (basta ripensare alle commissioni Telekom Srbija e Mitrokhin). Alle prese di venti deputati e venti senatori che, si possono immaginare, inesperti dei metodi e delle strategie di un’intelligence così controversa, e addirittura non consapevoli della cronologia degli avvenimenti, Pollari avrebbe l’opportunità in prima battuta di scrivere a mano libera il copione. Di graduare, secondo necessità, il potere di pressione e di condizionamento che si è assicurato nel tempo intrattenendo rapporti non convenzionali con entrambi gli schieramenti politici.
Che domande potrebbero fargli i quaranta parlamentari? Dovrebbero soltanto ascoltare la "sua" verità (a Pollari non piace avere contraddittori), le sue mezze verità e mezze menzogne e, in attesa di definire la fondatezza del suo racconto, un caos fangoso schiaccerebbe ogni possibilità di fare luce. E’ la condizione che, per il momento, sconsiglia la commissione d’inchiesta, strumento che offre molte opportunità a chi deve spiegare che cosa ha combinato e molte poche a chi deve accertarlo.
Appena l’altro giorno si diceva che il gioco sarebbe stato nelle mani degli spioni e non del Parlamento. E tuttavia chi poteva attendersi che le minacciose intenzioni di Pollari sarebbero venute allo scoperto, con tanta fretta, nell’allusiva forma del ricatto? L’iniziativa dell’amatissimo spione non è altro. E’ un chiassoso ricatto che ha il pregio, per così dire, di rendere chiara e concreta qualche circostanza, anche a chi per convenienza o spensieratezza o arroganza finora l’ha negata.
L’"agglomerato oscuro", legale e clandestino, nato nella connessione abusiva dello spionaggio militare (Sismi) con diverse branche dell’investigazione della Guardia di Finanza (soprattutto l’intelligence business) in raccordo con la Security di grandi aziende come Telecom e il sostegno di agenzie d’investigazione private che lavorano in outsourcing, si è "autonomizzato". Lavora per sé, secondo un proprio autoreferenziale interesse e non più, come nel passato, al servizio di questo o quell’utile politico, di questa o quella consorteria politica. La scandalosa deformità s’era già avvistata.
Si immaginava però che il ritorno sul "mercato della politica" dell’"agglomerato" con la sua massa critica di potenziali ricatti si sarebbe consumato, come di consueto, in quei sotterranei dove le fragili "power élite" italiane si proteggono, si rafforzano, si difendono, si accordano. L’eterogenesi dei fini ha rotto lo schema. Lo scontro Visco/Speciale ha costretto il governo di centro-sinistra a dubitare del patto di non-aggressione tacitamente sottoscritto con il network spionistico.
Il Consiglio superiore della magistratura, con il documento approvato con discrezione dal capo dello Stato, ha spinto il confine ancora più in là mettendo sotto gli occhi della società politica una minaccia per un democrazia ben regolata. Il ceto politico non ha potuto lasciar cadere, come d’abitudine, la questione e - pur nella diversità degli strumenti da usare - è stato costretto a impegnarsi a fare verità e chiarezza. Pollari, come ieri il fido Roberto Speciale, ha cominciato a vedere davanti a sé un tritacarne e la catastrofe.
Se Speciale ha pensato di salvarsi sollevando un’inchiesta giudiziaria e quindi "giudiziarizzando" il conflitto con il governo, Pollari è stato costretto a venire allo scoperto abbandonando il "sotterraneo" dove si trova più a suo agio. Imputato a Milano e indagato a Roma, è stato costretto a "politicizzare" la sua avventura e il suo destino. Sollecita così, per i canali politici che ancora gli restano, la nascita di una commissione d’inchiesta che gli permette o di far saltare il tavolo o di ridurre al silenzio i suoi critici di oggi (e magari amici di ieri).
Ora è evidente che il ricatto dello spione non può essere accettato. Deve essere accettata la sua disponibilità a testimoniare. Nicolò Pollari dica quel che sa, ma non gli sia consentito di farlo a ruota libera, senza alcuna regola, in un rapporto diretto con l’emotività dell’opinione pubblica, lontano da una pratica che sappia accertare fatti e responsabilità prima di giungere a un qualsiasi esito. Ci sono tre sedi in cui Pollari può liberare la sua ansia di verità (si fa per dire). Il Palazzo di Giustizia di Milano, dove è imputato per il sequestro di un cittadino egiziano. La procura di Roma che lo indaga per l’ufficio di disinformazione e dossieraggio di via Nazionale.
Dinanzi all’autorità giudiziaria Pollari (come chiede) può liberarsi del segreto di Stato senza alcuna autorizzazione governativa, perché la Costituzione privilegia il diritto di difesa dell’imputato rispetto al segreto di Stato. Pollari può farlo dunque da subito. Lo faccia. C’è una terza sede, politica, istituzionale. E’ il comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti. Chieda di essere ascoltato. Non c’è dubbio che lo ascolteranno di buon grado e con i tempi adeguati. In quel contesto, e con le opportune norme di riservatezza, le sue parole possono essere tenute nel giusto conto, analizzate, verificate.
Il Copaco ha strumenti d’indagine limitati? Non ci vuole molto per rafforzarli (se il Parlamento vuole), ma per intanto il comitato ha competenza e la memoria (si vedrà se la voglia) per discernere, nel racconto di Pollari, il grano da loglio anche con il contributo della documentazione che saprà offrire l’ammiraglio Bruno Franciforte, oggi a capo del Sismi. Sempre che Pollari non si sia portato dietro l’archivio. Addirittura dagli anni Ottanta ad oggi.
* la Repubblica, 9 luglio 2007
L’ANALISI
La rete di dossier a uso del Palazzo
di GIUSEPPE D’AVANZO *
LA LINEA di difesa apprestata da Pio Pompa, Nicolò Pollari e, incautamente, sposata da Silvio Berlusconi è fragile. Si dice - lo dice Pollari nel "messaggio alla nazione" ospitato dal Tg5; lo sottoscrive Pio Pompa in una dichiarazione spontanea al pubblico ministero; lo conferma Berlusconi in una nota - le informazioni raccolte nell’ufficio riservato di via Nazionale non sono altro che una collazione di notizie reperibili da chiunque nei giornali e in Internet (Pollari).
Null’altro che "materiale elaborato sulla base di notizie tratte da fonti aperte" (Pompa). "Un tipico monitoraggio delle cosiddette "fonti aperte" che non ha in sé all’evidenza, alcunché di illecito" (Berlusconi). Il sentiero è molto sdrucciolevole. È una linea di difesa destinata a sgretolarsi contro i fatti. L’archivio, contrariamente a quanto si vuol far credere, raccoglie informative di "fonti" infiltrate dal Sismi - contro la legge - negli uffici giudiziari, nelle redazioni, nelle burocrazie dello Stato, nelle Forze Armate. Altro che "fonti aperte". Dimostrarlo è alquanto agevole. Come è comodo verificare se i dossier calunniosi raccolti da Pompa e Pollari precedono (e non seguono) le notizie di stampa. Tre magistrati italiani, giudicati "pericolosi" dal governo, vincono un concorso per lavorare nell’organismo europeo antifrode (Olaf). Un dossier raccoglie le loro storie, passa al setaccio famiglie, rete di relazioni, le loro opinioni e scritti. Lo spoglio di queste informazioni diventa materia per una campagna di aggressione giornalistica che consente all’esecutivo di non nominarli nel loro incarico.
È questo il metodo messo a punto da Pollari, deciso a servire il suo leader politico del momento. Tracce di questo programma di discredito - dossier e campagna di stampa di cui l’esecutivo si avvale per proteggere se stesso o eliminare coloro che crede "nemici" - si possono individuare senza affanno nell’archivio di Pompa e Pollari. Qualche "caso" è limpido e clamoroso. Nell’ufficio riservato del Sismi in via Nazionale si raccolgono fin dall’estate del 2001 (Pollari, vicedirettore del Cesis, si prepara a diventare direttore del Sismi) notizie e "appunti" (falsi) su una sorta di "internazionale delle toghe rosse", che si riunisce segretamente e coordina le sue iniziative per delegittimare, inquisire, arrestare Silvio Berlusconi. Ne fanno parte i pubblici ministeri di Milano, un paio di procuratori spagnoli, ex-magistrati diventati parlamentari europei. Questa fanfaluca prende corpo nei media qualche mese dopo, alla fine del 2001. Il momento non è irrilevante. In novembre Cesare Previti ricusa, per la prima volta, i giudici di Milano.
Qualche settimana dopo, Lino Jannuzzi, columnist di Panorama, ripreso con gran risalto dal Giornale, svela che "la settimana scorsa in un albergo di Lugano sono stati visti Elena Paciotti, parlamentare europeo dei Democratici di sinistra; Ilda Boccassini, il pubblico ministero che sostiene l’accusa contro Silvio Berlusconi e Cesare Previti; Carla Del Ponte, la procuratrice europea che sta processando Milosevic, e Carlos Castresana, procuratore anticorruzione di Madrid". "È scontato - riferisce Jannuzzi - che i quattro di Lugano "collaborano" per trovare il modo di arrestare Berlusconi".
È un falso. Quella riunione non c’è mai stata. La Boccassini non ha mai incontrato o conosciuto Castresana; non vede la Paciotti da anni; non incontra la Del Ponte da sette mesi. La Paciotti non va a Lugano da venti anni; ha incontrato soltanto una volta, e anni fa, Carla Del Ponte; non conosce Carlo Castresana. La Del Ponte, in quella settimana, non era a Lugano, Svizzera, ma ad Arusha, Tanzania, sede del Tribunale internazionale. Castresana "non ha mai partecipato a nessuna riunione di questo genere né a Lugano né altrove, né la scorsa settimana né mai".
Tuttavia la "bufala" costruita dal Sismi, veicolata dal settimanale della Mondadori, casa editrice del presidente del Consiglio, con la collaborazione del Giornale, quotidiano del fratello del presidente del Consiglio, con un articolo firmato da Lino Jannuzzi, senatore di Forza Italia, partito del presidente del Consiglio, apre la strada a nuove richieste di ricusazione e mostra la necessità della legge sulle rogatorie che vuole eliminare le fonti di prova raccolte all’estero contro Berlusconi e Previti. Altro che "fonti aperte".
Nel lavoro segreto e illegittimo dell’intelligence militare nascono e si coltivano le muffe che avvelenano poi il dibattito pubblico. Creano il clima "giusto" per iniziative legislative che poi il governo proporrà al Parlamento e la maggioranza approverà. Naturalmente questo non vuol dire che sia stato Berlusconi a ordinare al Sismi quel "lavoro sporco". Perché escludere che fosse in buona fede? Perché escludere che Pollari confezionasse dossier di notizie fasulle in grado di dare concretezza ai fantasmi e alle paure dell’allora capo del governo? Per il momento si può dire soltanto che Berlusconi si avvantaggia del lavoro illegittimo del Sismi.
Si comprende dunque perché oggi negando ogni responsabilità per "schedature e monitoraggi" abusivi, l’ex-presidente del Consiglio difenda la correttezza di Pollari. La sua sortita appare una risposta diretta alla richiesta di una commissione parlamentare d’inchiesta avanzata dal ministro della Giustizia. Clemente Mastella - non lo ha mai negato - è un buon amico di Pollari. I maligni sostengono che, dietro la richiesta del ministro, lo staff di Silvio Berlusconi abbia intravisto un’iniziativa minacciosa di Nicolò Pollari, intenzionato a non finire da solo nel tritacarne che lo attende (l’avvocato di Pollari, che è anche consigliere personale di Mastella, si è detto subito entusiasta della commissione d’inchiesta). E’ un buon motivo per prendere la parola; rassicurare il "capo delle spie" nei guai; escludere ogni personale responsabilità; chiarire addirittura che non c’è "alcunché di illecito" di cui sentirsi responsabili.
Quali che siano le ragioni che abbiano convinto Berlusconi a farsi avanti, e nonostante il via libera di molti (da D’Alema a Di Pietro), la commissione d’inchiesta appare oggi più un’arma brandita contro il sistema politico (o meglio contro quei segmenti di sistema politico che hanno intrattenuto rapporti non convenzionali con il Sismi di Pollari), che non lo strumento necessario per accertare fatti e responsabilità. Le commissioni parlamentari d’inchiesta, da Telekom Serbjia a Mitrokhin, sono state l’occasione per seppellire la verità, inquinare le storie, lanciarsi in operazioni di discredito degli avversari politici. Con l’inevitabile protagonismo che avrebbero nei lavori della nuova commissione gli uomini e gli archivi di un Nicolò Pollari con l’acqua alla gola (imputato a Milano e indagato a Roma, rischia condanne per una decina di anni), un mare di fango, di dossier fasulli, di "appunti" indecenti sommergerebbe il Parlamento allontanandolo da ogni possibilità di fare luce.
Le "carte" (vere, false) le distribuirebbero gli spioni e la politica sarebbe soltanto prigioniera del gioco. Più lineare, coerente e protetto appare oggi uno schema di lavoro che affidi l’accertamento delle responsabilità penali alla magistratura e la verifica delle responsabilità istituzionali e politiche alla commissione di controllo sui servizi segreti (Copaco). L’una e l’altra si potrebbero avvantaggiare della collaborazione del Sismi di Bruno Franciforte che, convocato dal ministro della Difesa, è stato invitato a "mettere a sua disposizione tutti gli elementi in possesso del Sismi". È questa la strada maestra per venire a capo dei giochi storti. Magistratura. Un ristretto comitato di controllo parlamentare regolato da norme di riservatezza. La collaborazione del governo e di un Sismi rinnovato che vuole cambiare finalmente aria alle stanze.
* la Repubblica, 7 luglio 2007
L’ex-premier sulla vicenda dei dossier illegali: «Reagirò a illazioni»
Sismi, Berlusconi: mai ordinato schedature
«Né io, né il governo da me presieduto, ha mai dato indicazioni di operare controlli o quant’altro nei confronti dei soggetti indicati» *
ROMA - Con i dossier Sismi non c’entro nulla: parola di Silvio Berlusconi. «Né io, né tantomeno il governo da me presieduto né direttamente né indirettamente ha mai dato indicazioni a chicchessia di operare schedature, monitoraggi, controlli o quant’altro nei confronti dei soggetti indicati nella documentazione sequestrata al dr. Pompa», precisa il Cavaliere in una nota, «Il Sismi e il generale Pollari, a cui non posso che rinnovare la totale ed incondizionata stima e fiducia, hanno sempre agito con assoluta correttezza e lealtà nel rispetto della legge e dei principi costituzionali».
«REAGIRÒ A ILLAZIONI» - «Fermo restando che nessuno deve essere oggetto di attività di controllo immotivato e che qualsiasi intromissione nella privacy e nella libera esplicazione delle proprie lecite attività è un grave vulnus per la vita democratica- precisa l’ex premier - si deve osservare che, da quanto è dato comprendere dalle notizie giornalistiche apparse in questi ultimi giorni, il materiale sequestrato si sostanzierebbe in ricerche effettuate su internet e sui vari giornali, con conseguente commento del ricercatore».
«MAI A CONOSCENZA» - «Quella evidenziata in questa vicenda - continua il Cavaliere - «è la tipica attività di monitoraggio delle cosiddette "fonti aperte" che non ha in sè, all’evidenza, alcunché di illecito» prosegue l’ex-premier. «Ove questa attività fosse stata prodromica ad atti od azioni conseguenti è altrettanto evidente che configurerebbe un illecito, ma per quanto è dato sapere nulla di tutto ciò è avvenuto. L’unica cosa certa è che la presidenza del Consiglio mai è stata posta a conoscenza di tale attività. Di talché qualsiasi illazione o contraria indicazione sul punto non potrà che trovare una ferma risposta con conseguenti azioni giudiziarie in tutte le sedi competenti».
FINI: «CONFERMO» - Gianfranco Fini conferma la versione di Berlusconi: «Come ex vicepremier posso confermare quanto detto da Berlusconi. A Palazzo Chigi nessuno era a conoscenza delle attività del dottor Pompa, che prima di essere definite illecite dovranno essere meglio valutate e comprese».
COMMISSIONE INCHIESTA - Intanto si profila sempre più l’ipotesi di una commissione d’inchiesta sulla faccenda. A lanciare l’idea il ministro della giustizia Clemente Mastella, che spiega: «è l’unico modo di ridare serenità al paese acclarando quello che è effettivamente successo». D’accordo con lui Antonio Di Pietro, con il quale il leader dell’Udeur di rado riesce di questi tempi a concordare su una qualsiasi cosa. D’accordo sulla commissione d’inchiesta anche il ministro D’Alema, che ha definito «inquietante» la vicenda dei dossier illegali. Il centrodestra lascia invece intendere di essere perplesso. Però il ministro della difesa, Arturo Parisi, ha già avviato la propria ricognizione: ha convocato nel suo ufficio il direttore del Sismi, Ammiraglio Bruno Branciforte, e gli ha chiesto di mettere a disposizione tuto il materiale in suo possesso.
Il plenum del Consiglio superiore della magistratura interviene sull’attività di spionaggio sui giudici
"Il Sismi ha svolto un’attività estranea ai compiti dei servizi fatta per intimidire e far perdere credibilità"
Toghe spiate, Csm contro il Sismi
"Fu il servizio e non settori deviati" *
ROMA - E’ stato il Sismi e non i "settori deviati" del servizio a svolgere l’attività di spionaggio nei confronti magistrati che è venuta alla luce con la scoperta dell’archivio di via Nazionale a Roma. A dirlo è una risoluzione approvata all’unanimità dal Plenum del Csm.
Secondo il Consiglio superiore della magistratura il Sismi ha svolto un’attività "estranea" ai suoi compiti con lo scopo "intimidire" e far "perdere credibilità " ai magistrati.
Il vicepresidente del Csm Nicola Mancino, prima dell’approvazione da parte del plenum di Palazzo dei marescialli aveva dichiarato che "c’è stato uno sviamento di poteri da parte del Sismi. L’attività del servizio è andata al di là delle proprie attribuzioni e competenze".
La risoluzione del Csm arriva dopo le dichiarazioni dell’ex funzionario Pio Pompa che aveva voluto sminuire l’importanza dell’archivio. "La quasi totalità del materiale sequestrato nei miei pc personali - aveva scritto nella dichiarazione spontanea consegnata ieri pomeriggio al pm Pietro Saviotti - proviene da fonti aperte (internet, organi di informazioni, etc.). Le informazioni contenute nei files attinenti a magistrati sono tutte, ribadisco tutte, di fonte pubblica, giornalistica o informatica".
* LA REPUBBLICA, 4 luglio 2007
FORZA ITALIA, o "FORZA ITALIA" ....... ?!!! (fls)
Il discorso di Veltroni confrontato da un esperto con quelli "omologhi" di Berlusconi e Prodi
La lunghezza del testo alleggerita da citazioni. Due soli "peccati": flat tax e housing sociale
La media di parole per periodo è stata di 21, ancora meno delle 28 del leader forzista
Frasi brevi e pochi "io" ecco i jolly del Lingotto
di TULLIO DE MAURO (la Repubblica, 29 GIUGNO 2007)
La vita politica ha bisogno delle parole. Lo sappiamo da tempi remoti. Meno noto è che la parola fiorisce dove più intensa è la vita democratica. Tale era la tesi, ben argomentata, del poco noto antico Anonimo autore del "Sublime". Guardare alle parole usate in momenti decisivi della nostra vicenda politica può non essere solo un esercizio di analisi linguistica fine a se stessa. All’indomani del discorso di Walter Veltroni, è opportuno metterlo a confronto con i discorsi fatti in occasioni analoghe da chi lo ha preceduto sulla strada della leadership.
«Ho scelto di scendere in campo»: così il 26 gennaio 1994 Silvio Berlusconi annunziò il suo ingresso nella vita politica e la formazione di un "Polo delle libertà" e del movimento di Forza Italia. Fu un discorso breve, circa 1300 parole, nemmeno tre cartelle. Non vi si trovano citazioni di nomi propri, di persone precise, con l’eccezione del richiamo al padre e al suo insegnamento. Pochissime le parole che possano risultare mal comprensibili a una parte della popolazione, forse "retaggio" e "cartello delle sinistre", forse "liberaldemocratico" e la distinzione tra "liberale" e "liberista". I 45 periodi sono generalmente assai brevi, la media è di 28 parole per periodo, poco oltre le soglia di 25 parole, considerata ottima per la comprensibilità. Proprio nei periodi più lunghi si concentra l’espressione del "sogno" politico dell’autore. Su 45 periodi 20 contengono un autoriferimento, esibiscono la prima persona (talvolta plurale, "di maestà"). Parole più di altre frequenti sono "famiglia", "libertà" e "libero", "ragionevole" e "comunismo".
Tra i discorsi di Romano Prodi, specialmente significativo è quello pronunziato a Napoli il 17 giugno 1995, durante il "viaggio delle cento città". Si citano alcuni nomi in positivo (De Gasperi, Adenauer, Schuman) e in negativo si cita Berlusconi. Il testo è più lungo del precedente: 170 periodi. Sono numerosi i periodi brevi, brevissimi: "La politica è scelta", "Bisogna voltare pagina", "La civiltà televisiva vive alla giornata", "In Italia siamo oppressi dallo Stato", "Lo possiamo fare". La prima persona è meno frequente che nel testo di Berlusconi: si trova tuttavia in circa un sesto dei periodi. Prevalgono parole di base e comuni, ma c’è qualche vocabolo più specifico della politica: "localismo", "parodia del thatcherismo". Domanda irriverente: quest’ultima, questa "parodia del thatcherismo", che sarà stata per i due terzi di popolazione che non leggono giornali? Parrebbe una cosa brutta, secondo l’autore, perché la "offre la destra". Ma più esattamente?
Il discorso pronunciato da Walter Veltroni mercoledì a Torino è dei tre il più lungo: 11400 parole circa e 534 periodi. Nonostante non manchino periodi ampi, la media di parole per periodo è assai bassa: circa 21, dunque molto sotto la soglia di 25 parole per periodo. Come gli altri due oratori, anche Veltroni cerca di dare incisività al suo discorso e, stando ai numeri, pare riuscirci di più. Sono numerosi i riferimenti positivi a persone e guide politiche. Due autorevoli commentatori su La7 hanno detto a caldo che Veltroni aveva lasciato da parte il ricordo di nomi propri. Non sembra esatto. Le persone rammentate in positivo con nome e cognome sono, se ho ben contato, diciotto, e alcune ricorrono più volte (Prodi, Napolitano, Draghi). Vanno aggiunti alcuni riferimenti non nominativi, ma precisi: alla nostra Costituzione, al Partito democratico Usa, al Partito del Congresso indiano, ai sindacati confederali. Mancano riferimenti nominativi in negativo, scelta non casuale, ma ragionata. Le citazioni portanti sono diverse, da Vittorio Foa a Gustavo Zagrebelsky, alla bella lettera della giovane romana, la generosa "nuova italiana". C’è anche qualche citazione nascosta: "farsi carico" tra virgolette è senza dubbio una corretta evocazione dell’"I care" dei giovani nordamericani riportato su un muro dell’aula di don Milani a Barbiana.
Veltroni non si sottrae all’onere di usare la prima persona, spesso, però, per sottolineare un dubbio. Ma gli autoriferimenti, se ho ben contato, si trovano in meno di un decimo dei periodi. Assai meno, dunque, che negli altri due testi. Veltroni è portato a parlare delle cose e di altre persone e di sé dice meno degli altri due oratori. Parlando di cose in modo circostanziato, anche di cose controverse e spinose, come Veltroni fa, è inevitabile usare parole tecniche, assai specifiche. In generale queste vengono sì introdotte, ma subito spiegate, per esempio nei paragrafi sull’ambiente o in quelli sul fisco. C’è qualche eccezione negativa. Qualcuno, anche nel popolo ulivista, si chiederà che cosa siano la "flat tax" (che a Veltroni non piace) e lo "housing sociale" (che Veltroni auspica). I vocabolari per ora non aiutano. Altre parole tecniche, invece, nel contesto sono ben chiarite, da "soggettività femminile" o "mobilità sociale" a "delocalizzazione". Ci sono parole che ricorrono con rilievo: "pari opportunità", "equità", "eguaglianza", "sobrio" e "sobrietà", "ascolto", "scelta", "decisione". Sono parole che tutti capiscono e cui il discorso affida il suo senso.
Istituzioni in difficoltà, il premier sposa l’appello del presidente della Repubblica
E sulle pensioni dice: "Dipende dalla serietà con cui lavora"
Prodi: "Napolitano ha ragione
Serie le sue preoccupazioni" *
BRUXELLES - "Le preoccupazioni del Presidente Napolitano sono preoccupazioni serie. Mi impegno e mi impegnerò il più possibile per ammorbidire la situazione e creare la possibilità di scambi e di cooperazione che sono sempre necessari per la gestione di un Paese democratico". Romano Prodi, risponde così alle domande dei giornalisti sull’allarme istituzionale sul funzionamento delle istituzioni lanciato ieri dal presidente.
Pensioni e Montezemolo. "Dipende dalla serietà con cui si lavora". Prodi liquida così la spinosa questione della trattativa sulle pensioni: "L’ho cominciata, aiutata e costruita e spero proprio che la possiamo portare a termine’’. Silenzio invece sulle parole del presidente di Confindustria Luca Cordero di Montezemolo sul governo "che crea solo problemi". "Non rispondo" taglia corto il premier.
Trattato Ue. Mentre sta per partite la seconda giornata del summit europeo sul Trattato di riforma istituzionale, il premier ostenta ottimismo: "Ho grande fiducia sulla possibilità di arrivare ad un compromesso".
* la Repubblica, 22 giugno 2007
Il nodo
di Furio Colombo *
Ci deve essere un gran vuoto, uno spossante senso di attesa e di solitudine se le citazioni del giorno, riportate con enfasi da tutti i giornali (e prima ancora da una folla di telegiornali) sono di Sangalli, Montezemolo e Scajola, ciascuno nel modo sbagliato e dal luogo sbagliato.
Non so niente di Sangalli, presidente della Confcommercio, una delle due associazioni dei commercianti italiani (l’altra è la Confesercenti, ritenuti più di sinistra, quella che ha subissato Prodi di urla e di fischi). Ma non credevo che un astuto commerciante (deve esserlo, se no perché lo hanno eletto?) subentrato al non illustre e plurindagato Billè, fosse così ingenuo da spingere la sua immensa platea di iscritti a rafforzare il sospetto - giusto o ingiusto - che anima molti italiani a reddito fisso (e molte Guardie di Finanza, vedi i loro rapporti). Il sospetto, cioè, che molti commercianti siano evasori. Trasformare il grande evento sociale della categoria in un comizio alla Fidel Castro contro le tasse, alla presenza del grande predicatore dell’evasione Silvio Berlusconi, bene in vista, in posizione telecamera, un comizio che ha incluso anche la trovata retorica di rimpiangere la assenza di Prodi (cui è stata comunque dedicata la dovuta bordata di fischi) è stata una operazione perfetta di rivolta contro le tasse da parte di un tipo di imprenditori sospettato da sempre di infedeltà fiscale. Se il sospetto è ingiusto, come credo, il danno arrecato ai suoi iscritti da Sangalli è certo grande. Ha scatenato un antagonismo fiscale che manterrà a lungo tensione e diffidenza, chiunque governi (a meno che si torni a un regime di evasioni e condoni).
È vero, prima di lui lo aveva fatto, con inattesa alacrità, Venturi, il presidente della Confesercenti. Per giunta, si è prestato, con tutta la sua organizzazione «di sinistra» a una trappola un po’ volgare di fischi e di urla, non proprio la reazione tipica di chi cerca fiducia per la propria credibilità fiscale.
Possiamo dire che - insieme - Sangalli e Venturi, «destra» e «sinistra»dei commercianti italiani, hanno occupato uno spazio che raramente grandi organizzazioni vogliono pubblicamente occupare: invece della dichiarazione dei redditi, la dichiarazione di guerra al fisco.
Possibile che Sangalli e Venturi non abbiano mai fatto un viaggio in America, sperimentato qualche acquisto a Manhattan? Si sarebbero accorti che, dal più piccolo negozietto al più grande department store, il venditore compila una "lista di vendita" oltre allo scontrino e alla ricevuta della carta di credito. E applica ad ogni acquirente tre tasse diverse: federale, statale e cittadina (con la possibilità per il cliente di evitare due delle tre tasse se dimostra con un documento di abitare fuori della città e fuori dello stato). Si sarebbero accorti che i commercianti americani, almeno nella storia del dopoguerra e dopo depressione, non hanno mai organizzato proteste di categoria contro le tasse. E - allo stesso modo - non si ricorda alcuna campagna elettorale americana, federale, statale o cittadina, in cui, sia stata agitata la iniqua tassazione dei commercianti (che, tipicamente, passano gli oneri giusti o ingiusti al compratore). Mentre, ovviamente, sono normali e frequenti sia le promesse sia le richieste di tagli di tasse, con la tipica contrapposizione fra destra e sinistra. La destra taglia le tasse ai ricchi, la sinistra al reddito fisso.
Avrebbero anche notato che, in una isola di prosperità come Manhattan, dominano ormai, in tutti i settori, i grandi centri di vendita, che in un decennio hanno spazzato via la operosa, produttiva, utilissima classe media dei commercianti di negozi individuali e di famiglia. Hanno eliminato, anche socialmente, una intera parte di società libera: il negoziante.
Nell’Italia, in cui il fenomeno dei grandi centri di vendita è appena cominciato e sopravvivono ancora con tenacia e bravura centinaia di migliaia di quel tipo di botteghe e negozi che negli Stati Uniti sono scomparsi, non avresti detto che la prima preoccupazione di Sangalli e Venturi sarebbe stata di salvare dai mega-business quelle botteghe o negozi? Chi saranno state quelle migliaia di persone stipate nei due auditori? Tutti proprietari di mega centri commerciali e di shopping malls? Certo lo sfogo di uno schiamazzo, come ai bei tempi della scuola, non se lo nega nessuno se invitato a una piazzata. Però dicano francamente Sangalli e Venturi: c’è un solo economista pronto a dimostrare che i piccoli e medi negozi italiani (con il turismo in crescita e la domanda in aumento) chiudono per tasse, e non piuttosto perché scacciati dai mega-store? Hanno fatto felice Berlusconi, i due capi rivolta fiscale, ma forse non tanti iscritti. Quelli di loro che viaggiano e conoscono il mondo, sono felici che in Italia non ci sia l’inesorabile inquisizione fiscale americana, inglese, svedese, australiana, canadese dove l’arrivo di un ispettore è la peggiore sventura che può capitare a un negoziante. Eppure non ci sono rivolte di categoria perché tutti sanno che una condizione essenziale per il capitalismo, in un paese democratico, è l’assoluta certezza fiscale.
* * *
Di Luca di Montezemolo so abbastanza per stimarlo. E sono tra quelli che non hanno dimenticato che, prima di lui, la Confindustria, presieduta in passato da Guido Carli e Giovanni Agnelli, solo pochi anni fa aveva avuto l’imbarazzante presidenza di Antonio D’Amato.
Montezemolo non solo conosce gli Stati Uniti e la vita pubblica di quel Paese, ma ha anche una laurea americana. Per questo, però, la meraviglia si fa più grande quando l’attuale Presidente della Confindustria assume toni di visione e giudizio generale della cosa pubblica, come se rappresentasse una istituzione e non una categoria. E si attribuisce, dunque, una squilibrante autorità di fatto che - lui sa benissimo - non potrebbe mai avere o attribuirsi nel Paese che gli è caro e in cui ha imparato molte cose di cui, professionalmente, ha dimostrato di valersi bene.
Chi direbbe, da capo degli imprenditori, in una comunità democratica in cui di politica si occupano Governo e Parlamento, e di monitoraggio della politica si occupano i media, frasi arrischiate e destabilizzanti come «non ci sono piaciuti i tempi e i modi in cui si è affrontata la sostituzione dei vertici delle forze dell’ordine?». Ci sono precedenti, certo, di intromissione diretta nella politica degli industriali come categoria. Montezemolo sa bene che non sono buoni esempi. E che quell’elenco (triste, spesso finito male) non comprende nessuno dei paesi che, suppongo, sono il naturale modello di un Presidente di Confindustria di formazione liberale e democratica.
Il riferimento americano mi serve anche per domandarmi - e domandare all’interessato - se ricorda qualche dichiarazione di un Presidente della "American Manufacturers Association" o di fondazione o di "Think Tank" di ambito industriale, una dichiarazione, dicevo, che attacca e scredita i sindacati («statali», «pensionati», «fannulloni») piuttosto che discutere specifiche questioni, affrontare in modo chiaro e diretto contrasti, disaccordi, argomenti di scontro. Che senso può avere, da parte del personaggio di vertice di una parte importante della società italiana, aumentare il disordine, in un momento evidentemente difficile, in cui il contributo al disorientamento e al tumulto tipo Confcommercio non potrà essere ricordato come un merito?
E ancora una osservazione, nello spirito di un trascorso lavoro comune: c’è davvero una inaccettabile cultura anti-industriale nell’Italia di Maranello, in cui il parroco sa suonare le campane quando vince la Ferrari? Parlare di cultura anti-industriale in un Paese in cui tutti hanno ricominciato a comprare Fiat al primo segno di ripresa di quella azienda? Ce lo immaginiamo Robert McNamara, ai tempi in cui era a capo della General Motors, condannare un compito in classe di High School o una tesina di college perché «anti-industriale»?
E conosciamo un solo economista, Milton Friedman incluso, in grado di sostenere che «la ripresa si deve unicamente alle imprese»? Come non notare che l’affermazione è tecnicamente impossibile?
* * *
Entra in scena Claudio Scajola, rimasto nella memoria degli italiani per due ragioni: era il ministro degli Interni ai tempi del G8 di Genova. Chiunque, dopo quel "pestaggio cileno" di ragazzini inermi (definizione di questo giornale, in tempo reale, molto prima che il questore Fournier lo confessasse ai giudici) l’uccisione del giovane Carlo Giuliani e la mano libera lasciata ai misteriosi black bloc, avrebbe dovuto dimettersi. Scajola si è dimesso più tardi, quando ha definito «grande rompiballe» il prof. Marco Biagi, assassinato dalle Brigate Rosse mentre era privo di scorta.
Bene. Claudio Scajola ritorna. E in spregio alla funzione affidatagli di Presidente della Commissione parlamentare di controllo sui servizi segreti, dichiara che «il Governo ha agito in modo dilettantesco e irresponsabile» quando ha annunciato la fine del mandato del capo della Polizia De Gennaro.
La gravità, questa sì, irresponsabile, della frase sta nella delicatezza estrema della carica che Scajola ricopre.
Qui non siamo di fronte alla critica politica ma all’abuso di credibilità e autorità da parte di chi - Dio sa perché, con quel passato - è stato investito di quella carica.
È un modo in più, molto allarmante, per spiegare l’appello del Presidente Napolitano a rispettare le Istituzioni, a porre fine al sabotaggio distruttivo che impedisce al Parlamento di funzionare.
Purtroppo, non servirà. Ma almeno è stato detto con chiarezza dove, come si è creato il pericoloso nodo che sta minacciando la vita della Repubblica.
* l’Unità, Pubblicato il: 24.06.07, Modificato il: 24.06.07 alle ore 8.15
I leader della Cdl arrivati al Colle*
ROMA - Sono arrivati al Quirinale i leader della Cdl - Silvio Berlusconi (Fi), Gianfranco Fini (An), Umberto Bossi (Lega) e Gianfranco Rotondi (Dca) - per incontrare il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Gli esponenti della Casa della libertà hanno lasciato Palazzo Grazioli, dove hanno partecipato ad un vertice per definire cosa dire al Capo dello Stato, e si sono recati direttamente al Colle.
Non c’è l’Udc. Non a caso il segretario Lorenzo Cesa, non nasconde le perplessità: "Non spetta a Napolitano indire nuove elezioni se la maggioranza non cade. Non può fare un golpe, basta capire un pò di diritto costituzionale".
* la Repubblica, 20-06-2007.
Prodi sulla gazzarra leghista: "Tensione che non giova
L’Italia ha bisogno di tranquillità, comprensione e dialogo"
Il governo contro Berlusconi
"Smentisca la frase sul regicidio"
Il sottosegretario Letta: "Parole gravi e inaccettabili. Abbassare i toni"
La replica di Bonaiuti: "Preoccupante se Prodi si sente un re" *
ROMA - Grave la gazzarra leghista alla Camera, grave la frase di Berlusconi sul "regicidio" come strada per tornare a Palazzo Chigi. La prima viene stigmatizzata dal presidente del Consiglio Romano Prodi, la seconda da tutto il governo. "Il Consiglio dei ministri ha ritenuto molto grave che il leader dell’opposizione abbia usato un termine come quello di regicidio che è un termine dal significato inequivoco. Il Consiglio dei ministri, nel ritenere inaccettabile questo linguaggio da parte del leader dell’opposizione, ha chiesto e chiede a lui di smentire questa frase che riteniamo essere una farse grave", ha affermato il sottosegretario Letta al termine della riunione del governo. Quindi l’invito alla moderazione: " Il nostro è un dibattito politico teso, ha bisogno di discussione sui contenuti e di toni da abbassare e riteniamo che quanto avvenuto ieri sia estremamente grave. C’è un invito generalizzato da parte di tutti e anche da parte nostra in un clima politico così teso ad abbassare i toni e a cercare di mettere la maggiore serenità possibile nel dibattito politico".
Ironica la replica di Bonaiuti: "Se Prodi si allarma davvero per la risposta sorridente e scherzosa ad una signora sul ’regicidio’, significa che si sente realmente un re. E questo, caro Enrico Letta, mi sembra davvero curioso e grave". "Mi risparmio di ricordare - aggiunge Bonaiuti in una nota - tutte le volte in cui alcuni protagonisti di questo governo e di questa maggioranza hanno utilizzato nei confronti del mio Presidente, ahimè non per scherzo, un linguaggio davvero volgare ed inaccettabile".
La gazzarra leghista. Prodi ha anche parlato della rissa di ieri alla Camera: "E’ diventato uno sport molto diffuso quello del creare manifestazioni anche non consone con i comportamenti di stile di un Paese, con le regole democratiche". Il giorno dopo la gazzarra leghista, il presidente del Consiglio è preoccupato per un clima di tensione e scontro.
"L’occupazione dei banchi del governo, manifestazioni improvvise: tutto questo denota una situazione di tensione che non giova all’Italia che ha bisogno di tranquillità, di comprensione e di dialogo, di dialogo, di dialogo", spiega ai microfoni del Gr1 Rai.
Anche su un altro tema al centro di polemiche, la destinazione del tesoretto, il premier abbassa i toni dopo lo sfogo del Ministro dell’Economia Tommaso Padoa-Schioppa che ha parlato di "richieste inquietanti" sul suo utilizzo. E chiarisce la posizione del governo: "Abbiamo delle priorità molto chiare per il Dpef".
L’obiettivo degli interventi in ambito finanziario deve essere quello di "cercare di dare un pò delle poche risorse che abbiamo innanzitutto a sollievo delle pensioni più basse, poi a favore delle infrastrutture, della ricerca, dell’innovazione e della sicurezza. Questi sono i capitoli su cui dobbiamo investire le risorse che abbiamo".
Seguendo questa strada, continua il presidente del Consiglio, è possibile costruire una ripresa: "Andando avanti con serietà e adagio adagio - dice Prodi -, dopo il risanamento dei conti pubblici, ora può cominciare un periodo di risalita".
* la Repubblica, 15 giugno 2007
La democrazia è che i generali vanno a casa
di Raniero La Valle
Riceviamo da Enrico Peyretti questo articolo di Raniero La Valle della rubrica “Resistenza e pace” che uscirà su Rocca (rocca@cittadella.org ) del 15.06.07 *
Resistenza e pace
Si può salvare la Repubblica? Le istituzioni tengono, ma lo spirito è debole. Ciò che è accaduto con la vicenda Visco-Speciale e con la fallita “spallata” al governo Prodi, ha fatto accendere un segnale di allarme rosso. Altre volte la Repubblica è stata in pericolo, per Servizi deviati, generali golpisti, stragi di Stato, oscuri giochi delle parti tra Brigate Rosse e ceti politici antimorotei; abbiamo avuto perfino un capo dei contrabbandieri al comando della Guardia di Finanza e un vertice della magistratura ridotto a un porto delle nebbie; ma il gioco politico che si svolgeva alla luce del sole era formalmente corretto, la cultura democratica era fuori discussione, l’opposizione rispettava le regole e la coscienza pubblica era sana. È grazie a ciò che delle grandi emergenze democratiche sono state superate con relativa facilità, e di alcune si è perso perfino il ricordo.
Ma ora è la politica stessa, nelle sue espressioni quotidiane e pubbliche, che si è trasformata in un gioco al massacro; le rappresentazioni serali del confronto politico traboccano di odio, sete di vendetta, disprezzo per l’avversario; un distinto signore come l’ex democristiano D’Onofrio tratta beffardamente il ministro Padoa Schioppa in Senato come un minorato psichico, come un ignorante della Costituzione e come un intruso al palazzo. La percezione che lo schieramento battuto alle elezioni ha del governo legittimo del Paese, è che si tratti di una banda di usurpatori; il loro imperdonabile delitto, ogni momento additato alla esecrazione degli “Italiani”, è che, approfittando di un attimo di distrazione di Berlusconi o di qualcuno dei suoi elettori ed alleati, essi abbiano rubato il potere all’unica parte politica sana del Paese, designata a governarlo per diritto divino; e poiché per meglio gestire il potere destra e sinistra hanno creato un sistema in cui il conflitto politico non si può più dirimere attraverso le procedure parlamentari e il Parlamento non è più il luogo dove si formano e cadono i governi, l’unico assillo dell’opposizione, l’unico suo discorso politico, l’unico suo contributo al dibattito pubblico è del come si possa abbattere il governo a spallate, come lanciargli contro veleni e dossiers, come mobilitare la piazza e inventarsi scioperi fiscali e insomma come ristabilire, con le buone o con le cattive, la normalità di un governo della destra.
In quest’ultima occasione, l’uso di una testa d’ariete come il comandante della Guardia di Finanza contro l’esecutivo e in particolare contro il titolare della lotta all’evasione fiscale, è stato francamente eversivo. Se il ministro Padoa Schioppa non avesse finalmente rivelato quale era il punto politico della contesa, il governo non avrebbe meritato di sopravvivere, per questa sua incapacità di motivare e far capire perfino le cose buone che fa. E il punto politico era che la separazione dei poteri riguarda solo l’esecutivo, il legislativo e il giudiziario, e che non esistono altri poteri o corpi separati che possano rivendicare una loro autonomia, e tanto meno le Forze Armate che sono tenute per legge a conformarsi ai principi democratici della Repubblica; e che se esiste un conflitto tra un generale e il governo, o va via il generale o va via il governo; ma se va via il governo non siamo più in Italia e in Europa, bensì in una “repubblica delle banane”.
Ora il vero problema è come mettere in sicurezza la Repubblica, come evitare che attentati e rischi di questo genere possano ripetersi. È inutile fare appello a un ammorbidimento del clima politico, al senso dello Stato dei protagonisti e almeno all’educazione degli eletti (si fa per dire) ai seggi parlamentari.
La salvezza delle istituzioni non può dipendere dal ravvedimento dei singoli. Occorre reintrodurre delle garanzie oggettive: una governabilità che non significhi l’inamovibilità dell’esecutivo per l’intera legislatura, un Parlamento che riacquisti il suo ruolo come fonte e limite del potere di governo, un’opposizione che sia vincolata all’obbedienza alle leggi della democrazia e al rispetto delle persone (la immunità dei parlamentari riguardo alle opinioni espresse nell’esercizio del mandato non può estendersi alla licenza di insulto e di annientamento simbolico dell’avversario), una legge elettorale che produca una vera rappresentanza e che non trasformi una minoranza in maggioranza schiacciante, una regola del gioco che non costringa i partiti ad alleanze innaturali con forze dall’opposto sentire politico, una ripresa di autorità e dignità della politica che faccia venir meno quel vuoto che oggi è riempito dalla supplenza caricaturale dei media che mettono in scena la politica come spettacolo nell’arena di un set televisivo.
Soprattutto è necessario che il gregarismo di masse cui è stata tolta ogni seria informazione e cultura politica non venga elevato a rango costituzionale mediante l’instaurazione di un presidenzialismo irresponsabile e l’istituzionalizzazione del culto della personalità; e che lo stesso “criterio” del politico cessi di essere la contrapposizione col nemico, e torni ad essere il bene comune e l’interesse generale.
Raniero La Valle
* Il Dialogo, Mercoledì, 13 giugno 2007
2 giugno Festa della Repubblica: mettere in sicurezza la Costituzione *
di COORDINAMENTO REGIONALE TOSCANO
DEI COMITATI PER LA DIFESA DELLA COSTITUZIONE
Comunicato stampa
Il 2 giugno 1946 gli Italiani e, per la prima volta, le italiane elessero il loro Parlamento, che, chiudendo definitivamente la drammatica parentesi fascista, assunse il compito di scrivere la Costituzione della nascente Repubblica. Il testo, approvato a larghissima maggioranza da una assemblea pur composta da rappresentanti di forze politiche ormai appartenenti a fronti opposti degli schieramenti internazionali, entrò in vigore il 1 gennaio 1948.
Il 25 e 26 giugno 2006, a 60 anni di distanza, una larga maggioranza popolare, che ha superato gli schieramenti politici ed è composta da uomini e donne di generazioni successive, respingendo con il referendum costituzionale il tentativo di stravolgerne i contenuti, ha riconfermato di ritenere quella Costituzione il contratto fondamentale della nostra convivenza civile.
In questi anni le nostre società sono cambiate anche in modo allora imprevedibile per i Costituenti, ed è lecito pensare ad adeguamenti del testo originario che, rispettando l’impianto complessivo di un sistema parlamentare rappresentativo e nell’intento di proseguire nella realizzazione degli obiettivi incompiuti, tengano conto delle nuove esigenze. Non è però accettabile ignorare l’inequivocabile espressione di volontà uscita dal verdetto referendario dello scorso anno proponendo, in nome di una presunta migliore governabilità, formule che contraddicono o si allontanano dalla natura parlamentare della nostra democrazia.
Appare inoltre inquietante la disinformazione che circonda la proposta di referendum Guzzetta-Segni sulla legge elettorale, che ci riporterebbe alla mussoliniana legge Acerbo del 1925. La scorciatoia referendaria in questo caso, mentre sembra voler dare risposta alla ’crisi della politica’, fonde in realtà l’antipolitica e la tentazione di mortificare il ruolo del Parlamento per arrivare a modifiche alla forma di governo dello stesso tenore di quelle scongiurate con il risultato referendario dello scorso anno
A fronte del riaffiorare di proposte di riforma in senso presidenzialistico ed accentratore, i Comitati toscani per la Difesa della Costituzione, componenti del Comitato Nazionale ’Salviamo la Costituzione’ presieduto del Presidente Emerito della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, ritengono assolutamente indispensabile che il Parlamento proceda senza ulteriori indugi all’aggiornamento dell’articolo 138 della Costituzione, innalzando la maggioranza necessaria alle modifiche costituzionali e garantendo sempre la possibilità del ricorso al referendum, come peraltro previsto al primo punto del programma elettorale dell’attuale maggioranza di governo.
Solo così otterremo per tutti la garanzia che le ’regole del gioco’ democratico non possano essere modificate in base ad interessi contingenti da parte di maggioranze che possono non essere rappresentative della reale volontà popolare.
I Comitati invitano tutti, e in particolare i rappresentanti eletti dai cittadini nelle sedi istituzionali, a festeggiare quest’anno, unitamente alla Repubblica, la sua Carta fondamentale, frutto del lavoro e dell’impegno morale di uomini e donne che seppero mettere l’interesse del Paese al di sopra di quello delle singole parti, trovando un mirabile equilibrio fra libertà e doveri, principi ideali e strumenti giuridici.
Firenze, 1 giugno2007
(per il Coordinamento: Francesco Baicchi 348 3828748, del Comitato di Pistoia)
Articolo tratto da:
FORUM (57) Koinonia
http://utenti.lycos.it/periodicokoinonia/
* IL DIALOGO, Sabato, 02 giugno 2007
Conflitto d’interessi: la legge
di Furio Colombo *
Rispondo a centinaia di e-mail che continuano ad arrivare nella mia posta elettronica e al giornale, e pubblico in questo editoriale la proposta di legge sul conflitto di interessi che ho depositato al Senato. Per ora reca solo la mia firma ma spero che altre, più autorevoli della mia, si aggiungeranno.
Come sapete un’altra legge è depositata alla Camera dalla maggioranza a cui appartengo e comincerà ad essere discussa in maggio.
Con la mia proposta di legge, profondamente diversa, spero di essere di aiuto sia perché penso di rappresentare, con gli intenti di questa legge, idee e sentimenti di coloro che ci hanno votato, sia perché, scrivendola, ho voluto evitare vuoti di memoria, e la inclinazione a pretendere che nei cinque anni del governo Berlusconi non sia successo niente, che a volte viene presentata come gesto necessario per riconoscerci tutti da una stessa parte.
Continuo a pensare che non siamo tutti da una stessa parte (altrimenti non esisterebbe la politica) e che visioni contrapposte e diverse siano i tratti essenziali della democrazia.
La visione espressa in questa legge considera pericolosa la commistione di vasti e potenti interessi privati di qualcuno con l’interesse pubblico di tutti. Il testo di legge che segue si propone di tracciare una netta linea di demarcazione che protegga il Paese dal grave pericolo che abbiamo già sperimentato.
* * *
Onorevoli colleghi, il problema del conflitto di interessi - ovvero di incompatibilità dei titolari di funzioni di governo che siano anche titolari di rilevanti attività aziendali - è lo scopo di questa proposta di legge. Con essa si vuole impedire la paralisi della normale vita politica di un paese che si verifica quando una persona, oltre che responsabile di attività di governo, è anche alla guida di rilevanti attività economiche. Questa proposta di legge tende a colmare due vuoti legislativi pericolosi e allarmanti. Il primo riguarda la portata e le dimensioni dell’attività privata che - facendo capo a una persona che svolge funzioni di governo - tende a creare il problema gravissimo di una sovrapposizione o aggancio fra responsabilità pubblica e interesse privato.
Il secondo vuoto riguarda l’attenzione scarsa o nulla finora prestata al delicatissimo settore imprenditoriale delle comunicazioni intese in tutte le possibili forme, modi e settori in cui tale attività si può svolgere, dalla Tv, alla radio, ai giornali, alla telefonia, all’informatica.
Il problema, in tutti e due i percorsi indicati, è materia così delicata e rilevante al fine di definire incompatibilità e separazione completa di responsabilità pubblica e interesse privato, che la sua regolamentazione non può essere rinviata ai criteri decisionali, che possono essere di volta diversi, di una autorità garante.
Nessuna autorità può essere messa in condizioni di decidere su un conflitto di interessi in assenza di una legge che stabilisca le modalità per risolverlo. Non è ragionevole chiamare qualcuno - per quanto autorevole - a decidere su un conflitto già in atto fra attività di governo e interessi privati. Infatti quando tale conflitto è insorto, si sono già stabilite le condizioni di pericolo per la legalità che possono rendere inagibile l’azione di una eventualità Autorità incaricata di risolvere il problema.
È persuasione di chi presenta questa proposta di legge che ogni aspetto della incompatibilità tra funzioni e interessi e ogni regola sul come identificare, impedire o fermare un conflitto di interessi debba essere definito e diventare legge della Repubblica prima che il conflitto insorga, così come avviene per ogni comportamento giudicato - da una comunità e dai suoi legislatori - pericoloso per la vita della repubblica e i rapporti fra i cittadini. Nel caso che stiamo discutendo, è in gioco la credibilità e rispettabilità di un governo e dei suoi membri, il rispetto per le norme e decisioni di quel governo, la certezza che in nessun caso e per nessuna ragione possa esservi dubbio sul completo disinteresse di ogni azione e decisione di governo, il costante rispetto di ogni norma vigente, l’armonia con i principi della carta costituzionale, prima fra tutte è la prescrizione, che è anche vincolo comune: «La legge è uguale per tutti».
Il conflitto di interessi in atto infrange, prima di tutto, tale fondamentale principio. Infatti attribuisce al titolare del conflitto la disponibilità di un doppio criterio decisionale: l’efficacia erga omnes di una determinata norma o decisione; ma anche la possibile convenienza privata di quella norma o decisione nell’ambito degli interessi personali di chi governa, se chi governa è titolare di conflitto. Ovvero è in grado di decidere sul proprio beneficio privato.
Questa legge indica le dimensioni, ovviamente cospicue, del tipo di interesse privato, finanziario, azionario, proprietario o manageriale cui si intende porre argine e stabilire impedimento.
L’esperienza, anche recente, insegna che esercitare funzioni di governo - mentre si rappresentano vasti interessi privati - è situazione in grado di travolgere l’autonomia di qualunque Autorità (per esempio attraverso insistenti ed efficaci campagne di intimidazione e delegittimazione mediatica, campagne facilmente orchestrabili con mezzi adeguati). La stessa esperienza dimostra la capacità di condizionare una assemblea legislativa (certo la parte di assemblea che sostiene il titolare di un vasto conflitto di interessi) sia attraverso il peso mediatico, sia attraverso la versatilità e varietà di interventi, premi e vantaggi in svariati settori e in luoghi diversi della vita pubblica e privata, in modo da rendere compatto il consenso ogni volta che esso riguardi una legge "ad personam".
Le leggi "ad personam", di cui è stata costellata la legislatura precedente, sono il capolavoro del conflitto di interessi, nel senso di manifestazione perfetta del danno nei confronti di un paese, delle sue leggi, dei suoi cittadini. Dimostrano che un potente titolare di conflitto di interessi tende a usare la condizione anomala esattamente nel senso per il quale tale condizione deve essere preventivamente proibita; ovvero, per il suo esclusivo, privato, personale interesse. E poiché, come si è visto e constatato di recente in Italia, è in grado di farlo usando l’obbedienza compatta di una maggioranza, si ha la dimostrazione che il conflitto di interessi - quando esiste in dimensioni abbastanza grandi - è in grado di rompere il patto fra lo stato e i cittadini, di relegare in posizione irrilevante il dettato della Costituzione e di usare un vasto consenso, creato dall’uso spregiudicato del conflitto di interessi, per favorire e sviluppare tutti i modi - che sono in sé l’opposto dell’interesse pubblico - in cui quel conflitto si può esprimere.
Ciò dimostra quanto sia arduo e irrealistico immaginare che una Autorità garante - che è parte delle istituzioni umiliate e vilipese dal conflitto - possa smantellare le difese di un potere pubblico-privato ormai insediato, mentre quel potere è già in grado di intimidire, disinformare e creare gogna per i propri avversari.
Questa proposta di legge indica dunque una definizione chiara, un intervento preventivo, e le norme che rendono impossibile l’instaurarsi di una condizione di conflitto in atto, nella persuasione - già provata da recente esperienza - che un conflitto in atto tende ad allargarsi e, con i frutti di convenienza illegale che ne ricava, è in grado di rendere vana ogni contestazione alla grave situazione di illegalità che il conflitto stesso produce.
L’impegno di questa proposta infatti non conta sul deterrente di multe sempre inefficaci, per quanto severe, verso le grandi ricchezze. Si propone invece di rendere impossibile l’instaurarsi, presso qualsiasi carica di governo, di una situazione di conflitto di interessi che è la peggiore infezione nella vita pubblica e nella moralità di una comunità e di un paese.
* l’Unità, Pubblicato il: 29.04.07, Modificato il: 29.04.07 alle ore 8.17
Politica e crimine
di Furio Colombo *
Cittadini attenzione. Il giorno 24 gennaio, il coordinatore nazionale di Forza Italia Sandro Bondi ha lanciato al Paese il seguente messaggio: «Prodi e gli altri non devono scherzare col fuoco. Esiste un limite oltre il quale un equilibrio democratico si può rompere. E al punto di rottura siamo quasi arrivati. Allora sono guai per tutti. Perché con Forza Italia al 32 per cento, come dicono tutti i sondaggi anche quelli commissionati dal centrosinistra sarebbe pericoloso tirare troppo la corda. Potrebbe provocare reazioni nel Paese, sommovimenti. Tutto ciò può determinare reazioni molto gravi della gente». (La Stampa, 24 gennaio 2007)
Siamo di fronte a un ultimatum: o rinunciate a governare o ci saranno rivolte nel Paese. Considerato il ruolo politico dell’autore di queste parole, è naturale immaginarsi una reazione giornalistica immediata, una serie di quelle tormentose interviste che seguono di solito una frase pronunciata dentro l’Unione sui Pacs, sul testamento biologico, sulla pretesa dei gay di non essere esclusi dalle unioni legittime. Invece (e forse persino Bondi si sarà meravigliato) silenzio.
Per capire ciò che sto dicendo immaginate per un momento che una frase così arrischiata («ci saranno rivolte») fosse stata pronunciata da un Diliberto o da un Giordano. Si sarebbero scatenati giornali e istituzioni. Si sarebbe parlato francamente del ritorno del pericolo comunista. Bondi invece brandisce i sondaggi contro le elezioni, e «vede» - certo da un punto di vista privilegiato, dato l’enorme potere economico a cui è vicino - sommovimenti e rivolte di tipo libanese.
Eppure alle parole di Bondi è seguito un cauto silenzio dei media, e un composto aplomb delle istituzioni che, a quanto pare, non si sono sentite turbate dall’annuncio (certamente autorizzato dal leader-padrone di Forza Italia) di sommosse descritte come inevitabili («se questi non se ne vanno...») e implicitamente approvate («esiste un limite»). «Questo decreto sulle nuove regole che vogliono imporre alle mie televisioni è un piano criminale verso il capo della opposizione e verso le sue proprietà private. Sono sicuro tuttavia che il governo non troverà complici per realizzazione questo progetto criminale. Vincendo le prossime elezioni amministrative dimostreremo i brogli elettorali che ci sono stati».
C’è anche un riferimento interessante per chi scrive nella dichiarazione di guerra qui trascritta: «Ho visto Ballarò. Dobbiamo fare anche noi a Mediaset un programma simile. Dobbiamo rispondere agli attacchi». (La Repubblica, 25 gennaio). Naturalmente avete riconosciuto la voce. È Silvio Berlusconi, il quale considera un attacco personale imporre regole di mercato alle sue televisioni. È una protesta comprensibile, se si tiene conto che lui è l’unico grande proprietario di televisioni private in Italia. Ed è l’unico politico al mondo che ha governato sostenuto da un partito formato dalle sue televisioni. Ma lui, senza pudore, annuncia che se si toccano gli interessi delle televisioni private di Silvio Berlusconi si attacca in modo grave e inaudito il capo della opposizione Silvio Berlusconi. Chiunque direbbe: risolviamo il problema con una buona legge sul conflitto di interessi. Berlusconi invece definisce «criminale» ogni intervento sulle sue proprietà. Lo costringerebbe a uscire dalla doppia illegalità: servire se stesso servendosi del Paese. Come vedete sono tre frasi esemplari, illogiche, prepotenti, minacciose. C’è l’orgogliosa identificazione del proprietario con il politico. Chi tocca l’uno tocca l’altro.
Questo spiega in che senso una testata è «omicida», (come i suoi dipendenti hanno detto de l’Unità, quando denunciava il conflitto di interessi di Berlusconi). Tra politica, proprietà e protezione di se stesso lui non vede alcuna differenza. Attacca e morde con una dichiarazione di guerra alle istituzioni a costo di autodenunciarsi come titolare del conflitto di interessi che ha passato anni a negare e altri anni a «risolvere» con la risibile legge Frattini che non prevede, per il pericoloso fenomeno alcuna sanzione.
Nel citato programma Rai Ballarò tutto lo schieramento berlusconiano negava che «lui» prendesse parte agli affari dell’azienda durante i Consigli dei ministri. «Ogni volta “lui” usciva. Ha affermato testualmente la ex ministro Prestigiacomo: «Do la mia parola d’onore che mai si è occupato dei suoi interessi». Simpatico, canagliesco e brutale, nella classica tradizione post romantica, il suo capo, benché così fedelmente assistito (fino all’impegno del proprio onore) la smentisce. Infatti dice: «Ho visto Ballarò e bisogna fare anche noi una trasmissione così a Mediaset. Dobbiamo rispondere a questi attacchi». In questo modo smentisce anche il suo rappresentante Confalonieri (che un po’ compare come vice ministro, un po’ come presidente Mediaset) che si era affannato a ripetere: «Le nostre tv al servizio di “lui” in politica? Mai, garantisco, mai!».
Ma lo spavaldo padrone non bada all’onore dei suoi e preannuncia una nuova battaglia di televisioni nella sua guerra infinita che tormenta l’Italia ormai da dieci anni. Durante questi dieci anni di doppio governo (affari e politica) Berlusconi ha raddoppiato la sua ricchezza.Eppure, forse per prudenza, nessuno accetta di considerarlo un pericolo. Anzi ti dicono, anche da sinistra, «non esageriamo, è un politico come gli altri». C’è una piccolissima differenza: Berlusconi è la quattordicesima ricchezza più grande del mondo, e due o tre capricci a quanto pare, se li può togliere quando crede. Però non si capisce perché, spargere intorno a lui il sussurro che più lo agevola: ma quale emergenza? Ma quale pericolo per la democrazia? E continuano a nascere proposte di cose da fare insieme. Prima o dopo le rivolte di popolo annunciate da Bondi?
* * *
«Si riapre la catena di processi della Sme», titolano alcuni giornali più coraggiosi. Si riferiscono alla sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato incostituzionale la «legge Pecorella». Con essa il presidente della commissione Giustizia della scorsa legislatura (e avvocato personale di Berlusconi in tutte le legislature), aveva confezionato la liberazione di Berlusconi dai giudici di Milano. Il pm non poteva più proporre appello contro un imputato assolto. Ora che questa normale competenza è stata restituita alla pubblica accusa, alcuni processi contro Berlusconi (a parte i nuovi) potranno continuare in secondo grado.
Qual è la risposta dell’ex Primo ministro noto nel mondo per aver aperto il semestre europeo italiano dando del «kapò» all’eurodeputato tedesco Schultz che aveva osato accennare alla cacciata di persone libere dalla Rai e al conflitto di interessi? Eccola, da statista: «Questa sentenza dimostra che tutte le istituzioni sono in mano alla sinistra». Come vedete il senso del ridicolo è scomparso da tempo. Quel che disorienta è che sia scomparso dal giornalismo. Non un accenno, da nessuna parte, alla portata eversiva del commento a questa sentenza, specialmente se collegata alle parole di Sandro Bondi, che annunciano una imminente rivolta di popolo. Eppure tutto ciò in fondo è poco se confrontato a quello che è accaduto e sta accadendo con la vicenda Mitrokhin. Provate a immaginare la mobilitazione che si sarebbe scatenata se - per puro e sfortunato caso - fosse stato presente, nello stesso albergo e nella stessa stanza, uno sbadato passante in qualche modo legato all’Unione, mentre stavano avvelenando al polonio l’ex spia sovietica Litvinenko. È certo che ogni giorno, in ogni talk show, con ricostruzioni e modellini, quell’atroce delitto sarebbe sugli schermi pubblici e privati di tutte le reti italiane.
Invece mentre assassinavano Litvinenko era presente chissà come, chissà come mai, il prof. Scaramella. Che non è professore ma, di professione, spia personale della Commissione Mitrokhin, cioè spia retribuita dalla Repubblica italiana. Missione: svelare che Romano Prodi era stato «uomo del Kgb», ovvero preparare, in caso di perdita delle elezioni, una buona ragione per la rivolta di piazza di Bondi e la rivincita di Berlusconi sulle leggi criminali contro le sue aziende e le sentenze criminali contro la sua persona. Scaramella,a nome e per conto della commissione Mitrokhin e del Senato della Repubblica italiana,il suo lavoro l’ha fatto, benché sia finito in prigione per calunnia e vi resti tuttora. Litvinenko è morto di una morte spaventosa avvelenato chissà da chi. Ma, guarda caso, ha lasciato una testimonianza. Prima di morire ha detto: «Prodi era un nostro uomo», le esatte parole commissionate a Scaramella dalla Commissione Mitrokhin (come risulta dalle intercettazioni pubblicate). Dopo morto non ha niente da dire.
Il caso sconvolgerebbe qualunque Paese, anche fuori dalle tradizioni democratiche dell’Occidente. Infatti una commissione parlamentare con poteri giudiziari ha lavorato per anni e con abbondanti fondi dello Stato, assumendo consulenti che poi sono risultati «da galera», allo scopo dichiarato di eliminare il capo dell’opposizione. Se è «legge criminale» la mite legge Gentiloni perché tocca di striscio gli interessi privati di un uomo ricchissimo, che adesso è anche capo dell’opposizione, come definire la commissione Mitrokhin e i suoi scopi da colpo di Stato? Ma tutto questo ci da modo di verificare la vasta conseguenza del quasi completo controllo mediatico nelle mani non di una sola coalizione o di un solo partito ma di una sola persona.
* * *
L’uso berlusconiano dei media pubblici e privati è così ferreo da cambiare la percezione degli eventi persino agli occhi degli esperti. E questo spiega la passione con cui Berlusconi si batte perché non glielo si limiti neppure marginalmente. E spiega perché non vuole sentire parlare di una vera legge sul conflitto di interessi nel senso del diritto occidentale. Infatti lo priverebbe della sua presunta magia carismatica. La persistenza negli anni di quel conflitto spiega anche qualcosa che altrimenti sarebbe davvero inspiegabile. Pensate che una rispettabile e rispettata docente associata di scienze politiche all’Università di Bologna, Donatella Campus, pubblica con le pregiate Edizioni del Mulino un testo scientifico intitolato «L’antipolitica al governo».
I tre personaggi esemplari proposti dalla prof. Campus sono De Gaulle, il generale che ha guidato la Resistenza francese e la rinascita di quel Paese, ha tenuto testa ai militari e fatto finire la guerra d’Algeria; Ronald Reagan, il personaggio che ha colto al volo l’occasione della Glasnost, ha aiutato il leader sovietico Gorbaciov a uscire senza danno dalle macerie del suo impero e ha - proprio lui, che parlava sempre di «impero del male» - portato Russia e America fuori dalla guerra fredda in modo dignitoso e indolore. E il terzo chi è? È Berlusconi, l’uomo che ha spaccato l’Italia e continua a spaccarla.
Nel libro della Campus Berlusconi è descritto come desidera essere Berlusconi, un audace liberal che si scrolla di dosso la politica tradizionale e inaugura un rapporto libero e inedito con la opinione pubblica. La Campus non nota che Berlusconi «entra in campo» con una cassetta, non in persona (dunque senza domande e senza dover rendere conto). E che da quel momento tiene costantemente i giornalisti a distanza e sotto intimidazione. A volte, fatalmente, e dopo gli esempi Biagi e Santoro, la categoria diventa ossequiosa. E incline alla celebrazione. Fenomeno irrilevante? È mai accaduto a De Gaulle o a Reagan? La Campus non nota le leggi ad personam, non nota le leggi vergogna, non nota l’uso degli avvocati difensori come deputati e senatori a capo di commissioni chiave per gli interessi personali del leader. Non nota la politica come finzione (Pratica di Mare), come repressione (Genova), come intimidazione ostentata e padronale (la messa in stato di accusa da parte dei suoi media, di chi gli tiene testa). Non nota l’illegalità di controllare e dirigere la Tv di Stato, mentre presiede controlla e dirige quella privata.
Il libro della Campus è il perfetto monumento al conflitto di interessi. Ci dice che quel conflitto di interessi, quando è abbastanza forte, colpisce soprattutto i media. Esso, infatti, cambia e riorganizza la percezione degli eventi anche gli agli occhi degli esperti. La controprova è nel libro di Marc Lazar uscito negli stessi giorni. Anche lui è un politologo ma, dalla Francia, lavora al riparo dal totale controllo mediatico che Berlusconi mantiene sull’Italia. Sentite che cosa scrive Lazar: «L’Italia è un grande malato e la terapia del dottor Berlusconi non gli ha permesso di ristabilirsi. L’economia ristagna e le prospettive sono fosche. Al di là dei proclami boriosi si perpetua una vecchia tradizione politica di immobilismo. Silvio Berlusconi non ha avviato alcuna liberalizzazione né innestato alcuna modernizzazione. Tuttavia ha verosimilmente significato un cambiamento completo dell’universo delle rappresentazioni mentali».
Berlusconi è certamente l’antipolitica. Ma in un senso distruttivo e vendicativo contro quella parte non piccola del suo Paese che non coincide con la sua proprietà. Solo il suo mondo inventato e strettamente sorvegliato dai media può avere indotto qualcuno, per quanto esperto, a scambiarlo per Reagan o De Gaulle.
* l’Unità, Pubblicato il: 28.01.07, Modificato il: 28.01.07 alle ore 8.24
Il vecchio e il nuovo
di Furio Colombo *
Due sere fa, nel corso del programma Ballarò vi era stata accesa discussione sul conflitto di interessi di Silvio Berlusconi. Fedele Confalonieri, sinceramente stupito, ha esclamato rivolto a me: «Come è possibile che lei, che è stato per anni vicino ad Agnelli, si scandalizzi per la ricchezza di Berlusconi?». La risposta è stata facile: «Agnelli aveva per le istituzioni il rispetto di ogni altro cittadino, e non si è mai sognato di governare». Ma è stato in quel momento (in pausa del programma) che il conduttore Giovanni Floris ed io ci siamo detti: «In questa puntata è necessario ricordare Leopoldo Pirelli». I tempi televisivi si sono mangiati tutto, ed è rimasta a Floris solo la possibilità di dire il nome di Pirelli nel giorno della sua morte, alla fine della trasmissione.
Eppure quel nome era il senso di tutto, per capire la faglia dentro cui in questi anni è scivolata l’Italia, dove - secondo alcuni - essere imprenditori non è più una responsabilità verso un intero Paese, ma soltanto una quotidiana protezione di interessi. Ora il problema non è se quegli interessi siano legittimi. Lo sono (e solo Berlusconi è un caso a parte, la invasione di una potenza economica nel campo politico per motivi e tornaconto personali). Il problema è osservare quanto sia diventato stretto l’orizzonte. Pensate a una scena come quella di Vicenza, in cui centinaia di imprenditori si prestano a fare da clack fanatica e volenterosa a un leader politico in declino, durante una impropria campagna elettorale che violava ogni regola europea, occidentale e democratica. E domandatevi se quella cerimonia di pubblica umiliazione di un imprenditore (Diego Della Valle) da parte di un altro imprenditore, Silvio Berlusconi, travestito da candidato premier avrebbe potuto avere luogo se Leopoldo Pirelli fosse stato presente, seduto in quella platea.
Si è detto, nelle molte rievocazioni di questi giorni (la più bella e toccante quella di Scalfari su la Repubblica) che Pirelli era schivo e timido. È vero, e con lui si parlava sempre in modo appartato, non attraverso una tavola o in un largo gruppo di persone. E non perché ci fosse qualcosa di segreto o esclusivo in ciò che diceva. Ma detestava l’idea di gettare un peso - il peso di uno dei maggiori imprenditori italiani - nel mezzo di qualunque conversazione. Come appare strana la parola “liberale” in un mondo, e in una società italiana, e in un mondo imprenditoriale in cui è stato liberale Pirelli. Eppure la sua presunta timidezza che era soprattutto desiderio di non interferire, di non invadere spazi e intimidire, benché involontariamente, chi lo ascoltava, non è stato silenzio. È stata una presenza civile e democratica che ha profondamente influenzato la vita e la società italiana, ha dato un punto di riferimento a Milano, un senso alle relazioni industriali, un capo e una coda ai discorsi sulla presunta prepotenza dei sindacati, un segnale di rispetto e di dignità nei confronti del lavoro. Con lui attivo e presente non avrebbero potuto esserci convegni in cui giovani imprenditori dedicano applausi da stadio a Giulio Tremonti, autore della non dimenticata crescita zero, fenomeno unico nella storia della Repubblica italiana. Mi piacerebbe, in questo giorno di ricordo affettuoso di un protagonista di questi decenni per cui ho avuto amicizia, ammirazione e stima, una di quelle persone che potevi citare con un certo orgoglio viaggiando all’estero, mi piacerebbe stare fuori dalle modeste (penose) questioni quotidiane che la vita italiana di oggi propone ogni giorno. Mi piacerebbe, ma come fare, visto che - ricordando Pirelli - tutto di lui evoca onestà, discrezione, rispetto quasi sacrale per la Costituzione nata dalla Resistenza, attenzione quasi maniacale a non interferire mai con le Istituzioni della Repubblica, meno che mai per screditarle o ridicolizzarle. La sua persuasione era che il ruolo di un imprenditore è prendersi responsabilità, non intonare il lungo lamento che quelle responsabilità le scarica ogni volta sugli altri. Pensate che avrebbe avuto senso con lui intavolare il discorso della competitività e della innovazione che non ci sono per colpa di questo governo (come ci sentiamo dire anche in questi giorni) proprio mentre i conti pubblici riprendono ad accostarsi a normalità, legalità, trasparenza restituendoci decoro nel mondo?
Ecco come ricordo Leopoldo Pirelli. Un uomo serio e sereno che ha fatto della responsabilità (verso il suo Paese, non solo verso i suoi affari) un punto di riferimento, che avrebbe avuto orrore di usare e abusare del suo agio e del suo potere per fare da megafono alla sua voce e togliere la voce agli altri, che non dimenticava che una impresa è parte di un Paese e che quel Paese è segnato dalla Storia, dalle istituzioni, dalla vita democratica, dal mondo di chi lavora e non solo dal mondo di chi “fa impresa” (come si dice oggi, ma l’espressione non era sua). E dalla cultura. La conosceva, la frequentava, ne era parte, e non si sarebbe mai sognato di trasformarla in prodotto per uso e beneficio personale. Capisco che a molti lettori giovani tutto ciò potrà apparire una affettuosa esagerazione. Pensate, era vero. Per questo, il rimpianto.
* l’Unità, Pubblicato il: 25.01.07, Modificato il: 25.01.07 alle ore 12.10
CHIUSE LE INDAGINI SUL FILM DI DEAGLIO *
ROMA - Chiuse le indagini della procura di Roma sui presunti brogli elettorali denunciati dal settimanale "Diario" nel film-documentario "Uccidete la democrazia". I pm Salvatore Vitello e Francesca Loy hanno chiesto l’ archiviazione della parte di indagine riguardante gli illeciti, attribuiti alla Cdl, che avrebbero modificato il dato elettorale e, contemporaneamente, depositato gli atti relativi alle posizioni di Enrico Deaglio, direttore del settimanale, e Beppe Cremagnani. La procedura prelude alla richiesta di rinvio a giudizio dei due autori del film per diffusione di notizie false, esagerate e tendenziose atte a turbare l’ ordine pubblico. "Mi sembra una accusa da anni ’60’’. Così Enrico Deaglio aveva commentato la decisione della procura di metterlo sotto inchiesta. "Sono stato indagato - disse - sulla base del presupposto che è impossibile manipolare i dati sulle elezioni a livello informatico". Circa la richiesta di archiviazione degli accertamenti sui brogli elettorali, i pm romani sostengono che il meccanismo di procedura elettorale non è manipolabile perché la Cassazione proclama il risultato delle elezioni solo tramite cartaceo. Ed il cartaceo, per gli inquirenti, è impossibile da modificare.
* ANSA » 2007-01-22 14:18
La giunta della Camera ha deciso di riesaminare il 10% dei seggi. ma in caso di irregolarità significative saranno vagliate tutte le sezioni
Elezioni, ricontare tutte le schede Berlusconi: "Ferita deve restare aperta"
Rutelli: "Non c’è motivo al mondo perché tutti i voti assegnati non vengano verificati". Calderoli all’attacco: "Prodi non vari la finanziaria e i presidenti si autosospendano" *
ROMA - Oltre 4 milioni di schede elettorali da ricontare. Lo ha deciso la Giunta per le elezioni della Camera, mettendo così fine ad una querelle che da mesi vedeva contrapposte Unione e Cdl. La Giunta ha istituito il Comitato di verifica nazionale per ricontare tutte le schede bianche, nulle, contestate e valide. Cominciando però dal 10% dei seggi. E’ quanto è stato deciso praticamente all’unanimità. Il riconteggio dovrà essere ultimato entro il mese di luglio del prossimo anno. A spiegarlo è il presidente della Giunta per le elezioni di Montecitorio, Donato Bruno, di Forza Italia.
Ad operare sarà un comitato di 10-12 componenti, uno per ogni partito. I nomi dei componenti dovranno essere comunicati al presidente della Giunta entro giovedì prossimo 21 dicembre. Successivamente, comunque entro la fine dell’anno, dovranno essere stabiliti i criteri con cui il comitato dovrà concretamente operare.
L’accordo trovato in Giunta prevede che se emergessero irregolarità significative, si riconteranno tutte le schede. E’ stato questo il punto di mediazione tra la proposta dell’Unione, che aveva fin dall’inizio chiesto che si rivedesse il 10 per cento, mentre la Cdl spingeva perché fossero ricontate tutte.
I lavori della Giunta delle Elezioni potrebbero terminare prima del luglio 2007, se l’esame del dieci per cento di sezioni non rileverà anomalie o proseguire ulteriormente se effettivamente fosse necessario procedere a un riconteggio complessivo.
I criteri di individuazione dei seggi da sottoporre al riconteggio saranno definiti in sede di Comitato di verifica. In pratica verrà scelta una sezione ogni dieci per ogni circoscrizione, in totale seimila sezioni. Verranno sottoposte a verifica anche le schede dei seggi per i quali sono state specificatamente segnalate anomalie da parte dei relatori circoscrizionali, una revisione che riguarderà un numero ulteriore di sezioni compreso tra le 300 e le 400.
Ovviamente, la questione ha sollevato una serie di commenti dei leader politici.
Berlusconi. "Bisogna insistere, la ferita deve restare aperta, anche alla Camera dobbiamo esigere il controllo delle schede", aveva detto in precedenza Silvio Berlusconi, durante il pranzo con i senatori azzurri. In sostanza, la Giunta per le elezioni ha già risposto positivamente alla sua richiesta.
Rutelli. "E’ giusto, non c’è motivo al mondo perché tutti i voti assegnati dagli elettori non vengano verificati. Se c’è un dubbio, il dubbio deve essere sciolto, quindi è un elemento di rasserenamento per tutti". Così il vicepremier Francesco Rutelli, ospite di ’Porta a porta’, che aggiunge: "C’è stato un gran circo per dire che le schede sono state truccate, contiamole...".
Calderoli. Secondo Roberto Calderoli, vice presidente del Senato e coordinatore delle Segreterie Nazionali della Lega Nord, Prodi ’’deve rinunciare all’approvazione di una legge finanziaria, non essendo più con certezza legittimato a governare il Paese, e deve procedere pertanto, in attesa del termine della suddetta verifica, all’ordinaria amministrazione attraverso l’esercizio provvisorio". Secondo Calderoli sarebbe anche auspicabile, "che il presidente della Repubblica e i presidenti dei due rami del Parlamento si auto-sospendessero dalle loro rispettive cariche fino al termine delle verifiche in questione’’.
Sgobio. "Va bene ma servirà a poco - afferma Pino Sgobio, capogruppo dei Comunisti Italiani alla Camera -. La decisione dalla Giunta della Camera è un ulteriore atto dovuto e necessario, ma non sarà sufficiente a fare piena luce e non servirà ad eliminare i tanti dubbi e le tante perplessità relative alla notte dello spoglio, quando un lungo silenzio si impadronì del normale flusso dei risultati".
Matteoli. "Un’ottima notizia, vince la trasparenza, la legalità, la democrazia", commenta il presidente dei senatori di An, Altero Matteoli. "Non c’è dubbio che sull’attesa decisione della Camera abbia influito positivamente - sostiene Matteoli - la precedente delibera assunta la settimana scorsa dalla omologa Giunta del Senato. Auspico che i tempi siano rapidi nell’interesse di tutti".
Bertinotti. La decisione di ricontare le schede è ’’ragionevole e tranquillizzante’’, per il presidente della Camera, Fausto Bertinotti. ’’Mi pare ragionevole - ha continuato Bertinotti - tanto ragionevole da essere unanime. Una campionatura su cui effettuare una verifica, tutto in una condizione di grande trasparenza. Non c’e’ nulla - ha concluso - che debba essere nascosto. Mi pare tranquillizzante’’.
* la Repubblica, 14 dicembre 2006
Il malessere della politica
di GIORGIO BOCCA *
Stupore e smarrimento sulle facce dei rappresentanti fischiati dai rappresentati, dei sindacalisti contestati dagli operai, degli onorevoli sbeffeggiati dagli elettori, dei poveri che svoltano a destra, dei consensi che svaniscono e non si sa come sostituirli, del generale malessere, della politica per cui se l’Unione ha i suoi guai non è che la Casa delle Libertà stia molto meglio. Interrogata sulla fragilità e imprevedibilità del consenso la senatrice Finocchiaro, che guida l’Unione al Senato, ha risposto: è una paura a cui la politica non sa dare una risposta convincente. Pensiamo che sia una risposta giusta.
Una paura da anno mille che tutti alimentano come mossi da un cupio dissolvi, paura della nostra barbarie che dura come del nostro progresso senza ordine, paura di catastrofi possibili e inevitabili, credibili in ogni senso, le acque che sommergono le terre come la siccità totale, la scienza che soccorre come quella che uccide, l’incertezza sulle previsioni come sui rimedi in cui i politici si trovano in prima fila sotto un fuoco amico che al minimo stormire di vento si trasforma in nemico, vedi l’incauta apparizione al Motor Show di Bologna di Romano Prodi che è uomo esperto e paziente, ma non può pensare di giocare impunemente entrambi i ruoli, quello del governante attento solo al bene pubblico e quello del populista in cerca di applausi.
Perché il ceto politico di sinistra come di destra attraversa un periodo di crescente impopolarità? Perché i fischi a Prodi fanno la pari con l’agitarsi a vuoto di Berlusconi, che quando bacia e abbraccia l’arrugginito Bossi sfiora l’osceno? Una delle ragioni principali a nostro avviso è l’uso padronale, monopolistico che i politici italiani di destra come di sinistra fanno del mezzo televisivo.
Si sono abituati da decenni a considerare le televisioni come cosa loro in cui anche l’ultimo dei peones ha diritto di apparire come mezzo busto, di dire la sua anche se il tempo e lo spazio che gli vengono concessi dall’orchestra sono risibili, un privilegio immeritato e controproducente.
Si convincano i politici che l’informazione, soprattutto quella televisiva, deve essere affidata agli informatori responsabili, selezionati, che hanno qualcosa di serio da dire. E non a tutti quelli che vogliono comparire. Si convincano che le recite, i cafarnao della democrazia televisiva, i dibattiti in cui l’occupazione principale dei partecipanti è di strappare la parola agli altri o di intimidirli con presunzione e maleducazione, non funzionano più.
Alla lunga il telespettatore si chiede se alcuni politici di facile eloquio siano stati eletti per fare i galletti nelle stie televisive o per governarci. Il consenso democratico degli elettori agli eletti è diminuito anche per la protervia e direi la cattiva educazione con cui essi respingono o mal sopportano le proteste o le critiche che gli vengono mosse. La nostra purtroppo è nata come democrazia di notabili di superciò.
A destra come a sinistra. Agghiacciante in tal senso l’episodio del comunista Palmiro Togliatti che nell’aula di Montecitorio smise di parlare con Pajetta perché un compagno senza nome si era avvicinato troppo e non se ne andava. La reazione di un nostro notabile agli interventi di un cittadino qualsiasi è ancora quella di Berlusconi che si rivolge a un carabiniere e gli chiede di "prendere le generalità" di chi lo disturba. La gente ha paura ed ha ragione di averla. E altre ne aggiunge ogni giorno. Non c’è da avere legittima paura? E il dovere della politica non è quello di affrontarla, di controllarla?
* (la Repubblica, 14 dicembre 2006)
Berlusconi: «Abbiamo vinto noi: ricontiamo tutte le schede» *
«Abbiamo il convincimento di aver vinto, ora bisogna ricontare tutte le schede». Il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi non ci sta. Non vuole saperne di essere ormai ex premier e rilancia con forza, come già aveva fatto il 2 dicembre da San Giovanni, il tema dei "grandi brogli elettorali" visti dal centrodestra. A nulla vale il fatto che la Giunta del Senato abbia già deciso di ricontare le schede bianche, nulle o contestate per tranquillizzare gli animi e «svelenire il clima» (per usare le parole di Anna Finocchiaro). Per Berlusconi le elezioni le ha vinte la Cdl. E poche battute lasciando Palazzo Grazioli per Milano fanno capire che il punto dolente di Berlusconi è ancora il voto degli italiani all’estero.
«A Berlusconi, che continua ad insinuare dubbi sulla regolarità delle elezioni politiche, mi permetto di ricordare che negli Stati Uniti il suo amico Bush ha vinto per appena trecento voti e nessuno, a distanza di tempo, ha più fatto riferimento ai voti della Florida» risponde il segretario dei Popolari-Udeur, Clemente Mastella, che sottolinea: «L’inutilità di una polemica che non aiuta certo la democrazia e non contribuisce a rasserenare gli animi. Si è deciso di ricontare i voti del Senato - aggiunge Mastella - ed allora attendiamo con serenità il risultato ».
«Berlusconi prosegue la sua inaccettabile campagna di delegittimazione e destabilizzazione - incalza con forza il segretario del Pdci Oliviero Diliberto - Ma di cosa parla? le vere irregolarità nel voto delle scorse elezioni sono state quelle relative ai strani e inspiegati ritardi nei flussi di dati a partire da città come Catania».
* www.unita.it, Pubblicato il: 10.12.06, Modificato il: 10.12.06 alle ore 17.20
"Ricontare le schede bianche e nulle"
Lo ha deciso la giunta per le elezioni del Senato. Berlusconi: è solo l’inizio *
ROMA. Sono circa 700mila le schede che saranno esaminate dal Senato tra le bianche, le nulle e le contestate nelle sette regioni in cui sarà effettuata la verifica. In particolare le bianche sono 292mila, le nulle 395mila mentre le contestate sono 250. A queste vanno aggiunti i voti nulli, circa 2mila. A giudizio del senatore di Forza Italia, Lucio Malan, questo lavoro «sarà avviato prima di Natale». Il via libera al riesame delle schede nulle, bianche e contenenti voti nulli o contestati è arrivato dalla giunta per le elezioni del Senato. Si partirà dalle sette regioni in cui il distacco tra le due coalizioni era più ridotto: Calabria, Campania, Lazio, Lombardia, Puglia, Sicilia e Toscana.
La giunta ha anche stabilito che sarà effettuata una revisione delle schede valide, in base a una ’campionaturà che sarà fatta tenendo conto dei seguenti criteri: l’assenza del verbale o la notevole differenza tra i dati dichiarati sul verbale e quelli verificati sulla revisione; l’assenza di schede nulle e contestate; la presenza di rappresentanti di lista appartenenti a una sola coalizione o l’assenza nel seggio di rappresentanti di lista per ambedue le coalizioni.
Il ministro per l’Attuazione del Programma, Giulio Santagata, in una intervista al Messaggero, sottolinea che «L’Unione non deve temere il riconteggio del Senato. Anzi tiriamo un sospiro di sollievo perché così si rasserena il clima avvelenato sin dalla notte del 9 aprile da sospetti e diffidenze. Berlusconi - prosegue Santagata - grida ai brogli perché non si rassegna alla sconfitta ma è chiaro che il risultato è quello proclamato ufficialmente dalla Corte d’appello e che il Governo opera in piena legittimità. Comunque, anche noi avevamo delle inquietudini riguardo alle anomalie riscontrate con le schede bianche. E crediamo che questo riconteggio possa restituire serenità non solo alla maggioranza ma a tutto il Paese».
Soddisfatto il presidente di Forza Italia, Silvio Berlusconi, che, però, insiste nella richiesta di ricontare tutte le schede: «Questa decisione è un primo passo positivo soprattutto perché è stata presa all’unanimità. Ma io insisto, dobbiamo ricontare tutte le schede, bianche e nulle». Una posizione condivisa anche dall’ex ministro dell’Interno Giuseppe Pisanu: «È una decisione saggia e utile, ma non riguarda in alcun modo l’operato del ministero dell’Interno».
Decisamente compiaciuto Enrico Deaglio, il direttore di Diario, che con la sua inchiesta ha sollevato la questione delle schede bianche. «Ora io partecipo dell’accusa di diffusione di notizie false e tendenziose insieme all’intera Giunta del Senato...» ha detto Deaglio che è indagato dalla Procura di Roma con l’accusa di aver diffuso notizie false attraverso il suo Dvd «Uccidete la democrazia». Dichiaratamente scettico il leader della Lega Umberto Bossi, secondo cui alle elezioni 2006 «qualche broglio c’è stato», ma «la Giunta delle elezioni non approderà a niente». «Bisogna fare chiarezza nel modo giusto, con le elezioni».
* La Stampa, 7/12/2006 (9:12)
Giunta Senato: "Ricontare schede bianche"
ROMA - La giunta per le elezioni del Senato ha deciso all’unanimità il riconteggio totale delle schede nulle, bianche e contenenti voti nulli o contestati, a partire da sette regioni: Calabria, Campania, Lazio, Lombardia, Puglia, Sicilia e Toscana. La decisione è stata presa all’ unanimità dalla giunta, che ha deliberato di procedere al riconteggio.
Inoltre la giunta ha deciso di procedere alla revisione delle schede valide, custodite nei diversi tribunali, secondo una ’campionatura’ che sarà decisa dai comitati di revisione schede, tenendo conto dei seguenti criteri: l’assenza del verbale o la notevole differenza tra i dati dichiarati sul verbale e quelli verificati sulla revisione; l’assenza di schede nulle e contestate; la presenza di rappresentanti di lista appartenenti a una sola coalizione o l’assenza nel seggio di rappresentanti di lista per ambedue le coalizioni. Nel caso in cui i risultati rivelino "scostamenti significativi" rispetto ai dati di proclamazione, si dovrà estendere la procedura di revisione delle schede anche alle altre regioni e alla circoscrizione estero.
(la Repubblica, 6 dicembre 2006)
Centrodestra in piazza "Contro il regime di Prodi"
LA DIRETTA. La protesta di Forza Italia, An e Lega. "Finanziaria di regime". Partono i tre cortei, alle 17 i comizi a San Giovanni. Bonaiuti: "Berlusconi è caricatissimo". In strada striscioni, pupazzi e cartelli contro il governo. Il premier: "Non sono preoccupato". L’Udc a Palermo. Buttiglione: "La Cdl è morta"
Cdl in piazza, Buttiglione attacca "Aiutiamo Berlusconi a uscire di scena"
Cicchitto: "Niente scuse, è stato solo un equivoco". Il Manifesto sui pass per la stampa: "Inaudito, sono mezzi di propaganda"
Non sottovalutiamo
di Valentino Parlato (il manifesto, 03.12.2006)
Non è stata e non poteva essere - come pure Berlusconi si augurava - la marcia dei 40.000 quadri Fiat del 1980: ma è stata una manifestazione che sarebbe un grave errore sottovalutare. Non erano due milioni, ma erano comunque moltissimi e poi, la cosa a mio parere più importante, rappresentavano una parte rilevante dell’attuale società italiana.
Non bisogna dimenticare che nelle ultime elezioni politiche lo scarto tra centrosinistra e centrodestra è stato modesto; dobbiamo avere sempre presente che nella società italiana di oggi il berlusconismo è una cultura diffusa; e tanto meno si deve dimenticare che nell’elettorato di centrosinistra è cresciuta la tentazione dell’astensionismo. Certo, c’è stato lo sforzo organizzativo e ci sono stati i soldi di Forza Italia, ma sarebbe assolutamente erroneo e controproducente definire «vacanze romane» la giornata di ieri.
L’adunata in piazza San Giovanni è stata una cosa seria. Molto presente e vivace (anche con Gianfranco Fini in motocicletta) era Alleanza nazionale, ma poi c’erano - più numerose e preoccupanti - le famiglie di Forza Italia (nel suo discorso Berlusconi ci ha ubriacati di familismo).
Il discorso di Berlusconi, protagonista e «santo» della giornata, è stato assolutamente vuoto. Non ha osato avanzare nessuna proposta appena credibile di politica: solo slogan dopo slogan. Ma è stato un discorso dichiaratamente eversivo. L’attuale governo - ha detto - non solo è contro il popolo, ma non ha più la maggioranza e si fonda sulla «barbarie comunista»; addirittura, in un impegno di demagogia, Berlusconi ha chiesto la riconta dei voti delle ultime elezioni politiche. Sempre nei giochi della politica, che ci sono stati anche a piazza San Giovanni, Fini ha insistito, per alzarne il prezzo, sulla sua fedeltà. Ma poi Berlusconi lo ha costretto a far pace con Alessandra Mussolini. I soliti giochi - nei quali Casini subisce un insuccesso.
E il centrosinistra, accusato di essere il borseggiatore dei cittadini, che dice? Debbo confessare che mi viene il sospetto - certamente cattivo e spero sbagliato - che, così come Prodi si regge su Berlusconi, anche Berlusconi si regga su Prodi. Se così fosse, povera Italia.
Ma torniamo al centrosinistra. Non può prendere sottogamba - come mi pare abbia fatto Prodi - la giornata di ieri e le centinaia di migliaia di persone che erano a Roma. Ma non può neppure mettersi a far concorrenza a Berlusconi. Dovrebbe avere - e può ancora riuscirci - delle posizioni nette: sull’economia, sul fisco, sul lavoro, sulla scuola e su tutto il resto. E dovrebbe avere anche la forza di mandare un messaggio di moralizzazione della politica.
Conterà poco dal punto di vista della contabilità nazionale, ma sarebbe pur sempre un messaggio di fuoriuscita dalla cultura berlusconiana che in questa fase infetta il paese. Le persone che affollavano ieri piazza San Giovanni - mosse certamente dagli egoismi della cultura berlusconiana - a un messaggio forte di moralizzazione, credo, sarebbero sensibili.
Il segretario Ds sull’uso delle informazioni raccolte da Scaramella su esponenti del centrosinistra, tra cui Prodi, che Guzzanti riferiva al premier di allora
Fassino attacca la "Mitrokhin" "Volevano stravolgere la democrazia"
Esposto dei Verdi: "O Berlusconi sconfessa, o è il regista". Il senatore di Forza Italia: "Contro di me maccartismo rosso" *
ROMA - "Hanno tentato di stravolgere la democrazia nel Paese". Il segretario Ds, Piero Fassino attacca frontalmente la gestione della Commissione Mitrokhin da parte del senatore di Forza Italia, Paolo Guzzanti che la presiedeva. Le intercettazioni delle telefonate tra Guzzanti e l’"informatore" della commissione, Mario Scaramella (pubblicate oggi dal Corriere della Sera) confermerebbero infatti che Scaramella aveva indagato su Prodi, Bassolino e Pecoraro Scanio (e altri uomini del centrosinistra). Guzzanti (convinto da tempo che Prodi sia stato l’uomo di riferimento del Kgb in Italia) voleva comunicare al "Capo" (cioé Berlusconi in persona) i risultati del lavoro di Scaramella.
La protesta di Fassino. Preoccupate le parole di Fassino: "La vicenda Mitrokhin conferma quel che il caso Telecom Serbia aveva fatto emergere: è stata perseguita un’azione di denigrazione personale e di destabilizzazione istituzionale con cui si puntava a colpire e delegittimare il centrosinistra e i suoi principali esponenti politici". "Non sono più tollerabili - aggiunge - reticenze e inaccettabili ambiguità. E’ tempo che si faccia chiarezza e si individuino le responsabilità politiche e personali di chi ha tentato di stravolgere la vita democratica del paese".
Scaramella indagato. A stretto giro arriva la decisione della procura di Roma di indagare Scaramella (già sotto inchiesta nella capitale per traffico d’armi) proprio per l’uso fatto delle informazioni raccolte su Prodi ed altri esponenti del centrosinistra. La nuova ipotesi di reato della quale si è avuto notizia oggi si riferisce proprio all’attività svolta da Scaramella in seno alla commissione parlamentare presieduta da Paolo Guzzanti. E non è escluso che gli inquirenti possano configurare nei confronti dell’ indagato anche l’ipotesi di calunnia. In ambienti della procura di Roma vige il massimo riserbo sull’ inchiesta condotta dal pm Pietro Saviotti che nei giorni scorsi ha ascoltato come testimone il fratello di Litvinenko.
Guzzanti scrive a Marini e Bertinotti. Ma Guzzanti si ritiene ingiustamente attaccato e scrive ai presidenti di Camera e Senato denunciando la "gravissima aggressione alle prerogative del Parlamento e dunque della democrazia" dovuta alle intercettazioni relative alle sue conversazioni con Scaramella. Ma mentre protesta vibratamente, ne conferma i contenuti e ammette esplicitamente di aver fatto raccogliere informazioni su Prodi ("sono sempre stato convinto e l’ho detto apertamente che era l’uomo di riferimento del Kgb in Italia"), Bassolino e Pecoraro Scanio ("ma su loro non risultava niente e non sono mai state usate").
Le intercettazioni dimostrano ampiamente che Scaramella (oggi coinvolto nel caso dell’omicidio di Alexandr Livtinenko) riferiva a Guzzanti su politici del centrosinistra in merito ai loro rapporti con l’ex Unione Sovietica e che Guzzanti ne parlava "al Capo", cioé a Berlusconi in persona. Ma, secondo il senatore di Forza Italia "io facevo semplicemente il lavoro che mi ordinava la legge istitutiva della commissione".
Guzzanti, però, è letteralmente inferocito sulle intercettazioni che sarebbero state in un certo senso "estorte con un trucco": "In spregio di ogni norma e di ogni tutela del Parlamento - scrive nella sua missiva a Bertinotti e Marini - vengono diffuse e pubblicate trascrizioni di conversazioni telefoniche non solo di un membro del Parlamento, ma addirittura del Presidente di una commissione bicamerale d’inchiesta nel pieno delle sue funzioni". L’ex presidente della Mitrokhin conferma poi tutti i suoi sospetti sui rapporti tra Prodi e il Kgb, ma aggiunge: "Vanamente si potrebbe cercare e trovare non dico un dossier (che non è mai esistito) ma una semplice frase, una riga, una sola parola da me pronunciata o usata contro esponenti dell’attuale maggioranza in relazione alla commissione Mitrokhin. E ciò nondimeno - sottolinea Guzzanti - io rivendico il sacrosanto diritto alla parola, alla comunicazione privata".
Quanto ai rapporti con Scaramella (oggi, il ministro degli Esteri D’Alema ha detto, rispondendo a un’interrogazione che non era un agente dei servizi italiani), Guzzanti afferma di aver ricevuto da lui "informazioni sempre precise, corrette e inquietanti sulla continuità tra il Kgb e l’Fsb", l’attuale servizio segreto russo. Guzzanti ha anche rinviato a data da concordare la prevista audizione al Copaco, il comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti che doveva ascoltarlo sulla vicenda Mitrokhin-Livtinenko.
L’esposto dei Verdi. "Presenteremo un esposto alla Procura di Roma perché indaghi sulle dichiarazioni apparse sui giornali, e purtroppo solo sui giornali, sul ruolo di tale Mario Scaramella all’interno della commissione mitrokhin". Lo annuncia il capogruppo dei Verdi alla Camera Angelo Bonelli. Secondo lui "Guzzanti ha fatto un uso politico indecente della commissione, teso a screditare l’opposizione, a perseguire un disegno destabilizzante per il paese, ad acquisire informazioni, poi non arrivate, sull’opposizione, su Romano Prodi e anche sul ministro e presidente dei Verdi Alfonso Pecoraro Scanio. I fatti sono due: o Berlusconi sconfessa Guzzanti, oppure è il regista dell’operazione".
* la Repubblica, 30 novembre 2006
Forza Italia ordina bandiere Udc per il corteo. Cesa: voglio scuse *
I centristi, forse, non aspettavano altro. L’occasione per ribadire che la manifestazione della Cdl sabato a Roma è sì contro il governo, ma soprattutto contro di loro. La dimostrazione è arrivata nel modo più sfacciato. Perché ordinare 1500 bandiere dell’Udc da portare in piazza nonostante la mancata adesione alla protesta del partito di Casini, è davvero troppo. «È un fatto che riteniamo offensivo, l’Udc non è in vendita», denuncia senza mezzi termini il segretario Lorenzo Cesa, dopo ave letto sul Corriere della Sera che l’ordine è partito direttamente da Forza Italia. Le parole casono pesantissime, insieme alla richiesta di scuse immediate, pubbliche e chiare quanto le accuse: «È un tentativo di inquinamento della vita democratica del Paese, un fatto di una gravità totale».
Altrettanto duro Bruno Tabacci: «È difficile trovare le parole per commentare una cosa del genere. È una vergogna totale. Ed è la conferma di un clima del centrodestra che non mi piace per nulla». Parole di rottura. Ma dagli alleati non arrivano né chiarimenti né scuse. Anzi: il coordinatore di Forza Italia smentisce stizzito che il suo partito possa aver «ordinato bandiere dell’Udc». E maliziosamente aggiunge: «Se ci fossero pullman dell’Udc non sono stati invitati da noi, né organizzati da noi. Non vogliamo fare alcuna polemica. Ognuno fa la propria manifestazione nel rispetto reciproco».
«L’opposizione mette in piazza le sue divisioni», commenta Antonello Soro della Margherita. Quanto al merito della protesta, «il centrodestra cerca legittimamente di cavalcare i dissensi e le opposizioni sociali. Sarebbe apprezzabile se contemporaneamente offrissero proposte costruttive per migliorare la qualità della manovra, nel rispetto dei saldi». Anche per Franco Giordano, segretario di Rifondazione Comunista, «sarebbe bene che le destre potessero dire qual è la loro legge finanziaria». Perché «la loro legge finanziaria sarebbe stata quella di tagliare le pensioni, la sanità e il pubblico impiego. E questo è bene che lo si sappia»
* www.unita.it, Pubblicato il: 30.11.06 Modificato il: 30.11.06 alle ore 14.23
Cdl: corteo, polemica su bandiere Udc Cesa: ’tentativo d’inquinare la vita democratica’ *
(ANSA) - ROMA, 30 NOV - E’ polemica per le notizie di stampa sul presunto ordine di 1500 bandiere Udc da parte degli organizzatori del corteo del 2 dicembre.Il segretario dell’Udc Cesa parla di ’tentativo di inquinare la vita democratica del Paese’.Cicchitto (Fi) commenta: ’le persone non le controllano i partiti’, ma smentisce la notizia. Brancher, del comitato organizzatore, parla di ’segnalazioni di pullman dell’Udc che verranno a Roma’. Ronchi (An): ’polemica che sembra fatta per coprire di ridicolo la Cdl’.
* ANSA, 2006-11-30 16:31
La Mitrokhin indagava su Prodi. Fassino: attacco alla democrazia *
«La vicenda Mitrokhin conferma quel che il caso Telecom Serbia aveva fatto emergere: è stata perseguita un’azione di denigrazione personale e di destabilizzazione istituzionale con cui si puntava a colpire e delegittimare il centrosinistra e i suoi principali esponenti politici». Sono dure le parole del Segretario dei Ds Piero Fassino dopo gli ultimi sviluppi della vicenda legata al famigerato dossier Mitrokhin e alla commissione d’inchiesta parlamentare relativa.
Il Corriere della sera ha pubblicato la trascrizione delle telefonate tra l’informatore Mario Scaramella (coinvolto nel caso dell’avvelenamento dell’ex spia russa Litvinenko e soprattutto indagato per violazione del segreto d’ ufficio, oltre che per traffico di armi) il senatore di Forza Italia Paolo Guzzanti, presidente della commissione Mitrokhin. Telefonate in cui sostanzialmente Guzzanti chiede a Scaramella di indagare su prodi, Pecoraro Scanio e Bassolino, in maniera da screditarli. In particolare Guzzanti chiede al collaboratore di dimostrare che l’attuale premier e il leader dei Verdi erano «agenti del Kgb» e che il presidente della Regione Campania aveva assegnato appalti a cooperative rosse legate alla camorra.
«Non sono più tollerabili reticenze e inaccettabili ambiguità. È tempo che si faccia chiarezza e si individuino le responsabilità politiche e personali di chi ha tentato di stravolgere la vita democratica del Paese» chiede adesso Fassino.
* l’Unità, Pubblicato il: 30.11.06 Modificato il: 30.11.06 alle ore 19.20
Ancora polemiche sulle bandiere dell’Udc acquistate da Forza Italia per la manifestazione di Roma. "Azione vergognosa"
Cdl in piazza, Buttiglione attacca "Aiutiamo Berlusconi a uscire di scena"
Cicchitto: "Niente scuse, è stato solo un equivoco". Il Manifesto sui pass per la stampa: "Inaudito, sono mezzi di propaganda"
ROMA - Non si placano le polemiche innescate dal caso delle bandiere dell’Udc acquistate da Forza Italia per la manifestazione di Roma contro la finanziaria. Se ieri Pierferdinando Casini aveva stigmatizzato il comportamento degli alleati della Cdl ("il fuoco amico è il peggiore") oggi tocca al presidente del partito centrista, Rocco Buttiglione, attaccare: "Bisogna aiutare Berlusconi a uscire di scena con grazia e non con un capitombolo". Non solo. Dopo la querelle sulle bandiere, si apre anche quella sui pass per la stampa targati politicamente.
Dai microfoni di Radio Città Futura Buttiglione si scaglia contro l’iniziativa di Forza Italia definendola "assolutamente vergognosa". "Non si può far finta che la gente dell’Udc scenda in piazza quasi per delegittimare la dirigenza dell’Udc che invece va a manifestare a Palermo. Ordinare bandiere per farle sventolare dai propri militanti, se è vero e spero che non lo sia, sarebbe una cosa vergognosa".
L’Udc domani manifesterà a Palermo: "Noi manifesteremo contro la Finanziaria. Ma mentre tutti in Italia pensano che il primo problema del paese sia quello economico, noi pensiamo che il primo problema dell’Italia sia quello dell’educazione, della trasmissione dei valori e di una cultura che è allo sbando. Anche i problemi dell’economia nascono da questa cultura allo sbando da questa mancanza di criteri chiari per definire ciò che serve per lo sviluppo del paese e ciò che serve per la solidarietà".
Sull’offerta di Ignazio La Russa capogruppo An che ieri aveva invitato l’Udc a uno scambio di delegazioni che avrebbero partecipato alle due manifestazioni, Buttiglione risponde: "Mi pare una buona proposta ma non credo sia più realizzabile perchè arriva fuori tempo massimo".
Poi Buttiglione torna sul leader di Forza Italia: "Domani a Roma sarà un’apoteosi di Berlusconi senz’altro intesa anche come una grande manifestazione di affetto e ci dispiace di non essere presenti da questo punto di vista, ma non cambia nulla alla sostanza politica dei problemi davanti ai quali si trova l’Italia. Ogni grande politico ha il suo ciclo politico che secondo me si sta concludendo. E allora bisogna aiutare Berlusconi a uscire di scena con grazia e non con un capitombolo".
Intanto l’azzurro Fabrizio Cicchitto ribadisce che, sulla vicenda bandiere, c’è un equivolo e Forza Italia non si deve scusare con l’Udc: "La nuova Dc partecipa alla manifestazione e ha chiesto al comitato di fare delle bandiere - c’è stato un equivoco tra Nuova Dc e Udc. Noi non ci mettiamo a inventarci un affare per cui mettiamo duemila bandiere false di un partito che non partecipa".
E proprio oggi si apre il nuovo fronte delle polemiche con il direttore del Manifesto, Gabriele Polo che denuncia i braccialetti stampa con lo slogan della manifestazione per avere accesso al retro del palco. "Vuol dire che staremo dall’altra parte della ’barricata’", taglia corto. Il pass - sul quale si addensano le critiche di Polo - è infatti un braccialetto di plastica azzurro con su la scritta "Contro il governo delle tasse, per la liberta": lo si dovrà indossare per accedere all’area riservata alla stampa dietro il palco di San Giovanni.
"Si cerca di usare - dice ancora il direttore - il corpo del giornalista come mezzo di propaganda. Un fatto assolutamente inedito in Italia, mi pare. Sembra un po’ ciò che succede ai giornalisti ’embedded’ inviati nelle zone di guerra, che per lavorare devono passare al vaglio della censura militare". Conclude ironicamente Polo: "Riconosco la genialità perversa di Silvio Berlusconi e mi inchino".
* la Repubblica, 1 dicembre 2006
Litvinenko una storia italiana
di Furio Colombo
Oggi, nel giorno che segue il malore ancora inspiegato di Berlusconi, è doveroso associarsi agli auguri di Prodi. Non c’è bisogno di essere amici, meno che mai dipendenti, per augurare a una persona temporaneamente colpita da un male, un voto sincero di guarigione. È bene che la sua voce torni netta come è sempre stata per poter ascoltare, capire e interpretare senza finzioni ciò che lui, con molta chiarezza, continua a dire.
Ieri, a Montecatini, ha concluso: «Vi lascio in eredità il partito della Libertà».
Dando per scontato che Berlusconi stia bene e che continuerà a ripetere questa frase, è necessario capirla.
Essa è la chiave di tutta la vicenda Litvinenko-Scaramella-Guzzanti, una vicenda fuorilegge, che diventa torbida e finisce tragicamente nel delitto Polonio 210.
Il fatto è: una ex spia del Kgb è stata uccisa a Londra alcuni giorni fa alla presenza di un ex collaboratore di primo piano della Commissione Mitrokhin del Parlamento italiano. Era la commissione presieduta da Paolo Guzzanti che (ci informa un documento pubblicato ieri da la Repubblica) Litvinenko chiamava «Pablo», forse perché aveva subito percepito il senso allucinato, da narrazione latino americana, della vicenda italiana.
Intanto prendiamo atto di un fatto cruciale. I due documenti pubblicati ieri da la Repubblica (trascrizione di una conversazione Euvgenji Limarev, e di un incontro a Londra con Aleksandr Litvinenko, entrambi ex spie del Kgb, entrambi sotto contratto con la commissione italiana Mitrokhin) annunciano che la pista di un delitto che ha impressionato il mondo passa dall’Italia.
Le due voci, quella del vivo e quella del morto, ci dicono di un intenso lavoro che era in corso in Italia, con tutti i mezzi (le loro parole ci dicono: legale e illegale) che quell’intenso lavoro si chiamava commissione Mitrokhin, che ha avuto due protagonisti di spicco, Scaramella e Guzzanti, ciascuno dei quali compare in momenti diversi accanto all’uomo appena eliminato.
Che cosa stavano facendo, quando le due ex spie sovietiche li hanno visti lavorare da appartamenti «coperti» basi segrete o comunque non identificate, scortati da personale che poteva o no essere dello Stato, spendendo somme che potevano o no essere legali, svolgendo una funzione che poteva o no essere compatibile con i codici italiani?
La risposta c’è: l’ha data Silvio Berlusconi domenica mattina. Stavano combattendo per la libertà secondo le direttive del leader. Infatti quando si annuncia una crociata per la libertà, senza una sola frase di spiegazione (libertà individuale? libertà di mercato? libertà di parola o di espressione? libertà dei diritti umani? dei diritti civili? della integrità fisica?) significa che la minaccia è totale e che vi è un’altra parte (quella «comunista» che copre l’intero arco della opposizione a Berlusconi) che va eliminata perché impedisce la libertà. E va eliminata senza badare ai costi. Le due ex spie russe vedono passare somme ingenti. E va eliminata senza badare ai mezzi. Le due ex spie russe sono state arruolate facendo loro credere che avrebbero denunciato i delitti di Putin. Va eliminata senza badare ai rischi. Molte delle cose dette dalla ex spia Litvinenko devono essere state inavvertitamente passate «all’amico Putin». «Mi sono accorto che siamo stati usati», dice a la Repubblica l’ex spia Limarev, quello finora sopravvissuto.
La Commissione Mitrokhin deve essere stata uno strumento di lotta estrema e - avranno pensato i protagonisti - a momenti disperata, per la libertà, se si è pensato di creare una istituzione talmente anomala per un regolare Parlamento democratico, un organismo di indagine senza limiti e senza frontiere, pur di mettere con le spalle al muro i nemici la cui sopravvivenza politica è stata giudicata non tollerabile.
Del resto, come si ricorderà, accanto alla commissione Mitrokhin (di cui adesso finalmente si può rivendicare la natura non ridicola e non grottesca, che invece molti, in buona fede avevano creduto di vedere in quella strana avventura allora non decifrata) è scattata subito anche la commissione Telekom Serbia.
Il suo teste chiave, che avrebbe dovuto incastrare Prodi, Fassino e Dini, è risultato un noto imbroglione internazionale ed è finito in prigione prima che il presidente di quella commissione e i vari illustri avvocati che lo scortavano avessero il tempo di redigere una plausibile relazione finale.
Messe l’una accanto all’altra, le due commissioni - che lasciano un segno tremendo nella vita parlamentare italiana - svelano come si conduce la lotta del partito unico della libertà di cui ci ha parlato Berlusconi a Montecatini.
Una delle due commissioni avrebbe dovuto eliminare i leader dell’opposizione. L’altra aveva il compito di colpire nel mucchio, cercando di estrarre quanti più nomi di indiziati da perseguire. Ma senza escludere punti di congiunzione e sovrapposizione fra i due strumenti di lotta per la libertà. Anche la Mitrokhin cercava legami fra Prodi e il Kgb (o fra Prodi e il rapimento di Moro). E persino fra l’azienda Olivetti, sospetta di Ulivismo, e il Kgb.
Ed entrambe le ex spie sovietiche, che nel Kgb, ai tempi del primo Putin, devono averne visti di eventi incredibili - hanno raccontato agli intervistatori di Repubblica il loro disorientato stupore nello scoprire che la commissione che li aveva arruolati non lavorava contro la malavita e le mafie, ma contro l’opposizione italiana. In entrambi i documenti, finora i primi che abbiano fatto davvero luce sul febbrile lavoro Scaramella-Guzzanti, i due ex agenti dicono di essersi resi conto che il fine grottesco e ad essi estraneo per cui erano stati arruolati non li esentava affatto dal pericolo.
A quanto ci dicono, essi accettavano di correre quel pericolo per smascherare, con l’aiuto di una legittima commissione parlamentare italiana, il peggio del pericolo Putin.
Uno dei due dice di avere capito l’errore quando ha visto in televisione Berlusconi intento ad abbracciare e baciare, e lodare come un riferimento della sua vita, «l’amico Putin».
L’altro, forse, avrà rivisto come in flash la sua incredibile esperienza italiana quando, invece di far luce sulle stragi cecene, volevano fargli inchiodare Pecoraro Scanio o Umberto Ranieri al loro passato di spie sovietiche.
Avrà rivisto i misteriosi Suv «guidati da agenti della polizia penitenziaria italiana» che li prelevavano negli aeroporti e li portavano in appartamenti senza identificazione, dove assistevano alle continue telefonate fra un leader (Scaramella) e l’altro (Guzzanti) con accenni deliberati e pesanti al vertice del sistema politico americano. Avrà rivisto la quantità di denaro che si riversava in quelle teatrali operazioni. E la quantità di uomini che, intorno alla commissione Mitrokhin, vedevano in azione e in movimento, senza capire perché.
Ma in punto di morte, e di una morte così atroce, non si può sorridere.
Suggerisco che non ne sorridiamo neppure noi, nonostante certi aspetti vistosamente ridicoli (e - per un italiano - umilianti) della vicenda.
Non possiamo sorridere perché la libertà che Berlusconi voleva «difendere» con gli strumenti della commissione Telekom Serbia e della commissione Mitrokhin, in realtà era nostra, la libertà dell’Italia, attaccata da italiani con uomini e mezzi in stile Pinochet. Ricordate quando l’abbiamo detto per la prima volta, tanti anni fa, su questo giornale. Sembrava una bestemmia e come tale è stata trattata. Ora rileggete ciò che Limarev e l’assassinato Litvinenko hanno detto a Repubblica e domandatevi se c’è niente, in ciò che loro descrivono della loro esperienza come «consulenti» della commissione Mitrokhin, che ricordi una democrazia e uno Stato di Diritto.
Non possiamo sorridere perché c’è un cadavere lungo questo percorso. Ed è presente per un caso strano e ancora da spiegare, sul luogo e nel tempo del delitto, un personaggio di primo piano della commissione Mitrokhin.
Ora anche l’ex presidente di quella commissione (che non corrisponde in nulla a una istituzione della Repubblica in base alla Costituzione), afferma di essere in pericolo.
Se è vero, o anche se esiste il minimo dubbio, chiediamo che sia protetto. Lo diciamo volentieri da questa «testata omicida», che è stata dichiarata tale per avere definito «regime» il tempo in cui si sono svolte le avventure ora narrate dalle testimonianze di Limarev e confermate dalla morte di Litvinenko. Se un regime è disporre di tutti gli strumenti, dal conflitto di interessi alle leggi ad personam, dall’uso arbitrario delle polizie regolari a quello delle polizie parallele, dall’arruolamento di personaggi misteriosi con sigle misteriose (chi è in realtà Mario Scaramella, l’uomo che con soldi italiani va per il mondo ad arruolare agenti di servizi di altri Paesi da usare contro l’Italia e si trova per caso presente alla morte di uno di essi?) all’uso francamente illegale di istituzioni della Repubblica come le commissioni parlamentari, allora tristemente e orgogliosamente confermiamo: è stato un regime.
Il giornalista è finito nel mirino dei pm di Roma titolari dell’inchiesta. Ha denunciato presunti brogli nel film-documentario "Uccidete La democrazia"
Elezioni, Deaglio indagato per diffusione di notizie false
Il direttore di Diario: "E’ uno sbarramento al giornalismo d’inchiesta". Pisanu: ’’Chi gli ha dato credito ora si vergogni’’ *
ROMA - Enrico Deaglio è indagato dalla procura di Roma per diffusione di notizie false, esagerate e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico nell’ambito dell’inchiesta aperta sui presunti brogli elettorali denunciati nel film-documentario "Uccidete La democrazia". Lo ha annunciato lo stesso direttore di Diario. "Sono stato indagato - ha spiegato - sulla base del fatto che è impossibile manipolare elettronicamente i dati ufficiali". Insieme a lui, è finito sotto inchiesta l’altro autore, Beppe Cremagnani.
L’iscrizione di Deaglio nel registro degli indagati della procura di Roma è stata disposta dai pubblici ministeri Salvatore Vitello e Francesca Aloi nel corso dell’interrogatorio del giornalista.
Il codice. "Chiunque pubblica o diffonde notizie false, esagerate o tendenziose, per le quali possa essere turbato l’ordine pubblico, è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con l’arresto fino a 3 mesi o con l’ammenda fino a 309 euro". E’ quanto prevede l’articolo 656 del codice penale.
L’accusa. I pm della procura di Roma che lo avevano convocato oggi pomeriggio per chiedergli spiegazioni circa il contenuto del ’docufilm’, hanno deciso di incriminare il giornalista sostenendo che la proclamazione degli eletti è basata esclusivamente sui dati pervenuti alle Corti di Appello e alla Cassazione e non su quelli che finiscono nei computer del Viminale. "Ma il mio film non si occupava di questo - spiega Deaglio -, ma della ’notte dei misteri’".
La trama. Il film realizzato da Enrico Deaglio e Beppe Cremagnani, anche lui interrogato, sostiene questa tesi: durante la notte del 10 aprile scorso qualcuno avrebbe forzato il software del Viminale in modo da far calare, attribuendole alla Casa delle Libertà, le schede bianche. Dai primi accertamenti i pm romani hanno però ribattuto che quei dati hanno solo valore ’’ufficioso’’.
Nessun sequestro. ’’Non pensavo che mi avrebbero accusato, mi sembra un’ipotesi da anni Sessanta’’, ha detto Deaglio, uscendo dall’ufficio del pm Salvatore Vitello. "Mi hanno comunque detto - ha aggiunto - che il film non verrà sequestrato". Ad assistere Deaglio sarò l’avvocato Caterina Malavenda. Deaglio ha continuato: "Sento quanto accaduto come uno sbarramento al giornalismo d’inchiesta. Mi si contesta di aver messo in dubbio, turbando l’ordine pubblico, la legittimità del risultato elettorale. Io mi aspettavo un intervento ma non in questo senso, bensì per ricostruire ciò che è successo".
Il centro-destra. E le reazioni del centro-destra non si fanno attendere. "Spero che tutti coloro che hanno dato credito a questa ignobile iniziativa, compresi purtroppo alcuni avversari politici, trovino il tempo e il modo di vergognarsene", dice l’ex ministro degli Interni, Giuseppe Pisanu. ’’In un Paese serio ora il signor Deaglio chiederebbe scusa al presidente Berlusconi e a Pisanu. E nello stesso momento dovrebbe chiedere scusa agli italiani Romano Prodi che ha immediatamente e scandalosamente dato credito a pure invenzioni propagandistiche, che ora giustamente sono considerate atte a turbare l’ordine pubblico’’. Lo afferma Sandro Bondi, coordinatore nazionale di Fi.
"Era un film, non un documentario... E’ come accusare Moretti per aver fatto ’Il Caimano’... Un conto è fare un film, un altro è la realtà". E’ la battuta sarcastica di Roberto Calderoli, coordinatore delle segreterie della Lega nord.
’’Chi è il mandante di Deaglio? E’ questo che deve appurare la Procura di Roma", afferma Maurizio Gasparri, dell’esecutivo di An che chiede per il giornalista "una sospensione cautelativa dalla professione’’. Sempre da An Ignazio La Russa, ricorda come il suo partito non aveva insistito per una verifica, ma "adesso occorre fare chiarezza ricontando tutte le schede nel giro di 40 giorni".
"Siamo noi che continuiamo a chiedere il riconteggio delle schede. Su questo pseudo-inchiesta di Deaglio il ridicolo supera la decenza", afferma l’esponente azzurro Enrico La Loggia. ’’Non poteva finire in maniera diversa, era chiaro’’, aggiunge Paolo Bonaiuti, portavoce di Silvio Berlusconi.
"I fatti parlano da soli. Mi sembra che non ci sia più nulla da aggiungere su questa vicenda". Questo il commento del leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini, all’indagine aperta su Enrico Deaglio per diffusione di notizie false.
* la Repubblica, 28 novembre 2006
Per favore niente gendarmi
di MICHELE AINIS *
Deaglio può aver torto, e probabilmente ha torto. Ma la sua incriminazione rischia di farne un martire, e oltretutto rende un pessimo servizio alla democrazia. Perché incrina la fiducia sulla possibilità di risolvere i conflitti d’opinione senza il soccorso dei gendarmi.
E perché insinua il sospetto - ben più devastante di quello avanzato da Deaglio - che in questo paese sia vietato muovere denunce nei confronti del Palazzo, che la politica sia una zona franca, un’isola presidiata con le armi.
Vediamo dunque i fatti. Nel film-documentario «Uccidete la democrazia» s’affaccia la tesi che alle ultime elezioni i voti bianchi siano stati trasformati in altrettanti voti per Forza Italia, grazie a un software malandrino installato non si sa bene dove, né da chi. Denuncia verosimile, benché con ogni probabilità non veritiera. Anche perché il crollo delle schede bianche - omogeneo in tutto il territorio nazionale - descrive un’anomalia statistica, un episodio senza precedenti. E infatti questa tesi ottiene subito l’appoggio di molti addetti ai lavori, sollevando un polverone. Ma la responsabile dell’ufficio elettorale dell’Interno dichiara ai magistrati che nella notte del 10 aprile scorso non si è consumata alcuna frode statistica. E i magistrati a loro volta iscrivono Deaglio nel registro degli indagati per aver violato l’articolo 656 del codice penale: diffusione di notizie false, esagerate o tendenziose. Da qui un primo dubbio, un primo punto critico. Difatti per imbastire un’accusa di questo tipo serve un accertamento istruttorio: serve dunque la consulenza d’un perito che ovviamente non sia parte in causa. Avrebbe potuto chiederla il pm, rivolgendosi a un esperto del settore. Ma questa funzionaria non è un tecnico, ed è inoltre parte interessata, proprio a causa del ruolo che essa riveste al Viminale. Da qui allora il sospetto, l’ombra che avvolge tutta la vicenda. Perché sta di fatto che se oggi denunzio il mio vicino per avermi rubato dentro casa, e domani i giudici mi imputano il reato di calunnia, mi trasformo subito da vittima in colpevole, sono costretto a difendermi dalla mia stessa accusa. È la tecnica già sperimentata in lungo e in largo negli Anni Sessanta, quando le grandi denunce politiche e sociali venivano bloccate mettendo sotto processo i denuncianti. Anche a costo di riesumare questo o quel reato d’opinione previsto dal «fascistissimo» codice Rocco, come adesso capita a Deaglio.
Intendiamoci: la democrazia non implica una licenza d’offendere impunemente il prossimo, o di turbare la vita collettiva. E d’altronde - come diceva il giudice Holmes - la tutela più rigorosa della libertà di parola non proteggerebbe un uomo che gridasse senza ragione «al fuoco» in un teatro affollato, provocando il panico. Ma al contempo nessuna democrazia può avere paura degli scandali senza tradire se stessa, la fiducia nella propria capacità di verificarli e superarli. È la lezione di Gesù: ben vengano gli scandali, se servono a temprarci.
* La Stampa, 29.11.2006
La misteriosa notte di Pisanu
di Antonio Padellaro *
Sabato scorso ci chiedevamo su queste colonne se il mistero delle schede bianche scomparse sarebbe mai stato svelato. Alla luce del gran polverone politico che in queste ore si sta sollevando sul film di Enrico Deaglio «Uccidete la democrazia», inchiesta sui brogli che avrebbero falsato il voto dello scorso aprile, dovremmo concludere che il mistero elettorale come, del resto, tutti gli altri misteri italiani, dolorosi e gloriosi, è destinato a restare tale, coperto da una fitta coltre di dichiarazioni alle agenzie. Nell’attesa comunque fiduciosa che la magistratura faccia, come si dice, piena luce, restiamo anche noi convinti come lo è il portavoce di Romano Prodi, Silvio Sircana, che, brogli o non brogli nella notte tra il 10 e l’11 aprile, la notte del conteggio qualcosa di poco chiaro sia accaduto. Lo scriviamo non facendo nostre ipotesi, sospetti o congetture ma sulla base di fatti oggettivi facilmente riscontrabili. Sappiamo certamente che quel lunedì, verso le ventitré, l’onorevole diessino Marco Minniti varcò il portone del Viminale inviato dalla segreteria del partito in fibrillazione per l’improvvisa interruzione nella trasmissione dei dati. Inutile ricordare come nello stato maggiore dell’Unione la tensione fosse al cardiopalmo dopo l’incredibile altalena che nel pomeriggio annunciava la larga vittoria del centrosinistra (secondo tutti gli exit-poll a conferma di tutti i sondaggi della vigilia) e alla sera, invece, consentiva alla destra una speranza di vittoria.
Mentre dunque la forbice tra Unione e Cdl si andava progressivamente restringendo con la concreta possibilità di un sorpasso sul filo di lana, qualcosa deve essersi inceppato nella macchina del ministero degli Interni e Minniti andava a vedere come mai. Accolto da un gentilissimo prefetto il deputato della Quercia fu subito accompagnato nella decision room elettorale, circostanza che non mancò di colpirlo favorevolmente attendendosi un trattamento più formale. La sorpresa di Minniti aumentò quando scoprì di essere l’unico esponente politico presente al Viminale in ore cruciali per la vita repubblicana. Si stava decidendo il futuro politico del paese in un clima surriscaldato. Era in corso una drammatica partita sul filo dei voti. A piazza Santi Apostoli il popolo di Prodi sempre più sotto choc rumoreggiava aspettandosi il peggio. Centinaia di giornalisti di tutto il mondo erano in elettrica attesa. Ebbene, mentre tutto ciò accadeva, la stanza del ministro degli Interni era deserta. Non c’era Giuseppe Pisanu, e nel palazzo del Viminale non risultava neppure fossero presenti i suoi sottosegretari. Insomma, fatto senza precedenti, come unico testimone politico presente nella stanza dei bottoni (una volta si diceva così) del governo Berlusconi c’era un uomo dell’opposizione. Erano circa le due dell’11 aprile quando Minniti poté comunicare a Fassino che pur mancando alcune sezioni da scrutinare era matematicamente impossibile che la Cdl potesse recuperare il piccolo vantaggio dell’Unione (i famosi 24mila voti). Fassino avvertì Prodi che, pochi minuti dopo, poté dare alla folla incredula, l’insperato annuncio. A quanto si sa, Pisanu, quella notte non rientrò più al Viminale. Dove era andato?
Le cronache del giorno successivo racconteranno un’altra storia che ha dell’incredibile. Verso le ventitré del 10 aprile, a spoglio ancora in corso, proprio mentre stava arrivando Marco Minniti, il ministro degli Interni fu visto uscire dai portoni secondari del Viminale. E fu visto entrare a palazzo Grazioli tre ore prima della fine dello scrutinio dove ad attenderlo c’era il presidente del Consiglio in carica Silvio Berlusconi. Cosa sia avvenuto in quelle ore nessuno lo sa con certezza. Ma sono numerosi i giornali che ricostruiranno quelle concitate ore in maniera assai poco tranquillizzante. Qualcosa di simile a un golpe elettorale. Dunque lunedì notte a scrutinio in corso Pisanu dichiara al Tg2 che «le operazioni di voto sono state regolari». Berlusconi lo convoca e gli chiede di invalidare il voto. A palazzo Grazioli ci sono anche il sottosegretario Gianni Letta, il vicepremier Gianfranco Fini, il presidente del Senato Marcello Pera, il segretario dell’Udc Lorenzo Cesa. Pisanu risponde che non può fare nulla di simile, che bisogna aspettare la fine delle operazioni di scrutinio e contestare semmai, dopo, le schede nulle.
Dicono che da quel momento i rapporti personali tra Berlusconi e il suo ministro si siano bruscamente interrotti. La mattina dopo, martedì, il presidente Ciampi chiama Pisanu, gli chiede una parola definitiva sul voto e la ottiene. Nei giorni successivi sarà Berlusconi a lanciare contro il centrosinistra le accuse di brogli. Le stesse ripescate ora da Forza Italia e da Gianfranco Fini che vedono nel film di Deaglio un insperato grimaldello per pretendere il conteggio non solo delle schede bianche ma di tutti i voti elettorali.
I fatti così esposti mettono al centro della scena Giuseppe Pisanu. La sua è una situazione per certi versi paradossale. Deaglio lo ritiene responsabile di qualcosa di molto grave che sarebbe avvenuto nella trasmissione dei dati elettorali dalle circoscrizioni al Viminale. Addirittura una trasformazione delle schede bianche in schede per Forza Italia. Pisanu reagisce con rabbia e annuncia querele. Si sente ingiustamente diffamato in base a una verità rovesciata. Secondo le ricostruzioni di cui sopra infatti non è stato proprio lui a impedire nella famosa notte l’invalidazione del risultato elettorale così come richiesto dal suo premier e leader di partito? Va ricordato che successivamente all’ex ministro Pisanu giungeranno da molti esponenti del centrosinistra apprezzamento e riconoscimento per aver tenuto in un frangente così difficile un comportamento corretto. A maggior ragione quindi Pisanu dovrebbe rendere un altro servizio alla verità dei fatti.
Sulle vere o presunte manipolazioni di schede bianche si pronuncerà la magistratura. Ma su ciò che è accaduto nella famosa notte è Pisanu che deve dirci qualcosa di più. Rispondendo a molti interrogativi che sorgono spontanei. Perché si allontanò dal Viminale mentre era in corso la fase decisiva dello spoglio? Perché si recò a palazzo Grazioli, residenza privata di Berlusconi con un evidente strappo al ruolo istituzionale e super partes che ogni ministro degli Interni dovrebbe mantenere specie durante le elezioni? Cosa diavolo successe infine nello studio del cavaliere durante quelle tre ore di discussioni a quanto sembra piuttosto animate? È vero che Berlusconi cercò di imporgli un provvedimento di invalidazione elettorale che alla luce anche degli ultimi avvenimenti suona come un tentativo di interruzione della democrazia? Quella di cui ci stiamo occupando è una storia troppo delicata e il silenzio prudente del personaggio chiave potrebbe apparire a questo punto come un silenzio complice.
* www.unita.it, Pubblicato il: 25.11.06 Modificato il: 25.11.06 alle ore 12.55
Si può votare ma non eleggere?
Potrebbe accadere se fosse provato quanto sostiene «Uccidete la democrazia!», il film sul voto di aprile. Potere politico, segreto, visibilità: la lezione di Bobbio
di GIOVANNI DE LUNA (La Stampa, 25.11.2006)
La tesi di Deaglio e Cremagnani sul tentativo di brogli perpetrato alle ultime elezioni è al vaglio della magistratura. Dalla lunga notte del 10 aprile 2006 affiorano ricordi inquietanti. Fatti insoliti, alcuni mai accaduti prima, si susseguirono a ritmo incalzante, dal fallimento degli exit-poll all’irrituale riunione a Palazzo Grazioli con i leader di Forza Italia e il ministro dell’Interno, Pisanu, che lasciò il ministero per la convocazione urgente di Berlusconi. A ora tarda Piero Fassino (volto teso, senza gioia) annunciò la vittoria del centro sinistra per 25 mila voti. La mattina dopo, la notizia della cattura del boss Bernardo Provenzano, latitante da 43 anni.
Come sparirono le schede bianche
Deaglio e Cremagnani suggeriscono di guardare con attenzione alle schede bianche. Molte altre «anomalie» di quelle elezioni hanno una spiegazione efficace: l’affluenza ai seggi e il numero degli elettori fu maggiore del previsto, in controtendenza rispetto alle elezioni precedenti. Si trattò di una fetta consistente dell’elettorato di destra che rispose convinto all’appello di Berlusconi a «non andare al mare». Anche le «nulle» diminuirono perché il voto era più semplice. La sparizione delle schede bianche appartiene però a un altro ordine di fenomeni: nella «bianca» non c’è la diserzione dalle urne e la disaffezione per la politica, ma un voto di protesta, sempre presente in tutte le elezioni italiane, con percentuali progressivamente in crescita. Ebbene, nel 2006 il loro numero precipita di colpo (1.246.551 in meno, passando dal 4,2% all’1,1%), intrecciandosi con un altro particolare che ha dell’incredibile. La loro distribuzione geografica ha infatti sempre esemplificato con grande efficacia i variegati comportamenti dell’elettorato italiano, con una presenza sempre più massiccia al Sud e minima nelle regioni rosse del Centro. Stranamente, però, nel 2006 tutte le regioni presentano più o meno la stessa percentuale di schede bianche, attestate dovunque, in Emilia Romagna come in Sicilia, tra lo 0,8% e il 2,2%.
Inedita, sospetta uniformità
Mai, in 150 anni di storia italiana, si era verificata una simile uniformità, se non all’epoca dei «plebisciti» indetti dal fascismo. Deaglio e Cremagnani hanno intervistato l’informatico americano Clinton Curtis, che ha elaborato un programma semplice per la manipolazione dei dati elettorali, sperimentato con successo nelle elezioni per il governatore dell’Ohio. Nel loro video si assiste alla dimostrazione di come piazzare il «frullatore» che centrifuga le schede bianche e di come i dati ripuliti - completamente diversi da quelli immessi in partenza dalle varie prefetture - arrivino poi al terminale.
Sembra quindi che quella notte questo frullatore sia entrato in azione e che a un certo punto sia stato disattivato. Dopo la denuncia di Pisanu, si vedrà se l’ipotesi regge. Pure, l’iniziativa di Deaglio e Cremagnani un risultato l’ha già ottenuto. Per la prima volta ci siamo misurati con il rischio che gli italiani - soprattutto con l’introduzione del voto elettronico - possano «votare» ma non «eleggere». Se n’è parlato spesso a proposito della visione che Bobbio aveva dei rapporti tra il «segreto» e il potere politico: una quota di «invisibilità» dev’essere necessariamente presente in un ordinamento democratico e talvolta il «segreto di Stato» serve a proteggere più i cittadini che i governanti (è così per i nuovi diritti legati alla tutela della privacy). Ma quanto maggiore è il tasso di «visibilità», più si può parlare di una democrazia compiutamente realizzata. Quello che una democrazia non si può permettere è che l’«invisibilità» arrivi a lambire le procedure elettorali. È l’unico luogo dove la sovranità popolare si dispiega nella sua interezza e in quel luogo non c’è spazio per «coperture» e sospetti.
Forza Italia, anno zero. Silvio cambia la squadra
Tra i colonnelli c’è sconforto: «Tiratori di carretta e basta». Così Bondi scrive poesie, Pisanu si sfoga, Cicchitto telefona
di MATTIA FELTRI *
ROMA - Un deputato forzitaliano, disilluso e perfido, a proposito dei suoi capi: «Stanno bene, sì. Davvero bene. Sono tutti molto abbronzati. Guardano “Capri”, la fiction. Si innamorano...». Poi è normale che uno come Sandro Bondi - ed è successo l’altro giorno, in conferenza stampa alla Camera - chieda ai giornali di piantarla con le caricature. Forza Italia è tanto altro. Sta rivedendo lo statuto, ha detto Bondi. Nel 2008 ci sarà il congresso, momento di sacralità democratica. E poi l’immagine del capogruppo al Senato, Renato Schifani, che si abbandona esausto su una poltrona di Palazzo Madama, dimostra che si continua a lottare e a far fatica.
L’episodio è della scorsa settimana, dopo che la maggioranza aveva portato a casa il decreto fiscale per via delle assenze nell’opposizione. Schifani aveva ceduto ad alcune di quelle considerazioni che poi incoraggiano le derive caricaturali («Sono a capo di un’armata Brancaleone»), e non si era sentito di negare l’ipotesi che i suoi fossero delle «teste di c...». Che conservasse l’abbronzatura conquistata tre settimane prima a Sharm el-Sheikh, non toglieva nulla alla sua spossatezza. A Sharm ci era andato in occasione del ponte di Ognissanti con Paolo Bonaiuti, portavoce di Silvio Berlusconi, con Fabrizio Cicchitto, vice coordinatore di Forza Italia, e parecchi altri parlamentari. In tutto erano in centottanta, mogli e fidanzate comprese. Avevano organizzato un charter e trascorso quattro giorni sulle spiagge egiziane. C’era anche il risvolto umanitario: «Siamo qui per testimoniare il nostro impegno contro il terrorismo», disse Schifani, ricordando gli attentati dell’anno prima, in un incontro coi giornalisti nelle sale dell’hotel Domina Coral Bay.
Del resto, se Berlusconi si fa tutta l’estate in Sardegna, anche le truppe avranno diritto di tirare il fiato. I colonnelli, in particolare. E cioè quelli che, a differenza dei Dell’Utri e dei Pera, hanno il dovere di gestire i lavori parlamentari e l’attività del partito. Adesso, poi, c’è da mettere in piedi la grande manifestazione del 2 dicembre a Roma, e non è facile se Berlusconi va in giro dicendo che tanto Romano Prodi non cadrà perché «non c’è il killer». Inoltre si era deciso di farla in piazza del Popolo, che con centocinquantamila persone trabocca. Ma su idea di Gianfranco Fini, accolta euforicamente da Berlusconi, la si è spostata in piazza San Giovanni, che per essere riempita ha bisogno del classico milione. Esattamente la cifra raggiunta dal centrodestra, in un’occasione analoga, otto anni fa. Se stavolta la cifra fosse inferiore, probabilmente Berlusconi ne trarrebbe le conseguenze.
Qualcuna l’ha già tratta. Di tutto il casino sollevato da «Libero» a proposito della cena in cui l’ex premier ha detto qualsiasi cosa, c’è chi ha notato un particolare. Alla cena Bonaiuti non c’era. C’era, però, Valentino Valentini, che è stato il braccio destro di Berlusconi sulle questioni internazionali, e adesso è una specie di altissimo valletto. Sempre al fianco del capo. A Bonaiuti tocca di smazzarsi la Rai come vice di Mario Landolfi alla vigilanza. Negli attimi di scoramento, confida: «Ho preso atto di una cosa: Berlusconi se ne fotte di quello che dico». Anche fra i nobili tiratori di carretta ci sono i delusi e gli arrabbiati. Beppe Pisanu, si sa, era furente per le accuse ricevute da Arcore dopo la notte elettorale. E ha subito come un’ingiusta punizione la mancata nomina dalla guida della Commissione di controllo dei servizi segreti, che gli spettava in quanto ex ministro dell’Interno. E’ andata a un suo amico, Claudio Scajola (suo predecessore al Viminale), con cui in questi mesi si è visto spesso a cena, nella bella casa con vista sul Colosseo, per ricordare la ben altra caratura della Dc.
E’ anche una questione di linea politica. Pisanu, per esempio, ama tratteggiare scenari morotei, con governissimi e intese piuttosto larghe. E questo mentre Giulio Tremonti viene schierato come irriducibile avanguardia televisiva e come oratore principe a Montecitorio, dove il capogruppo Elio Vito è molto contento quantomeno della carica. Tremonti, appena può, torna a Pavia e si getta sui libri per colmare le poche lacune che crede lo separino dalla leadership. Cicchitto (con Schifani) tiene la linea del bipolarismo fino alla morte, ma nel frattempo deve sbrigare le beghe locali, e deve fare i conti con la terza via di Sandro Bondi, che esercita uno strano inciucismo ecumenico: loda la scelta di Giorgio Napolitano al Quirinale, solidarizza con Paola Binetti, scrive poesie dedicate a Walter Veltroni («Tenero padre /madre dei miei sogni. / Anima ulcerata...»). Al colmo dell’esasperazione, tutti provano a fare uno squillo a Berlusconi, ma è sempre occupato. Poi, lui, quando richiama si scusa: era al telefono con Gianfranco Rotondi (Dc)... Era al telefono con Francesco Nucara (repubblicano)... E il magone cresce.
Il leader dell’opposizione stava per concludere il suo intervento alla kermesse dei circoli della libertà, lanciando un appello "per un unico partito"
Montecatini, Berlusconi si sente male e sviene sul palco, intervento interrotto
Successivamente il premier si è ripreso, ha lasciato il Pala Madigan salutando i presenti ed è salito sulla propria auto, diretto verso casa
MONTECATINI TERME - Il leader della Casa delle Libertà Silvio Berlusconi è svenuto e si è accasciato sul palco di Montecatini Terme, dove stava tenendo l’intervento conclusivo della kermesse dei circoli della libertà.
A circa 40 minuti dall’inizio del suo intervento, Berlusconi si è sentito mancare e ha chiesto aiuto al sindaco di Catania Umberto Scapagnini, che è salito prontamente sul palco per sorreggerlo, giusto in tempo prima che l’ex premier perdesse i sensi.
Berlusconi successivamente si è ripreso, ma il medico gli ha sconsigliato di riprendere l’intervento, invitandolo invece a salire sull’ambulanza arrivata al Pala Madigan per portarlo in ospedale. Ma l’ex premier ha rifiutato: "Berlusconi uscirà con la sua macchina, non avrà bisogno dell’autombulanza. Era sotto antibiotici e appena è arrivato aveva detto di sentire caldo e di avere sete. Ora però sta meglio", ha spiegato l’ex sottosegretario all’Ambiente Tortoli.
Infatti poco dopo Berlusconi è uscito, reggendosi sulle proprie gambe, ha salutato la gente che era accorta ed è salito sulla propria macchina.
"Avete presente un calo di zuccheri, poi il caldo, l’emozione, tutte concause di una specie di svenimento, un mancamento. Ma ora sta benissimo e sta andando a casa sua", ha spiegato il padrone di casa, l’animatore dei Circoli giovani, Marcello Dell’Utri. "Non ha perso conoscenza - ha detto ancora Dell’Utri - forse solo un momento ha avuto un piccolo svenimento. Dietro il palco gli è stata misurata la pressione che in effetti era un po’ bassa. Ma ora si è rimesso".
Poco prima di perdere i sensi, Berlusconi aveva lanciato un appello per "convincere tutti i partiti della Casa delle Libertà a fondersi in un unico grande partito delle libertà". Inoltre il leader dell’opposizione aveva ribadito dure accuse di brogli nei confronti del centrosinistra, sostenendo che con la politica dell’attuale governo "la libertà è a rischio".
La guerra di successione
di CURZIO MALTESE
LA LITE a destra sul presunto ritiro di Berlusconi dalla politica, strillato da Libero, ha almeno il pregio di distrarre dalla noia provocata da sei mesi di polemiche a sinistra. Nasce tutto da un’intervista rubata dal direttore responsabile Sallusti a una cena nel salotto di Daniela Santanché per la presentazione di un libro di Emilio Fede, e qui già si sorride. Nello sfogo con i commensali il Cavaliere ne dice di tutti i colori ma soprattutto minaccia o promette di non candidarsi mai più a Palazzo Chigi e tantomeno al Quirinale, neppure in caso di caduta del governo Prodi. L’annuncio di un’abdicazione, un vero scoop. La silenziosa "ola" da stadio che si solleva subito in mezzo Paese, abbracciando nella gioia Casini e i centri sociali, viene interrotta quasi subito dalla smentita ufficiale.
La prima del portavoce Bonaiuti, poi di Berlusconi stesso: "Panzane". Dovendo scegliere fra i due, Libero preferisce querelare il portavoce, sbandiera platee intere di testimoni e annuncia un seconda puntata di rivelazioni dell’infiltrato speciale alla cena per Emilio. E magari una terza, una quarta. In Italia la serialità è un obbligo. E’ in ogni caso improbabile che un giornale vicino, anzi quasi intimo a Berlusconi, dopo avergli dedicato per anni interviste adoranti dell’agente Farina, si sia addirittura inventato un complotto contro il suo signore. Nello stesso articolo ribattezzato da Sallusti, senza la benché minima ironia, "il Gesù di Arcore". Quindi la questione o le questioni sono altre.
Una è antica e riguarda un mistero irrisolto da decenni, riassumibile nella domanda: quando e a chi dice la verità Berlusconi? Nel caso specifico, agli ospiti della cena o ai suoi portavoce? A fin di bene, si capisce, per far contenti gli uni e gli altri. Gli amici della Santanché che sono quasi tutti di An e tifano per la leadership di Fini; i portavoce che dovrebbero cercarsi un altro mestiere e per alcuni non sarebbe semplice. Una terza ipotesi è che Berlusconi menta a tutti e anche a sé stesso, nel senso che non ha ancora deciso. Ma l’annuncio del ritiro, nella lunga intervista, non è una frase sfuggita. Semmai la logica conclusione di un lucido ragionamento. Il capo dell’opposizione considera fallita la "spallata" al governo Prodi. "Durerà perché non manca un killer nel centrosinistra che abbia il coraggio di dargli il colpo finale, perché tutti i senatori, compresi i miei, sono attaccati alla poltrona e perché il centrosinistra sa che verrebbe travolto in caso di elezioni anticipate". Ora, la spallata al governo in carica era l’unica possibilità per il Cavaliere di rimontare in sella e tornare alla guida del Paese in prima persona. Se Prodi supera il gran premio della montagna di questa finanziaria, poi comincia la discesa e può pedalare fino al 2011. Ha un senso allora un Berlusconi quasi ottuagenario ancora candidato, diciassette anni dopo la prima volta?
Lo scoop vero o falso di Libero anticipa con modi pittoreschi il tema che fra pochi giorni, archiviata la finanziaria, sarà al centro della politica italiana: la successione a Berlusconi. Con un pericolo d’implosione nel centrodestra che già s’intravede nei commenti alla vicenda di giornata. Ignazio La Russa, amico della Santanché, premette di credere alla smentita ma aggiunge di passaggio che in caso di reale rinuncia "il primo della lista sarebbe il più popolare, Fini".
Casini che ha sollevato da mesi e anni la questione, proprio ora tace, nello stile classico delle grandi vigilie democristiane. La Lega alza il fuoco di sbarramento sia contro Fini che contro gli odiati centristi, mentre si dichiara disposta anche a trattare con Prodi nel sacro nome della Padania. Al di là delle piccole o grandi manovre, appare chiaro che dopo Berlusconi la destra rischia il diluvio. In fondo, nel bene o nel male, è stato l’unico leader capace di dare alla destra una visione della società italiana, cinica ma realistica. Così come nel centrosinistra il solo è stato Romano Prodi. Due visioni entrambe invecchiate ma ancora solide, ciascuna in grado di rispecchiare, convincere e trascinare mezza Italia, la propria metà. Oltre i duellanti si scorgono solo guerre personali tutte interne ai palazzi e a uno stile novecentesco di lotta politica, tante ottime seconde scelte ma nessun trentenne rivoluzionario all’orizzonte, come il primo Blair, Zapatero o il tory Cameron. Nell’intervista vera o falsa almeno un passaggio è di sicuro bugiardo. Non mancano affatto i killer, al contrario abbondano. Sono le idee che non si trovano.
Le lodi al Cavaliere per l’abile regia usata dopo il malore
Il Foglio provoca «Lo svenimento era perfetto»
di UGO MAGRI *
C’è modo e modo di sentirsi male. Quello di Silvio Berlusconi, per esempio, è stato «uno svenimento perfetto». Talmente bello e plastico, con «la mano appena sollevata a cercare sostegno, lo sguardo fisso ma non scomposto, un’ottima caduta e infine suole di scarpe sollevate a mostrare l’assenza di tacchi posticci, da poter sembrare anche finto, col Cav. che dall’elicottero, riavutosi dal mancamento, ridacchia al telefono...». No, non è la prosa al veleno di Curzio Maltese, e nemmeno un blog di Beppe Grillo. E’ l’ultimo divertimento di Giuliano Ferrara: un gioco brillante a prender sul serio la leggenda del Cavaliere che, da grande gestore della propria immagine, s’è tirato addosso i riflettori per lanciare in orbita la manifestazione di sabato. «L’arte di trasformare un mancamento in un colpo di teatro (e rivendicarlo)», è il titolo ammiccante del Foglio.
L’idea sembra spericolata ma, al fondo, è meno provocatoria di quanto appare. Addirittura, se si dà retta a un intellettuale di destra come Marcello Veneziani, cela un fondo laudatorio nei confronti di Berlusconi. «Un incrocio raffinato tra Oscar Wilde e Togliatti», arriva a definirla. Perché «da una parte c’è il gusto di buttarla sul dandismo, con quel richiamo di Ferrara alla finzione perfetta; dall’altro c’è l’astuzia di negare l’idea del leader malato, che se tale appare dev’essere per forza una finzione scenica. Sapendo perfettamente di incontrare per questa via la filosofia energetica e salutista del Cavaliere». Il paradosso di Veneziani è che mettere in dubbio il collasso, e segnalarne l’uso politico, costituisce la forma più sofisticata di berlusconismo, quella che alimenta «il mito dell’uomo immortale, indistruttibile».
Sottoscrive don Gianni Baget-Bozzo, «cappellano» di Forza Italia: «Ferrara considera Berlusconi inevitabilmente bello, e così pure il suo svenimento diventa opera d’arte. Da teo-con ateo non comprende, o finge di non comprendere, che pure la debolezza ha invece la sua forza. Un leader fragile fino a svenire davanti a tutti mostra agli italiani che per la causa è disposto a sacrificarsi personalmente. Giovanni Paolo II fu un esempio di immensa forza basata proprio sulla fragilità. Che poi Berlusconi desideri apparire sano e vitale, non è perché lui ami coltivare la mondanità, ma perché così va il mondo e dunque deve adeguarsi».
La stroncatura più netta viene da un personaggio che di palcoscenici televisivi se ne intende: Maurizio Costanzo. «Colpo di teatro? Non ce lo vedo proprio. A Berlusconi cosa servirebbe far leva su un episodio come lo svenimento? Per andare in televisione? Suvvia. Ma se il Tg5 di domenica sera non ha nemmeno trasmesso le immagini... E se l’hanno oscurato perfino in casa sua, mi sembra che ciò tagli la testa al toro». Il Cavaliere non ha tratto alcun giovamento, s’è sentito male e basta. Del che non dubita il massimo attore italiano vivente, Dario Fo. «Io tante volte ho recitato e insegnato la parte dello svenimento. Quello di Berlusconi non aveva affatto i canoni della finzione. Poi, certo, lui è bravissimo a ribaltare ogni situazione. Classico del teatro è anche dare all’incidente un significato spettacolare, girarlo dopo a proprio vantaggio. Ma andrei piano a parlare di svenimento perfetto. Semmai mi è sembrato più un deliquio femminile, da melodramma. Come quello di Mimì nella Bohème: a tavolino, ne avrebbe studiato uno assai più eroico».
E invece no, protesta Claudio Velardi, già consigliere di Massimo D’Alema, ora esperto di comunicazione politica: «Non c’è solo lo svenimento alla Mimì. C’è pure quello eroico e tragico di Berlinguer, caduto sul teatro di guerra. Se vogliamo parlare di politica, il corretto paragone, sia pure alla lontana, mi sembra quello». Che Ferrara abbia fatto centro? «Sì, è stato proprio uno svenimento perfetto. Ottimamente gestito. Berlusconi è talmente bravo nel comunicare che, perfino inconsciamente, ha interpretato la parte da grande campione...».
* La Stampa, 29.11.2006
L’Italia incompatibile
di Furio Colombo *
Giorni come il 25 aprile tracciano linee di confine, demarcazioni nette fra un prima e un dopo, fra un destino e un altro destino, un’Italia e un’altra Italia. Non resta che sperare che niente di questa data diventi cerimonia e abitudine e che ci sia sempre chi la spiega nelle scuole ai più giovani con pazienza e chiarezza.
Non c’è niente in questa frase che condanni irreversibilmente qualcuno, vita, scelte, idee, sentimenti, o che stabilisca (troppo tardi, comunque) una lista di reietti. Niente che non rispetti i morti. Quanto ai vivi, gli esseri umani cambiano in meglio o in peggio e si trasformano tutto il tempo come la natura, il paesaggio, la storia. Dipende dal momento in cui si scatta la fotografia il rapporto col tempo, passato e futuro.
Ma date come il 25 aprile non spostano di un millimetro il senso di ciò che è avvenuto e che ha salvato tutti, persecutori e perseguitati, anzi ha salvato - con il suo impetuoso sbocco nella libertà - sopratutto i persecutori che sarebbero stati costretti a continuare nella loro triste missione, ondata di morti dopo ondata di morti.
Per questo chiunque, la sera del 22 aprile, si sia incontrato con il programma «RT, Rotocalco televisivo, Speciale Resistenza e resistenze», di Enzo Biagi, su Raitre, ha un debito in più verso il vecchio maestro che non rinuncia. E dopo cinque anni di esilio riprende con gli italiani, tra montagne di spazzatura e di vergogna, il discorso di libertà esattamente dal punto in cui lo avevano forzato a interrompere.
Come ricorderete Enzo Biagi è il primo, nella lista di alcuni protagonisti della televisione italiana (tra cui Michele Santoro, Daniele Luttazzi) licenziati personalmente con un potere che non aveva - ma che alla Rai, tramite personale subalterno, è diventato immediatamente esecutivo - dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Molti di noi hanno frequentemente citato con scandalo la motivazione di quel licenziamento: «attività criminosa». Con queste parole Silvio Berlusconi che - ci viene detto - non è nemico ma solo avversario, intendeva descrivere ogni attività di opposizione. E a molti di noi è sembrato naturale definire “regime” la situazione politica in cui un governante vuole e può mettere a tacere chi non lo esalta.
Ora, cambiato il tempo, il governo - e, un pochino anche il Paese e la Rai - Enzo Biagi ritorna. E con la sua trasmissione dedicata alla Resistenza, nel senso originale del 25 Aprile e nel senso perenne del non piegarsi solo perché qualcuno è più ricco e potente e ti può anche mettere al bando, racconta con la sua implacabile pacatezza che esiste una Italia incompatibile con l’Italia libera e democratica evocata da quel giorno e descritta nei dettagli dalla Costituzione. E che non è questione di sentimenti (inimicizia o gentile confronto) ma di nessun punto di corrispondenza fra un’Italia e l’altra. Dice che non bastano né le lacune della memoria né la potenza dei media (tuttora in prevalenza orientati a non offendere un grande editore che può comprare tutto, e può comprare molti) a oscurare l’incompatibilità di un’Italia con l’altra.
Credo che possa essere utile confrontare il sommario della trasmissione con cui Biagi torna in Tv con l’articolo di fondo de Il Giornale (autore Massimo Teodori) dello stesso giorno. Quell’articolo celebra la buona accoglienza riservata a Berlusconi nei due congressi fondanti del nascente PD, ma poi elenca le tappe, che per l’autore sono esecrabili, della “delegittimazione di Berlusconi”. L’Italia di Biagi si apre con Roberto Saviano e la piovra della camorra con cui non si può convivere, si chiude con Tina Anselmi, mai dimenticata investigatrice della P2, passa attraverso la Resistenza come guerra partigiana e lotta al fascismo.
Ci fa riascoltare la voce limpida di Primo Levi che descrive con la famosa chiarezza come si distrugge un essere umano. Ascolta Vittorio Foa da giovane: si poteva non resistere?
E colloca al centro il magistrato Gherardo Colombo, verso cui molti italiani si considerano debitori (come verso tutto il Pool di Mani pulite) per la coraggiosa, tenace, difficilissima difesa della reputazione dell’Italia, mentre stava per essere ricoperta da un blob di corruzione tra i più vasti e più estesi al mondo.
Dunque, lo stesso giorno in cui è andata in onda la trasmissione-manifesto di Enzo Biagi, Massimo Teodori ha scritto: «La storia (della delegittimazione e demonizzazione del “nemico” politico, Ndr) cominciò dal colle più alto con Oscar Luigi Scalfaro che distorse i poteri presidenziali contro il premier». Come è noto «li distorse» per impedire che il plurinquisito Previti, ora condannato in via definitiva, diventasse ministro della Giustizia, evitando dunque un grave insulto alla Repubblica e all’immagine dell’Italia nel mondo. L’articolo di Teodori continua: «La storia proseguì con l’accanimento giudiziario in sintonia con l’ala giustizialista dei post-comunisti». Si capisce l’intento.
“Accanimento giudiziario” deve diventare il titolo di un capitolo della storia italiana, quello dei processi a Silvio Berlusconi. L’autore evidentemente conta sul fatto che a poco a poco smetteremo di insistere nel raccontare ciò che è avvenuto davvero e finiremo per dire che, sì, quelle gravissime imputazioni non erano che vaneggiamenti di giudici comunisti. L’affermazione viene dalla casa che non ha esitato a dire e a ripetere che «bisogna essere mentalmente tarati per fare i giudici».
Ma l’autore del fondo de Il Giornale implacabile continua:
«Infine i girotondi espressero, ai limiti del grottesco, quell’animus giacobino tanto gradito ai piani alti della politica illiberale e della gauche caviar, la cui nobile aspirazione era vedere in manette il parvenu della politica».
Poiché i girotondi sono mobilitazione spontanea, diventa interessante l’evocazione dei «piani alti della politica illiberale» che vuol dire: è illiberale chi invoca «la legge uguale per tutti» e denuncia le leggi ad personam che la rendono «legge di uno solo». La frase è affetta da palese assurdità fattuale, logica e storica. Ma Teodori ha un punto di forza su cui poggiare la sua costruzione orwelliana del “ministero della verità”. Dice infatti in conclusione: «Se il Partito Democratico servirà a tenere a freno le pulsioni antidemocratiche tanto radicate nei politici di sinistra (ovvero l’ostinazione a ripetere : “la legge è uguale per tutti”, Ndr) sarà un passo avanti per l’Italia civile e liberale». Sembra chiaro che qui si sta accennando all’Italia di Previti, Dell’Utri, Cuffaro, dei beneficiari di condono continuo, degli evasori lodati perché «a un certo punto diventa legittimo frodare il fisco», degli scrupolosi autori dei falsi in bilancio, di personaggi come il sindaco An di Trieste che ha sempre rifiutato di recarsi alla risiera di San Sabba dove fascisti e nazisti massacravano gli ebrei.
Del resto il capo di tutta questa gente mai si è fatto trovare - lui che è dappertutto - ad una celebrazione del 25 aprile durante i cinque anni del suo celebrato governo costellato di canzoni e di allegre passeggiate a Villa Certosa. L’Italia di Tina Anselmi, di Oscar Luigi Scalfaro, di Gherardo Colombo, dei girotondi ne ha fatto a meno.
Come si vede la questione - che è giusto ripetere nel giorno della Resistenza incoraggiati dal libero ritorno in video di Enzo Biagi - non è di buona educazione (anche se è bene mostrare buona educazione quando Silvio Berlusconi si presenta al congresso di un partito che ha appena finito di considerare autore di «delitti, morte e miseria»). È una questione di incompatibilità. L’Italia della Liberazione e della Costituzione è incompatibile con l’Italia della illegalità che ha cercato, senza successo, di cancellare il 25 aprile e metà della Costituzione italiana nata dal 25 aprile. La scelta fra queste due Italie è una decisione drammatica che tocca agli elettori. A noi spetta il compito di rendere chiara l’alternativa.
* l’Unità, Pubblicato il: 25.04.07, Modificato il: 25.04.07 alle ore 8.40
Fatti accertati. Misteri insoluti
di Marco Travaglio (l’Unità, 28 aprile 2007)
Naturalmente come si dice in questi casi, bisogna attendere le motivazioni della sentenza.Ma già dal dispositivo della II sezione della Corte d’appello di Milano nel processo Sme-Ariosto qualcosa si può arguire. DunqueSilvio Berlusconi «non ha commesso il fatto». O, meglio,non ci sono prove sufficienti che lo abbia commesso. Questo vuol dire infatti il comma 2 dell’articolo 530 del codice di procedura penale.
Il fatto però c’è, tant’è che gli altri imputati - gli avvocati Previti e Pacifico, e il giudice Squillante - furono condannati in primo e secondo grado per corruzione (semplice per i due legali, giudiziaria per l’ex magistrato), salvo poi salvarsi in corner grazie alla sentenza della Cassazione che l’anno scorso, smentendo se stessa, decise di spedire il processo a Perugia perché ricominciasse da capo. Anzi, non ricominciasse affatto perché, mentre le carte viaggiavano dal Palazzaccio verso Perugia, è scattata la prescrizione.
Qual è dunque il fatto? Il bonifico bancario di 434.404 dollari (500 milioni di lire tondi tondi) che il 5 marzo 1991 partì dal conto svizzero Ferrido della All Iberian (cassaforte estera di casa Fininvest, alimentata dalla Silvio Berlusconi Finanziaria) e in pochi minuti transitò sul conto svizzero Mercier di Previti e di lì al conto svizzero Rowena di Squillante. Un bonifico molto imbarazzante per Berlusconi, che di Squillante era amico (si telefonavano per gli auguri di Capodanno, Squillante lo inquisì e lo interrogò e poi lo prosciolse nel 1985 in un processo per antenne abusive, poi il Cavaliere tentò di nominarlo ministro della Giustizia e gli offrì pure un collegio sicuro al Senato). Tant’è che l’allora premier tentò di sbarazzarsi delle prove giunte per rogatoria dalla Svizzera (legge sulle rogatorie, 2001), poi del giudice Brambilla che lo stava giudicando in primo grado (trasferito nel gennaio 2002 dall’apposito ministro Castelli), poi direttamente del processo (lodo Maccanico-Schifani del 2003 sull’impunità per le alte cariche dello Stato). Fu tutto vano. Ottenuto lo stralcio che separava il suo processo da quello a carico dei coimputati, Berlusconi fu poi processato da un altro collegio e ritenuto colpevole per quel fatto. Ma si salvò per la prescrizione, grazie alla generosa concessione (per la settima volta) delle attenuanti generiche.
Contro quel grazioso omaggio, la Procura ricorse in appello affinché, spogliato delle attenuanti, il Cavaliere fosse condannato. A quel punto l’imputato, tramite il suo onorevole avvocato Pecorella, varò una legge che aboliva i processi d’appello dopo i proscioglimenti di primo grado: per esempio, il suo. La legge fu bocciata da Ciampi in quanto incostituzionale. Lui allora prorogò la legislatura per farla riapprovare tale e quale. Poi la Consulta la cancellò in quanto incostituzionale, e l’appello ripartì. Ieri s’è concluso con questa bella sentenza.
Insomma la condotta berlusconiana non somigliava proprio a quella di un imputato innocente. «Mai visto un innocente darsi tanto da fare per farla franca», commentò efficacemente Daniele Luttazzi. Tant’è che ieri, alla notizia dell’assoluzione (per quanto dubitativa e ancora soggetta a un possibile annullamento in Cassazione), il più sorpreso era proprio lui, il Cavaliere. Era innocente o quasi, ma non lo sapeva. O forse non aveva mai preso in considerazione l’ipotesi.
In attesa delle motivazioni, che si annunciano avvincenti, la questione è molto semplice. Cesare Previti è stato definitivamente condannato a 6 anni per aver corrotto un giudice, Vittorio Metta, in cambio della sentenza Imi-Sir del 1990 (tra l’altro, la sentenza che lo dichiara pure interdetto in perpetuo dai pubblici uffici, è del 4 maggio 2006, ma a un anno di distanza l’onorevole pregiudicato interdetto è ancora deputato a spese nostre).
Due mesi fa la Corte d’appello di Milano l’ha condannato a un altro anno e 8 mesi per aver corrotto lo stesso giudice Metta in cambio della sentenza che, due mesi dopo di quella Imi-Sir, toglieva la Mondadori a De Benedetti per regalarla a Berlusconi (che, processato come mandante di quella mazzetta, è uscito da quel processo grazie alle attenuanti generiche e alla conseguente prescrizione). Restava da definire il ruolo di Berlusconi in quel versamento estero su estero a Squillante, risalente a un mese dopo la sentenza Mondadori: marzo 1991. Tre tangenti giudiziarie in 5 mesi, tra la fine del 1990 e l’inizio del ’91. Se Previti, com’è irrevocabilmente accertato, pagò Metta per conto della famiglia Rovelli per vincere la causa (altrimenti persa) dell’Imi-Sir; se Previti pagò Metta per conto di Berlusconi per vincere la causa (altrimenti persa) del lodo Mondadori; ecco, se è vero tutto questo, per conto di chi Previti pagava Squillante? E perché Squillante, nel 1988, al termine della causa Sme vinta da Berlusconi e Barilla e persa da De Benedetti, ricevette 100 milioni estero su estero tramite Previti e Pacifico da Barilla, cioè dal socio di Berlusconi che non conosceva né Pacifico, né Previti, né Squillante? Questi erano i termini della questione che ieri i giudici dovevano risolvere. Hanno stabilito che, per i 100 milioni di Barilla a Squillante, «il fatto non sussiste»: sarà stato un omaggio a un giudice che stava particolarmente simpatico al re della pasta (che però non lo conosceva). Quanto ai 500 milioni della Fininvest a Squillante, Previti avrà fatto tutto da solo. Pur non essendo coinvolto personalmente in alcun processo (all’epoca, almeno), pagava il capo dell’ufficio Istruzione di Roma con soldi di Berlusconi, ma all’insaputa di Berlusconi, che non gli ha mai chiesto conto dei suoi quattrini (ma adesso lo farà, oh se lo farà: andrà da Previti, presso la comunità di recupero per tossicodipendenti dove sta scontando la pena, lo prenderà per il bavero e lo strapazzerà a dovere, per avergli causato tanti guai con la giustizia). O almeno non c’è la prova, nemmeno logica, che Berlusconi lo sapesse. Squillante, quando gli telefonava per gli auguri di Capodanno o negoziava il suo seggio al Senato, non gli parlò mai di quei generosi bonifici in Svizzera. Che so, per ringraziarlo. Invece niente, nemmeno una parola gentile. Che ingrato.
INTERVISTA
«Non siamo in un Paese normale. I magistrati? Li vorrei più coraggiosi»
di GERARDO D’AMBROSIO
MILANO - «Non siamo un paese normale». Gerardo D’Ambrosio, l’ex procuratore di Milano che dal 2006 è senatore dell’Ulivo, reagisce alla sentenza di ieri con parole analoghe, ma di opposto significato, rispetto ai commenti dei sostenitori di Silvio Berlusconi.
Tutta la Casa delle libertà tuona che l’assoluzione è la riprova dell’«uso politico della giustizia», del «vergognoso accanimento» dei magistrati di Milano.
«Vergognose sono le leggi ad personam che certi legislatori hanno approvato al solo fine di impedire i nostri processi, di evitare una sentenza quale che fosse. Se si può giudicare solo nel 2007 un fatto di corruzione commesso nel 1991 e scoperto nel 1995, lo si deve proprio a una norma ad hoc che è stata dichiarata incostituzionale! La legge sul falso in bilancio, la stessa che ha reso non più punibili le accuse più gravi all’imprenditore Berlusconi, perché nessuno lo ha mai processato per le sue idee politiche, quella è ancora in vigore. Per rimediare a errori veri o presunti, ci sono tre gradi di giudizio con mille garanzie. E’ il deformare le regole che crea un danno irrimediabile alla giustizia e alla credibilità del Parlamento».
Questa volta non sono i politici, ma i giudici d’appello di Milano a dire che Berlusconi è innocente.
«Le sentenze si rispettano sempre, ma si possono anche criticare. Prima delle motivazioni, non faccio commenti di merito. Dico solo che il dispositivo della sentenza mi sembra estremamente singolare. Parlo dei 434 mila dollari usciti dai conti della Fininvest, passati sul conto dell’avvocato Previti e finiti sul conto del giudice Squillante: neppure il presidente Castellano, in primo grado, se l’era sentita di assolvere Berlusconi. Il tribunale aveva concesso solo a lui le attenuanti che avevano fatto cadere il reato in prescrizione».
Ora invece il collegio del presidente Nese lo ha assolto «per non aver commesso il fatto» in base al «secondo comma» dell’articolo 530.
«Appunto, quindi la corruzione c’è stata. Anche questa sentenza dice che Previti ha corrotto Squillante, ma ritiene insufficiente la prova che Berlusconi sapesse che il suo avvocato pagava il capo dei gip di Roma... con i soldi della Fininvest! Mah... La procura generale aveva chiesto cinque anni di reclusione, è prevedibile che farà ricorso in Cassazione. Alla stessa Cassazione che ha reso definitive le condanne di Previti e del giudice Metta per la corruzione da mille miliardi di lire del caso Imi-Sir».
Alla stessa Cassazione che, proprio per questi 434.404 dollari, ha annullato le condanne inflitte in tribunale e confermate in appello per Previti e Squillante, ordinando di rifare a Perugia un processo ormai prescritto.
«Qualsiasi persone civile non può che restare profondamente amareggiata dall’andamento così tortuoso di un processo a un alto magistrato imputato di aver svenduto le proprie funzioni».
Ora che ha smesso la toga e non rischia più sanzioni, risponda con franchezza: dodici anni di attacchi hanno intimidito anche la magistratura? Lungo silenzio.
«Sono domande che si fanno tutti. Gli episodi ormai sono tanti e il dubbio s’insinua. Fare solo i processi alla criminalità comune è sicuramente più facile. Tra il ’92 e il ’94 siamo stati ingenui: pensavamo che ottenere 1408 condanne definitive per tangenti bastasse a dare un colpo decisivo alla corruzione. Invece quando abbiamo toccato interessi più forti, ci hanno cambiato le leggi. Contro questa criminalità superiore, in ogni periodo storico, ci vogliono magistrati eccezionalmente capaci, autorevoli e preparati. E anche più coraggiosi. Ora questa sentenza servirà a far credere che eravamo tutti toghe rosse compreso Davigo: Berlusconi lo ripete da 15 anni. Prima del Vajont, l’unica giornalista che denunciò la frana era bollata come comunista. Di me e Alessandrini lo dicevano già quando indagavamo sui terroristi di destra per la strage di piazza Fontana. Dopo 30 anni, la Cassazione ci ha dato ragione. Alla fine è la storia a giudicare la giustizia».
Paolo Biondani
*(Corriere della Sera, 28 aprile 2007)
Avanti sul conflitto d’interessi Berlusconi: «È killeraggio»
Il premier: il blind trust è americano
«È soltanto un provvedimento di killeraggio nei confronti degli oppositori». Così, il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi ha replicato da Trapani al premier Romano Prodi che da “Radio anch’io” ha ribadito che la legge sul conflitto di interessi andrà avanti.
La legge sul conflitto di interessi «è un impegno del governo» sul quale «è giusto che si vada avanti», ha spiegato il premier , sottolineando che la legge all’esame del Parlamento è anche «più blanda che in altre democrazie». Quanto al principio del blind trust, non si chiede all’individuo «di diventare San Francesco, ma di non amministrare direttamente la ricchezza» nel momento in cui entra in politica. È una cosa, ha sottolineato Prodi, «americana, americana, americana».
«Questo ddl -ha detto Berlusconi- sarebbe l’ulteriore dimostrazione di volontà di eliminare il più pericoloso concorrente, e cioè il leader dell’opposizione, cioè me stesso». Quindi, con un tono che suona come un avvertimento, ha aggiunto: «Credo che farà molto male alla sinistra questa volontà se attuata fino in fondo, perché gli italiani si renderanno conto di come questa sinistra vuole agire per eliminare gli avversari politici. Hanno tentato con la via giudiziaria e finora gli è andata male, ci ritentano con questo provvedimento che impedisce a chiunque abbia un’impresa e abbia perciò fatto bene nella vita sua anche procurando lavoro agli altri, di dedicarsi alle cose della politica e di dare il suo apporto al Paese».
Il blind trust «è una cosa che non sta nè in cielo nè in terra», ha replicato immediatamente il leader di Forza Italia. «Vogliono fare come il sistema americano -ha osservato- ma noi non siamo in America, siamo in Italia e qui le cose funzionano in maniera diversa». E ha aggiunto: «Quello che loro mettono come soglia al di là della quale uno dovrebbe vendere tutto e affidare a un signore che può fare delle sue sostanze ciò che vuole, è appunto una cosa che non sta né in cielo né in terra».
* l’Unità, Pubblicato il: 04.05.07, Modificato il: 04.05.07 alle ore 15.15
Il partito unico
di Furio Colombo *
Alzi lo sguardo e noti con disagio, come in una sequenza stroboscobica (la luce abbaglia e si spegne), che ci sono soprassalti e incongruenze tra una scena e l’altra.
In una inquadratura vedi Berlusconi (Berlusconi) festeggiato ai congressi Ds e Margherita. Mormora, in ognuna delle due occasioni: «Per il 95 per cento sono d’accordo». Applausi.
In un’altra inquadratura (negli stessi giorni) Berlusconi grida al colpo di Stato e al regicidio per una legge sul conflitto di interessi che lo stesso primo ministro Prodi ha giustamente definito “blanda” (e infatti due proposte di legge sullo stesso argomento, una della sinistra detta “radicale” alla Camera, una a mia firma al Senato, sono molto più “americane”, dunque molto più esigenti). E c’è chi manifesta stupore sia per la legge («Ma proprio adesso che stavamo andando verso valori condivisi?») sia per la scenata di Berlusconi («Una così brava persona»).
Però è inutile fare i polemici. Ha ragione Pierluigi Battista (Corriere della Sera, 5 maggio) quando dice che «l’anomalia italiana è una anomalia doppia». Un giorno si punta l’indice e il giorno dopo tutto è perdonato.
Ma se la memoria si aggiunge alla cronaca dei fatti, le dissonanze sono degne di un concerto di John Cage. All’improvviso vedi il tuo Primo ministro che si reca da Bossi come da uno statista, il Bossi di Borghezio, di Gentilini, della schiena da raddrizzare al magistrato disabile, dei proiettili che costano poco, del tricolore al cesso. Rende omaggio alla sua saggezza. Dove siamo finiti noi elettori?
Noi non abbiamo, né avremmo mai potuto avere valori condivisi con chi suggeriva di aprire la stagione della caccia usando gli immigrati come lepri. Certo, governare è un mestiere difficile, ma c’e un filo che non si deve mai rompere, quello con chi ti ha eletto, che continua ad avere fiducia, che guarda volentieri alle cose nuove. Ma chiede di capire. E chiede che il suo voto, quel voto per un’Italia che non assomigli in niente a Berlusconi e a Bossi, continui ad avere un senso e un peso. Vediamo.
I due congressi, Ds e Margherita, sono andati bene, con nobili discorsi, commozione, ricordi, celebrazione e - fra i Ds - separazioni sofferte che fanno pensare ad amicizie più grandi degli eventi e a eventi che chiedono, come accade nella storia, sacrifici personali e decisioni non facili. Strade diverse ma non lontane, lo stesso impegno di non voltarsi a rimpiangere, anche se il percorso e il punto sognato (progettato) di arrivo viene descritto in modo diverso da diverse colonne in marcia da sinistra.
Una è la “Sinistra democratica per il socialismo europeo” riunita in affollata assemblea al Palazzo dei Congressi dell’Eur ieri, sabato 5 maggio. Altre si organizzeranno.
Il Pd che sta per nascere dai due capolinea Ds e Margherita sarà il partito di Prodi. Questa affermazione risponde alle due domande di tanti: perché un’operazione così dolorosa (almeno per i Ds)? e chi sarà il leader?
Romano Prodi a cui si deve questa Italia affaticata e difficile però senza Berlusconi, non poteva essere il capo di un governo e di una coalizione senza un partito. Dunque il capo del governo sarà, anche in linea con chi lo ha votato sia alle primarie del 2005 che alle elezioni politiche del 2006, il leader del nuovo partito. Uno dei due grandi partiti italiani.
Tutto chiaro, tutto bene. Perché allora il senso di vuoto e di disorientamento (Chi sono, adesso? Cosa vogliono da me? Lealtà a che cosa? Dove sto andando?) e anche di solitudine che constati fra deputati, senatori, quadri, e nelle storiche sezioni Ds? Perché hai l’impressione - proprio mentre ferve tanta attività politica - che la distanza dai cittadini sia diventata immensa?
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Provo a confrontarmi con tre spunti (a cui non sono sicuro di sapere dare risposta) che mi giungono da tante mail, da tanti incontri e conversazioni ansiose.
La prima è la questione del Pse, ovvero della collocazione del nuovo nato in Europa. Non è una questione di forma. L’Europa è divisa in due grandi schieramenti popolari, e non concepisce ambivalenze e sospensioni. L’Europa è divisa in due parti, come dimostrano in modo efficace le elezioni francesi: il Pse, con tutto ciò che resta (non poco) del socialismo europeo; e il partito popolare, che è l’altro volto. Comprende Angela Merkel, ma anche Silvio Berlusconi. Rappresenta grandi frenate conservatrici ma anche modi nuovi e diversi di immaginare il futuro. Sono due schieramenti vasti e importanti. Ma non compatibili. Poi ci sono diversi altri interessanti raggruppamenti, ma nessuno può ospitare l’una o l’altra delle anime italiane del nascendo Pd.
La seconda domanda è più pressante, anche se si può affrontare meglio caso per caso che in modo astratto e generale. La domanda è questa: il centro, che è l’area più contigua a una sinistra che voglia essere cauta e moderata, è già saldamente occupato, è tutto un cantiere di lavori in corso, un incrociarsi di gru e di scavi che fanno prevedere fitte costruzioni, dunque un muro limitrofo, una barriera di contenimento.
Ma poiché la direzione di marcia non prevede rivisitazioni a sinistra (o almeno nell’area di progetti, attese e speranze, tradizionalmente definita tale), ecco una terza domanda (o riflessione): quanto moderati si può essere? E dov’è la linea di confine che distinguerà i militanti del Pd dagli altri “moderati”?
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Per rispondere a queste domande (o per approfondire la riflessione sul nascituro Pd) mi sembra utile riferirmi a una espressione che ricorre sempre più spesso. L’espressione è «valori condivisi». Questa affermazione viene di volta in volta enunciata come segno di buona volontà (dunque di tendenza, di sforzo a cercare)o come prova di vera democrazia.
Chiedo attenzione su questo punto: buona volontà (o ricerca ostinata di possibili accordi), sì. Prova di vera democrazia, no. Infatti non c’è limite al volenteroso tentare di andare d’accordo. Ma la democrazia è esattamente la buona gestione del non accordo. È il set di regole per affrontare situazioni complesse, gravi, urgenti, in cui due o più parti hanno visioni, speranze, attese, obiettivi profondamente diversi.
È possibile che mediazioni intelligenti e pazienti portino a soluzioni ravvicinate. Ma se in luogo di un esito condiviso si giunge a una decisione A che nega e respinge la decisione B , la prova della democrazia è nel rispetto delle regole per far prevalere l’una o l’altra decisione, non nello sciogliere una visione nell’altra.
La questione si complica quando si aggiunge l’esortazione, anzi il proposito, di raggiungere, come viene spesso detto, una "sintesi" fra posizioni contrapposte.
Ovvio che questa affermazione indica mitezza e buona volontà che, in sé, sono buone virtù democratiche. Ma nessuna situazione di confronto umano si risolve in una sintesi. Non un processo. Non un dibattito. Non una gara. Non una equazione aperta o una partita a scacchi. E certo non una competizione elettorale.
Naturalmente ogni democrazia è fondata su valori comuni. Ma quando anche su di essi scoppia il contrasto (è stato il caso delle profonde e selvagge modifiche tentate ai tempi di Berlusconi contro la Costituzione italiana), la risposta non è una sintesi tra vandalismo costituzionale e difesa della Costituzione. La risposta è il voto. Nel caso delle tentate alterazioni alla nostra Costituzione, gli elettori italiani hanno detto no, punto e basta. Ecco perché è un errore, un vistoso e curioso errore, affermare, da parte di Prodi, che la legge proposta dal governo sul conflitto di interessi è blanda e mite, come se tali qualità avvicinassero la controparte (Berlusconi, titolare di uno dei più grandi conflitti di interessi del mondo) e rendessero più facile individuare un “valore condiviso”. Infatti - incoraggiato dall’atteggiamento mite del presidente del Consiglio - il capo dell’opposizione ha reagito con furore. Ha definito la “legge blanda” di Prodi un atto di killeraggio (ovvero di assassinio) presentando una tesi unica nel mondo democratico ed enunciata con estrema chiarezza: «I ricchi devono governare perché hanno una marcia in più. Hanno creato ricchezza per sé dimostrando di essere più bravi, più dotati di talento degli altri». E ha reagito - unico nel mondo democratico, ma ben sostenuto dai suoi avvocati, inclusi quelli poi diventati giudizi costituzionali dimissionari, e dal suo partito di proprietà - con sincera repulsione verso l’idea di separare il potere privato da quello pubblico.
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La vicenda esemplare del Family Day è un’altra buona occasione per esplorare il territorio infido dei “valori condivisi”. Viva la faccia di Pezzotta, l’ex sindacalista diventato predicatore, che annuncia: «Venga chi vuole. Ma sia chiaro che questa è una manifestazione contro i Dico». Che vuol dire: siamo contro ogni tentativo, anche mite, anche blando, di dare una mano alle coppie di fatto.
Ma è ancora più clamorosa la vicenda del presidente della Cei, monsignor Bagnasco, se posta a confronto con quella del giovane presentatore del concerto del Primo maggio Andrea Rivera.
«Non lasceremo solo l’arcivescovo Bagnasco», è stato detto dopo le scritte insultanti a lui dedicate. È stata una formulazione un po’ curiosa. È difficile che un uomo di punta della Chiesa più grande del mondo possa essere lasciato solo. Ma è apparsa giusta come simbolo di solidarietà contro il pericolo. Giusto anche ignorare del tutto le affermazioni pesanti e gravi dedicate da monsignor Bagnasco a chi non condivide i suoi “valori condivisi” parlando persino (prima delle scritte) di terrorismo. Il vescovo non parlava del terrorismo dei terroristi, ma di quello di coloro che, sulla libera scelta delle donne e sui modi di amarsi e di vivere insieme, non condividono i valori della Chiesa cattolica.
Tutta l’Italia dunque ha fatto finta di niente e ha dato - giustamente - tutta la sua solidarietà al prelato. Non uno, neppure un sindacalista, ha detto, sul momento, una sola parola in difesa di Andrea Rivera. Che cosa aveva fatto Rivera, chiamato poi terrorista (è una mania) dall’Osservatore Romano?
Aveva ricordato che Pinochet, Franco e una celebrità della banda della Magliana avevano avuto il funerale e sepoltura in chiesa, mentre il povero corpo di Welby era stato lasciato fuori. Che bello se Rivera avesse mentito e fosse stato sgridato per avere detto una bugia.
Ma ciò che ha detto Andrea Rivera è la narrazione di uno dei fatti più tristi della vita italiana: il corpo di Piergiorgio Welby è stato effettivamente lasciato in strada, fuori dalla chiesa, per essere morto di troppa, insopportabile sofferenza. Ecco dunque il punto finale di questa riflessione. Per esistere, per vivere, per generare senso e calore e dunque attrazione, il Pd deve tracciare una linea di confine, segnare i propri punti fermi e irrinunciabili, dire di che cosa è alternativa, novità, cambiamento. Non vi sembra che le centinaia di migliaia di ragazzi del Primo maggio, mentre cantavano ancora e ancora «Bella ciao» con allegria e con passione, proprio questo stessero aspettando, la riposta alla domanda «adesso chi siamo»?
Sono giovani, avventurosi e poco inclini a ritornare verso il passato. Però guardandoli si capiva che ai loro occhi (ma questo vale anche per chi scrive) non tutti i valori sono valori, non tutti i valori sono “condivisi”. E non vorrebbero (non vorremmo) - tutti quei ragazzi del Primo maggio italiano - essere folla di un partito unico. Cercano (cerchiamo), netta e chiara, come in ogni democrazia, la linea di confine.
* l’Unità, Pubblicato il: 06.05.07, Modificato il: 06.05.07 alle ore 16.42
Eterni ritorni in parlamento
di Giovanni Sartori (Corriere della Sera, 12 maggio 2007)
È dal 1994 che la disciplina del conflitto di interessi passa e ripassa in Parlamento sempre ripetendo gli stessi argomenti, e per lo più le stesse stupidaggini. In materia la dose di stupidaggini è particolarmente elevata perché questa è la battaglia che più preme a Berlusconi. Così qualsiasi argomento, non importa quanto sballato, viene gettato nella mischia. E tanto meglio se fa soltanto confusione.
L’esito è stato che il governo di centrosinistra non arrivò a nulla, mentre il successivo governo Berlusconi ha varato una legge Frattini che, vedi caso, rendeva praticamente intoccabile Sua Emittenza. Era pertanto inevitabile che i beffati dalla legge Frattini riaprissero il problema. Ed eccoci qua. Il disegno di legge che propone una nuova disciplina intesa a disciplinare davvero il conflitto di interessi è stata varata in Commissione ieri e andrà in Aula, alla Camera, il 15 maggio. Invece di commentare un testo ancora incerto e modificabile sarà più utile ricordare quali sono i nodi fondamentali del dibattito.
Il primo è se il blind trust, l’affidamento cieco del patrimonio a un gestore indipendente, risolva il problema. La risposta è indubbia: per i pesci piccoli e soprattutto per un portafoglio differenziato di titoli, sì; ma per le balene e i beni visibili, no. Persino Frattini lo riconosce: un affidamento «cieco» presuppone un patrimonio di titoli che il gestore può cambiare, e così rendere invisibili e ignoti al proprietario; ma non può accecare beni visibili che restino tali. Eppure, e stranamente, il progetto continua a puntare sul blind trust. A quanto pare i nostri legislatori non solo non hanno tempo di leggere libri e giornali, ma nemmeno di leggersi tra di loro.
Secondo nodo: se il conflitto di interessi sia meglio impedito dall’ineleggibilità o dall’incompatibilità. Stranamente l’ultima versione di questo dibattito è che la sanzione più grave, o più risolutiva, sia la non-eleggibilità. Sarebbe così se si precisasse ineleggibilità «a cariche di governo». Ma se non si precisa così, allora la privazione dell’elettorato passivo lascia il tempo che trova. Nel nostro ordinamento non occorre che un presidente del Consiglio o un ministro siano parlamentari. Vedi il caso del primo governo Amato e del governo Ciampi. Questa precisazione elementare è stata fatta centinaia di volte. Pertanto dovrebbe essere chiaro che il problema è di incompatibilità. Ma da noi si direbbe che non c’è mai nulla di chiaro su nulla.
Terzo nodo: se l’esempio da seguire sia il modello Usa, e quale sia questo modello. A questo proposito la tesi dei Berlusconi boys, Frattini in testa, è che nemmeno negli Stati Uniti nessuno è mai obbligato a vendere (se dichiarato in conflitto di interessi). Ma non è così. È vero che i vari ethics board americani incaricati di accertare i conflitti di interesse non impongono nessuna vendita, ma impongono che l’interessato faccia una scelta tra patrimonio e carica politica. Pertanto se un Berlusconcino americano sceglie la politica, allora deve vendere. Se non lo fa, allora è costretto a dimettersi.
Dicevo che il dibattito sul conflitto di interessi è monotono. Mi correggo, una novità c’è: è l’introduzione del mammismo (o forse dovrei dire del «babbismo»). L’altro giorno Berlusconi ha detto: «Vorrebbero che affidassi il mio patrimonio a uno sconosciuto. Nessuno lo può chiedere a una persona che come me ha cinque figli». Poverini. Quasi quasi mi commuovo anch’io.
Il blackout sul referendum
di Giovanni Valentini (“la Repubblica”, 27 maggio 2007)
L’ingenuità è una predisposizione dell’animo. Un impulso spontaneo ad agire secondo natura, senza lasciarsi paralizzare dallo scetticismo né condizionare dalle disillusioni. (da "Ci salveranno gli ingenui" di Massimo Granellini - Longanesi, 2007 -pag. 8)
È fuori dubbio che il centro-sinistra, rappresentando la maggioranza parlamentare e guidando il governo del Paese, ha oggi la maggiore responsabilità nella crisi di sfiducia che colpisce la politica, l’intera classe politica, nel rapporto con l’opinione pubblica. Da qui deriva, appunto, quel "disincanto democratico" - come l’ha chiamato il direttore di Repubblica nel suo ultimo editoriale - da cui è affetto ormai il popolo di sinistra. E cui corrisponde, sul fronte opposto, un risentimento più o meno antidemocratico nei confronti del Palazzo, di chi detiene e gestisce il potere.
Non c’è da meravigliarsi, perciò, che cresca ogni giorno di più la marea dell’antipolitica, contro le disfunzioni, i ritardi e le inefficienze del sistema, contro i privilegi, gli abusi e gli sprechi. Sappiamo bene che si tratta di un’onda lunga, originata da cause remote e profonde: la fine delle grandi ideologie del Novecento; la caduta dei valori; la prevaricazione dell’economia sulla politica, con lo strascico di affarismo, di lobbismo e darwinismo sociale che si porta dietro. Eppure, l’accelerazione degli ultimi mesi va ben al di là degli errori o demeriti del governo in carica: errori di comunicazione, come ha ammesso lo stesso presidente del Consiglio; demeriti suoi o dei suoi ministri, nella confusione delle idee e delle posizioni che appanna la compagine governativa.
Non si può negare il fatto che quest’ultima fase della degenerazione politica è il prodotto di una legge elettorale mostruosa, di una colossale "porcata", per ripetere la definizione del suo stesso artefice, l’ex ministro leghista Roberto Calderoli, approvata fra l’altro anche dalla Confindustria adulta contro la posizione di quella giovanile. Vale a dire, un meccanismo di rappresentanza che ha destabilizzato il Parlamento, da una parte favorendo la frammentazione dello schieramento politico e dall’altra alimentando un’ulteriore dilatazione della partitocrazia. Come si fa, allora, a trascurare le responsabilità ancora più gravi che pesano per questo sul centrodestra?
Nella babele mediatica dell’Italia contemporanea, il "Porcellum" rischia di essere dimenticato, accantonato, rimosso dalla coscienza collettiva, come se fosse un incidente di percorso o un fattore marginale. E proprio da questo vizio risulta ingenuo riproporre il referendum elettorale -il primo non appoggiato ufficialmente dagli industriali - come un antidoto immediato e praticabile. E’ vero: non basta, non risolve il problema, non è un rimedio definitivo. Ma intanto è il primo strumento o la prima occasione a portata di mano per contenere la deriva o quantomeno per sperare d’innescare, se non proprio un’inversione di tendenza, un "ravvedimento operoso" da parte della classe politica. Altrimenti, chi o che cosa potrà indurre il Parlamento ad autoriformarsi, ad abolire una delle due Camere, a ridurre le spese, a rinunciare ai propri privilegi di casta, vitalizi, pensioni d’oro, auto blu, biglietti aerei, tessere ferroviarie, del teatro o del cinema?
L’ingenuità di Mario Segni e compagni è tale da superare anche lo scetticismo, le delusioni e le disillusioni del passato. Avrà pure vinto la lotteria e poi perso il biglietto, il leader del fronte referendario, ma almeno ha portato una ventata d’aria pulita in una camera a gas, inquinata dai veleni del potere e del sottopotere, dalla decomposizione dei partiti, dalla putrefazione di un sistema che già non reggeva più all’inizio degli anni Novanta. E oggi, dopo l’incerta transizione dalla prima alla seconda Repubblica, il prossimo referendum può servire ancora una volta a incanalare la protesta della società civile verso uno sbocco utile e costruttivo.
Si, la forma non fa la sostanza, l’ingegneria istituzionale non supplisce alla crisi della politica, la legge elettorale non è sufficiente a contrastare l’antipolitica. Tutto giusto e tutto vero. Ma la consultazione popolare, nel vuoto pneumatico di ideali e di slanci che deprime la vita nazionale, rappresenta comunque un motivo di mobilitazione, una risposta sicuramente democratica e costituzionale alla politica dell’antipolitica: cioè alla demagogia, al populismo, al qualunquismo che in molti tentano di cavalcare a rischio dell’ingovernabilità, per difendere i propri interessi di parte o di bottega. O magari per prefigurare un "governo degli ottimati", come quelli che nelle antiche città-stato e nei comuni medievali erano composti dai cittadini più influenti per censo o posizione sociale: questa volta ha ragione Berlusconi a dire che conta il popolo non la Confindustria.
«Gli innocenti - scriveva il filosofo Bertrand Russell - non sapevano che la cosa era impossibile e per questo la fecero». Oltre all’ingenuità, occorrerebbe però anche una buona dose di generosità politica per far decollare il referendum contro il "Porcellum": a cominciare proprio dal centrosinistra e dai soci fondatori del Partito democratico. Con un tale deterrente, forse potrà cambiare qualcosa nella politica italiana; senza, non cambierà verosimilmente nulla. Ma il blackout mediatico, e in particolare quello del duopolio televisivo, fa solo il gioco dell’antipolitica.
sabato@repubblica.it
Il nuovo partito di B&B
di LUCA RICOLFI (La Stampa, 26/8/2007)
La nascita del Partito della libertà mi ricorda quella della dea greca Pallade Atena, da noi popolo italico provincialmente ribattezzata Minerva, la dea della guerra. Atena, secondo il mito, nacque da un feroce mal di capo di Zeus (detto Giove, sempre qui da noi...), balzando fuori all’improvviso dalla sua testa, già armata di tutto punto. Così Michela Vittoria Brambilla, armata dei suoi Circoli della libertà, pare irrompere sulla scena politica italica da un mal di testa del Cavaliere, giustamente annoiato dai rituali degli alleati e dal grigiore della nomenklatura di Forza Italia (da lui stesso messa in sella, peraltro).
La spettacolarità e la subitaneità del parto non devono trarre in inganno, però: Berlusconi e Brambilla hanno fatto la cosa giusta, dal loro punto di vista. Secondo i sondaggi degli ultimi mesi, se si andasse a elezioni anticipate la destra le vincerebbe quasi sicuramente. Creare il Partito della Libertà significa togliere di mezzo quel «quasi», e lasciare in pista solo il «sicuramente». Vediamo perché.
Oggi in Italia il centro-destra ha 10-15 punti di vantaggio sul centro-sinistra. Gli elettori di sinistra sono delusi, alcuni sono passati definitivamente alla destra, molti dichiarano che la prossima volta non andranno a votare. Lo raccontano ai sondaggisti, ma lo faranno davvero? Qui sta il punto. La risposta dipende da chi guiderà i due schieramenti, ma soprattutto da chi guiderà il centro-destra. Se il centro-destra fosse guidato da un Sarkozy italiano, non ci sarebbe partita: la destra sfonderebbe, conquistando fra il 55 e il 60% dei consensi. Ma se la destra fosse guidata, ancora una volta, da Berlusconi?
Allora comincerebbero i tentennamenti. L’elettore medio di sinistra è gregario (o razionale, se preferite), come lo era l’elettore medio democristiano: non ha troppi problemi a votare «turandosi il naso», perché per l’elettore razionale votare significa scegliere il male minore, e di fronte a Satana anche il peccatore più incallito sembra un bravo ragazzo. Dunque voterà qualsiasi cosa il convento di sinistra gli offra: l’importante, si sentirà dire, è «non riconsegnare il paese a questa destra». Insomma rivedremo il solito film: chi non voterà a sinistra sarà considerato un traditore, un nemico della democrazia, un irresponsabile. E poiché nessuno, al momento, può sapere quanti di noi si piegheranno a questo ricatto morale, la vittoria del centro destra è solo quasi sicura.
Naturalmente è possibile che abbia ragione Edmondo Berselli, secondo cui - dopo lo spettacolo offerto dall’Unione - Berlusconi vincerebbe comunque, qualsiasi cosa faccia la sinistra. Ma un piccolo margine di rischio esiste sempre: e se i delusi dalla politica disertassero in massa le urne? E se Montezemolo facesse un suo partito? E se nascesse «la cosa bianca» (nuova Dc) e si alleasse con il centro-sinistra, pur di scongiurare il ritorno del Cavaliere? E se Veltroni ipnotizzasse il paese parlando di cinema e di Africa? In ciascuno di questi scenari il centro-destra rischia qualcosina. Non molto, ma un piccolo rischio c’è. Ebbene, a mio parere il Partito della Libertà - per il momento in cui nasce e per gli umori che potrebbe incanalare - è una formidabile polizza contro questi rischi.
Oggi c’è in Italia, specie al Nord, un pezzo di elettorato che detesta i partiti, è esasperato dal fisco, ha paura della criminalità comune, e non si fida di questa sinistra ma neppure del tipo di destra che ha governato l’Italia dal 2001 al 2006. Questo tipo di elettorato medita più o meno seriamente di non scegliere alcun partito, ed è catturabile solo da una formazione politica del tutto nuova, con forti caratteri decisionisti, antipolitici, anticentralisti. Un pezzo di questo segmento elettorale confluirà sicuramente nella Lega. Un altro avrebbe potuto essere catturato dal Partito democratico del Nord, se qualcuno avesse avuto il fegato di crearlo. Un altro ancora avrebbe visto con entusiasmo la nascita di un partito liberal-radicale, guidato da Montezemolo, da Capezzone o da altri. Ma dato che nessuna di queste eventualità si è verificata, ecco che lo spazio politico lasciato libero da tutti gli altri potrebbe essere occupato dal partito di BB (Berlusconi & Brambilla), il che permetterebbe a Berlusconi di ricandidarsi alla guida del paese senza alcun vero rischio. Come ha notato subito Lucia Annunziata, il Partito della Libertà è il partito della rinascita di Berlusconi, che gli consente di rimandare sine die la ricerca di un successore, di un erede politico. Dunque B & B, dal loro punto di vista, hanno fatto benissimo. Ma dal nostro?
Qui le cose cambiano drasticamente. Nulla, al momento, autorizza a pensare che il nuovo partito nasca da un ripensamento (auto)critico sul quinquennio berlusconiano. Che non è certo stato quel che la sinistra suppone, ma nemmeno quel che la destra pretende. Contrariamente a quel che molti credono, l’Italia del 2006, che Berlusconi ha consegnato a Prodi, aveva più tasse e più criminalità dell’Italia che Berlusconi stesso, nel 2001, aveva ereditato dal centro-sinistra. Quanto alle grandi riforme modernizzatrici, ne abbiamo viste in funzione pochine: niente ammortizzatori sociali, niente liberalizzazioni, niente federalismo, nessun intervento effettivo sulle pensioni. E domani?
Domani si vedrà. Ma il rischio più grave è quello che, nei giorni scorsi, paventava Galli della Loggia sul Corriere della Sera: che il Partito della Libertà sia solo un espediente organizzativo per mascherare un vuoto politico, ossia l’endemica mancanza di discussione, di idee, di analisi del centro-destra italiano. Soprattutto l’incapacità dei leader della Casa delle Libertà di rispondere alla domanda delle domande: perché, nonostante una maggioranza parlamentare schiacciante, in cinque anni avete modernizzato così poco il Paese? Finché a questa domanda non verrà data alcuna risposta, è inutile illudersi che Berlusconi possa riuscire dove Prodi sta fallendo: il Partito della Libertà potrà anche ridare il governo a Berlusconi, ma difficilmente potrà dare un governo agli italiani.
L’analisi.
Nel ’94 l’annuncio, ma il progetto partì nel ’92. Il premier lamenta
di essere accusato di "cose mai viste" a proposito delle stragi di mafia del 1993
La nascita di Forza Italia e le bugie del Cavaliere
Ma ci sono anche documenti notarili che retrodatano la creazione del partito
di GIUSEPPE D’AVANZO *
FORZA ITALIA nasce nel 1993, da un’idea covata fin dal 1992. Non c’è dubbio che già nell’aprile del 1993 - quindi alla vigilia della prima ondata delle stragi di mafia di via Fauro, Roma (14 maggio), via dei Georgofili, Firenze (27 maggio) - è matura la volontà di Berlusconi di "mettersi alla testa di un nuovo partito".
In luglio - in parallelo con la seconda ondata di bombe, via Palestro, Milano, 27 luglio; S. Giorgio al Velabro, S. Giovanni in Laterano, Roma, 28 luglio - si mette a punto il progetto politico che diventa visibile in settembre e concretissimo in autunno. E’ una cronologia pubblica, quasi familiare, documentata da testimoni al di sopra di ogni sospetto. Dagli stessi protagonisti. Addirittura da atti notarili. Se è necessario ricordarla, dopo sedici anni, è per le sorprendenti parole di Silvio Berlusconi. Dice il presidente del Consiglio a Olbia: "Mi accusano di cose mai viste. Dicono che io sia il mandante delle stragi di mafia del ’92 e ’93; che avrei orchestrato insieme a Dell’Utri per destabilizzare il Paese. E’ una bufala visto che Forza Italia non era ancora nata e nacque solo un anno dopo quando diversi sondaggi mi avevano detto che c’era un spazio politico per evitare che finissimo in mano ai comunisti" (il Giornale, 29 novembre).
"La pianificazione dell’operazione politica di Berlusconi cominciò nel giugno 1993, subito dopo la vittoria dei partiti di sinistra alle elezioni amministrative, e già a fine luglio se ne cominciarono a scorgere le prime, anche deboli, avvisaglie pubbliche", scrive Emanuele Poli (Forza Italia, strutture, leadership e radicamento territoriale, il Mulino).
Il 28 luglio, intervistato da Repubblica, Berlusconi invoca "la necessità di una nuova classe dirigente" e rivela che, in quelle settimane, "sta incontrando in varie città d’Italia chiunque condividesse i "valori liberaldemocratici" e credesse nella libera impresa". Nello stesso giorno, intervistato dal Corriere della Sera, Giuliano Urbani, docente di Scienza della politica alla Bocconi, svela i suoi incontri con intellettuali, opinionisti, imprenditori di Confindustria che condividono le preoccupazioni "per una replica su scala nazionale della vittoria delle sinistre alle amministrative". In segreto, Berlusconi e Urbani già lavorano insieme.
Il loro progetto politico diventa pubblico il 29 giugno, quando molti uomini vicini a Berlusconi (Marcello Dell’Utri, Cesare Previti, Antonio Martino, Mario Valducci) costituiscono l’"Associazione per il buon governo" presso lo studio del notaio Roveda a Milano. Le nove sezioni tematiche dell’Associazione raccolte in un libretto ("Alla Ricerca del Buongoverno") diventano il "riferimento ideologico" dei nascenti club di Forza Italia. Il 6 settembre, Berlusconi ne inaugura il primo. Il 25 novembre viene fondata a Milano da Angelo Codignoni, ex direttore di La Cinq, il network francese di Fininvest, l’"Associazione nazionale del Club di Forza Italia".
Questa è la storia ufficiale, verificata dai politologi. Se ne può mettere insieme un’altra con le testimonianze dirette, che sono mille e una. Ne scegliamo qui soltanto tre. La prima è di Indro Montanelli (L’Italia di Berlusconi, Rizzoli). "Il 22 giugno del 1993, Urbani espone le sue tesi a Gianni Agnelli, che ascoltò con attenzione limitandosi a dire: "Ne ha parlato con Berlusconi?". Il 30 del mese Urbani si trattenne alcune ore a villa San Martino ad Arcore. Le idee che espose erano idee che il Cavaliere già rimuginava. Sta di fatto che, a distanza di un paio di giorni, Berlusconi convocò Gianni Pilo, direttore del marketing in casa Fininvest. Pilo doveva accertare quali fossero i "sogni" degli italiani: il che fu fatto tramite due istituti specializzati in sondaggi d’opinione. Qualche settimana più tardi Pilo ebbe un istituto demoscopico tutto suo mentre Marcello Dell’Utri gettava le fondamenta d’una struttura organizzativa su scala nazionale". Quindi, i primi sondaggi sono del ’93 e non del ’94.
Il secondo testimone diretto è Enrico Mentana, che retrodata al 30 marzo "il primo indizio chiaro della volontà di Berlusconi" di creare un partito. Quel giorno, consueta riunione mensile ad Arcore dei responsabili della comunicazione del gruppo. Ci sono Berlusconi, il fratello Paolo, Letta, Confalonieri, Dell’Utri e Del Debbio di Publitalia, l’amministratore delegato Tatò, i direttori dei periodici, Monti (Panorama), Briglia e Donelli (Epoca), la Bernasconi e la Vanni dei femminili, Orlando il condirettore de il Giornale, Vesigna (Sorrisi e Canzoni). E poi i televisivi, Costanzo, Ferrara, Fede, Gori, Mentana, direttore del Tg5. Che cita (Passionaccia, Rizzoli) il verbale della riunione: "Ad avviso di Silvio Berlusconi, l’attuale situazione è favorevole come non mai per chi provenendo da successi imprenditoriali voglia dedicare i propri talenti al governo della cosa pubblica. Non nasconde che gli viene una gran voglia di mettersi alla testa di un nuovo partito". Cinque giorni dopo, la decisione è presa. Lo racconta il terzo testimone, Enzo Cartotto, ghost writer di Giovanni Marcora e Piero Bassetti, prima di diventare consigliere politico di Berlusconi e Dell’Utri.
I ricordi di Cartotto si possono ricavare dall’interrogatorio reso alla Procura di Palermo il 20 giugno 1997 e da un suo libro Operazione Botticelli.
"Nel maggio-giugno 1992 sono contattato da Marcello Dell’Utri perché vuole coinvolgermi in un progetto. Dell’Utri sostiene la necessità che, di fronte al crollo degli ordinari referenti politici del gruppo, Fininvest "entri in politica" per evitare che un’affermazione delle sinistre possa portare il gruppo Berlusconi prima a un ostracismo e poi a gravi difficoltà. Dell’Utri mi fa presente che questo suo progetto incontra molte difficoltà nel gruppo e, utilizzando una metafora, mi dice che dobbiamo operare come sotto il servizio militare, e cioè preparare i piani, chiuderli in un cassetto e tirarli fuori in caso di necessità. Dell’Utri mi invita anche a sostenere questa sua tesi presso Berlusconi, con il quale io coltivo da tempo un rapporto di amicizia. Successivamente a questo discorso, comincio a lavorare presso gli uffici della Publitalia. (...) Partecipo a un incontro tra Berlusconi e Dell’Utri, nel corso del quale Berlusconi dice espressamente a Dell’Utri e a me di non mettere a conoscenza di questo progetto né Fedele Confalonieri, né Gianni Letta. Dall’ottobre 1992 in poi, mi occupo di contattare associazioni di categoria ed esponenti del mondo politico dell’area di centro e il risultato del sondaggio fu che tutte queste forze sentono fortemente la mancanza di un referente politico. Si arriva quindi all’aprile del 1993, quando Berlusconi mi dice che aveva la necessità di prendere una decisione definitiva su ciò che si deve fare perché le posizioni di Dell’Utri e Confalonieri gli sembrano entrambe logiche e giuste, e lui non è mai stato così a lungo in una situazione di incertezza. Che devo fare?, mi chiede Berlusconi. Confessa: "A volte mi capita perfino di mettermi a piangere, quando sono sotto la doccia e sono solo con me stesso. Non so veramente come venirne fuori". Mi dice che, per prendere una decisione, quella sera ad Arcore, ha chiamato Bettino Craxi. Alla riunione partecipiamo soltanto noi: io, Craxi e Berlusconi. (...) Dice Craxi: "Bisogna trovare un’etichetta, un nome nuovo, un simbolo che possa unire gli elettori che un tempo votavano per il pentapartito. Io sono convinto che, se tu - Silvio - trovi una sigla giusta, con le televisioni e con le strutture aziendali di cui disponi puoi riuscire a recuperare quella parte di elettorato che è sconvolto, confuso ma anche deciso a non farsi governare dai comunisti e dagli ex comunisti". (...) "Bene - dice Silvio - so quello che devo fare. E’ deciso. Adesso bisogna agire da imprenditori. Chiamare gli uomini, comunicare la decisione. Adesso bisogna dirlo a Marcello (Dell’Utri), perché mi metta attorno persone che mi possano accompagnare. Bisogna fare quest’operazione di marketing sociale e politico. Va bene, allora andiamo avanti, procediamo su questa strada, ormai la decisione è presa".
E’ il 4 aprile 1993. Quel giorno - è domenica, piove, fa freddo come in inverno - può essere considerato il giorno di nascita di Forza Italia. Perché il Cavaliere vuole farlo dimenticare?
Non è una novità, in Berlusconi, l’uso politico e sistematico della menzogna. In questo caso egli nega la realtà, la sostituisce con una menzogna per liberarsi di un sospetto - fino a prova contraria, soltanto una coincidenza - sollecitato dal sincronismo tra le sue mosse politiche e la strategia terroristica di Cosa Nostra. E’ una contemporaneità che i mafiosi disertori dicono combinata. Se c’è stata intesa o collaborazione, non ha trovato per il momento alcun attendibile, concreto conforto. Confondere le cose, eclissare fatti da tutti conosciuti, appare a Berlusconi la migliore via d’uscita dall’imbarazzante angolo. E’ la peggiore perché destinata a rinvigorire, e non a sciogliere, i dubbi. Un atteggiamento di disprezzo per la realtà già non è mai moralmente innocente. In questi casi, la negazione della realtà - al di là di ogni moralistica condanna - finisce per mostrare il bugiardo corresponsabile di una colpa. Che bisogno ne ha Berlusconi, quando raccontando la verità dei fatti può liberarsi di quella nebbia? Perché non lo fa? Qual è la ragione di questa fragorosa ultima menzogna, in un momento così delicato per il Cavaliere?
© la Repubblica, 1 dicembre 2009