"CASA COMUNE". Che oggi, prima della fine dell’anno (non del mondo!) e alla vigilia di Natale 2012, ai cittadini e alle cittadine del mio Paese siano venute alla mente queste due parole, “casa” e “comune”, è un segno di risveglio e di presa di coscienza di quanto di grave e di preoccupante è accaduto all’interno di tutta la comunità. E non solo del mio Paese!
Consapevoli e consapevole, evidentemente, che da troppo tempo ognuno e ognuna non sa più dove abita e chi è, che ognuno e ognuno vive come se stesse dormendo, come se avesse un proprio “mondo”, un proprio “Sole”, una propria “aria”, una propria “acqua”... una propria “casa” e un proprio “comune”, hanno deciso di mettersi al lavoro con se stessi e con se stesse e con gli altri e le altre e ripensare ciò che unisce ognuno e ognuna non solo in ciò che si chiama “casa” ma anche in ciò che a tutti i livelli e istituzionalmente unisce tutti e tutte e si chiama “Comune”, la Casa di tutti e di tutte, la “Casa Comune”.
L’impegno è grande, ma è urgente e vitale: ne va della vita di ognuno e di ognuna, e di tutti e di tutte.
Non è affatto uno scherzo: si tratta di risalire l’abisso in cui si è caduti e uscire a “rivedere le stelle”. E nascere - ancora e di nuovo!
Non c’è altro da dire, se non invitare a ricordare la lezione di Dante, come dei nostri padri e delle nostre madri costituenti: è “l’amor che muove il Sole e le altre stelle”. E augurare “Buon Natale” ... e una nuova e bella Casa Comune per tutti e per tutte.
Buon 2013
Federico La Sala (23.12.2012)
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Si può amare la nostra Costituzione?
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 22 dicembre 2012)
IL DISCORSO di Roberto Benigni sulla Costituzione è stato per molti una rivelazione: rivelazione, innanzitutto, di principi fino a lunedì scorso, probabilmente, ignoti ai più; ma, soprattutto, rivelazione di ciò che sta nel nucleo dell’idea stessa di Costituzione. In un colpo solo, è come se fosse crollata una crosta fatta di tante banalità, interessate sciocchezze, luoghi comuni, che impedivano di vedere l’essenziale.
Non si è mancato di leggere, anche a commento di quel discorso, affermazioni che brillano per la loro vuotaggine: che la Costituzione è un ferrovecchio della storia, superata dai tempi, figlia della guerra fredda e delle forze politiche di allora. Benigni, non so da chi, è stato definito "un comico", "un guitto".
Il suo discorso è stato la riflessione d’un uomo di cultura profonda e di meticolosa preparazione, il quale padroneggia in misura somma una gamma di strumenti espressivi che spaziano dall’ironia leggera, alla tenerezza, all’emozione, all’indignazione, alla passione civile. La Costituzione, collocata in questo crogiuolo d’idee e sentimenti, ha incominciato o ricominciato a risuonare vivente, nelle coscienze di molti.
È stato come svelare un patrimonio di risorse morali ignoto, ma esistente. Innanzitutto, è risultata la natura della Costituzione come progetto di vita sociale. La Costituzione non è un "regolamento" che dica: questo si può e questo non si può, e che tratti i cittadini come individui passivi, meri "osservanti".
La Costituzione non è un codice di condotta, del tipo d’un codice penale, che mira a reprimere comportamenti difformi dalla norma. È invece la proposta d’un tipo di convivenza, secondo i principi ispiratori che essa proclama. Il rispetto della Costituzione non si riduce quindi alla semplice non-violazione, ma richiede attuazione delle sue norme, da assumersi come programmi d’azione politica conforme.
L’Italia, o la Repubblica, "riconosce", "garantisce", "rimuove", "promuove", "favorisce", "tutela": tutte formule che indicano obiettivi per l’avvenire, per raggiungere i quali occorre mobilitazione di forze. La Costituzione guarda avanti e richiede partecipazione attiva alla costruzione del tipo di società ch’essa propone. Vuole suscitare energie, non spegnerle. Vuole coscienze vive, non morte. Queste energie si riassumono in una parola: politica, cioè costruzione della pòlis.
A differenza d’ogni altra legge, la cui efficacia è garantita da giudici e apparati repressivi, la Costituzione è, per così dire, inerme: la sua efficacia non dipende da sanzioni, ma dal sostegno diffuso da cui è circondata. La Costituzione è una proposta, non un’imposizione. Anche gli organi cosiddetti "di garanzia costituzionale" - il Presidente della Repubblica e la Corte costituzionale - nulla potrebbero se la Costituzione non fosse già di per sé efficace. La loro è una garanzia secondaria che non potrebbe, da sola, supplire all’assenza della garanzia primaria, che sta presso i cittadini che la sostengono col loro consenso. Così si comprende quanto sia importante la diffusione di una cultura costituzionale. L’efficacia del codice civile o del codice penale non presuppone affatto che si sia tutti "civilisti" o "penalisti".
L’efficacia della Costituzione, invece, comporta che in molti, in qualche misura, si sia "costituzionalisti". Non è un’affermazione paradossale. Significa solo che, senza conoscenza non ci può essere adesione, e che, senza adesione, la Costituzione si trasforma in un pezzo di carta senza valore che chiunque può piegare o stracciare a suo piacimento.
Così, comprendiamo che la prima insidia da cui la Costituzione deve guardarsi è l’ignoranza. Una costituzione ignorata equivale a una Costituzione abrogata. La lezione di Benigni ha rappresentato una sorpresa, un magnifico squarcio su una realtà ignota ai più. È lecito il sospetto che sia ignota non solo a gran parte dei cittadini, ma anche a molti di coloro che, ricoprendo cariche pubbliche, spensieratamente le giurano fedeltà, probabilmente senza avere la minima idea di quello che fanno.
La Costituzione, è stato detto, è in Italia "la grande sconosciuta". Ma c’è una differenza tra l’ignoranza dei governanti e quella dei governati: i primi, ignoranti, credono di poter fare quello che vogliono ai secondi; i secondi, ignoranti, si lasciano fare dai primi quello che questi vogliono. Così, l’ignoranza in questo campo può diventare instrumentum regni nelle mani dei potenti contro gli impotenti.
A questo punto, già si sente l’obiezione: la Costituzione come ideologia, paternalismo, imbonimento, lavaggio del cervello. La Costituzione come "catechismo": laico, ma pur sempre catechismo. La Costituzione presuppone adesione, ma come conciliare la necessaria adesione con l’altrettanto importante libertà? Questione antica.
Non si abbia paura delle parole: ideologia significa soltanto discorso sulle idee. Qualunque costituzione, in questo senso, è ideologica, è un discorso sulle idee costruttive della società. Anche la costituzione che, per assurdo, si limitasse a sancire la "decostituzionalizzazione" della vita sociale, cioè la totale libertà degli individui e quindi la supremazia dei loro interessi individuali su qualunque idea di bene comune, sarebbe espressione d’una precisa ideologia politica.
L’idea d’una costituzione non ideologica è solo un’illusione, anzi un inganno. Chi s’oppone alla diffusione della cultura della costituzione in nome d’una vita costituzionale non ideologica, dice semplicemente che non gli piace questa costituzione e che ne vorrebbe una diversa. Se, invece, assumiamo "ideologia" come sinonimo di coartazione delle coscienze, è chiaro che la Costituzione non deve diventare ideologia.
La Costituzione della libertà e della democrazia deve rivolgersi alla libertà e alla democrazia. Deve essere una pro-posta che non può essere im-posta. Essa deve entrare nel grande agone delle libere idee che formano la cultura d’un popolo. La Costituzione deve diventare cultura costituzionale.
La grande eco che il discorso di Benigni ha avuto nell’opinione pubblica è stata quasi un test. Essa dimostra l’esistenza latente, nel nostro Paese, di quella che in Germania si chiama WillezurVerfassung, volontà di costituzione: anzi, di questa Costituzione. È bastato accennare ai principi informatori della nostra Carta costituzionale perché s’accendesse immediatamente l’immagine d’una società molto diversa da quella in cui viviamo; perché si comprendesse la necessità che la politica riprenda il suo posto per realizzarla; perché si mostrasse che i problemi che abbiamo di fronte, se non trovano nella Costituzione la soluzione, almeno trovano la direzione per affrontarli nel senso d’una società giusta, nella quale vorremmo vivere e per la quale anche sacrifici e rinunce valgono la pena. In due parole: fiducia e speranza. Ma senza illusioni che ciò possa avvenire senza conflitti, senza intaccare interessi e posizioni privilegiate: la "volontà di costituzione" si traduce necessariamente in "lotta per la Costituzione" per la semplice ragione che non si tratta di fotografare la realtà dei rapporti sociali, ma di modificarli.
La Costituzione vive dunque non sospesa tra le nuvole delle buone intenzioni, ma immersa nei conflitti sociali. La sua vitalità non coincide con la quiete, ma con l’azione. Il pericolo non sono le controversie in suo nome, ma l’assenza di controversie. Una Costituzione come è la nostra, per non morire, deve suscitare passioni e, con le passioni, anche i contrasti. Deve mobilitare. Tra i cittadini c’è desiderio di mobilitazione, cui mancano però i punti di riferimento. I quali dovrebbero essere offerti dalle strutture organizzate della partecipazione politica, innanzitutto i partiti che dicono di riconoscersi nella Costituzione. Ma tra questi spira piuttosto un’aria di smobilitazione, come quando ambiguamente si promettono (o minacciano, piuttosto) "stagioni", "legislature" costituenti, senza che si chiarisca che cosa si vorrebbe costituzionalizzare, al posto della Costituzione che abbiamo. Possibile che non si veda a quale riserva d’energia così si rinuncia, in cambio di flosce e vaghe prospettive?
Nascere ha sempre senso
Già prima di Cristo gli stoici negavano che fosse meglio non esistere
In tempi di crisi ritorna il pessimismo cosmico ma conviene seguire Pirandello e non Leopardi
di Marco Rizzi (Corriere della Sera-La Lettura, 23.12.2012)
Pur nel mezzo della pesante crisi che stiamo attraversando, un calendario del prossimo anno non mancherà di certo anche nei più smilzi pacchi dono che ci saranno recapitati in questi giorni di Natale. Tuttavia, a differenza di qualche tempo fa, il futuro verso cui ci farà alzare lo sguardo appare segnato dall’incertezza e dal dubbio; quanto riusciremo a conservare del benessere acquisito sino a oggi? Soprattutto: potremo sperare ancora in un futuro migliore, in un progresso comune in cui ciascuno possa inserirsi e lasciare qualcosa di significativo a chi verrà dopo di noi?
Il pensiero ritorna ai banchi di scuola, alla lettura - immancabile nella scuola italiana di ogni ordine e grado - del Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere di Leopardi, quello in cui un passante smonta, con diabolica abilità dialettica, l’offerta di acquistare un calendario per l’anno nuovo, perché, nonostante le promesse del venditore, nessuno vorrebbe ricominciare daccapo la vita che ha sin lì vissuto: «Ciascuno è d’opinione che sia stato di più o di più peso il male che gli è toccato, che il bene».
L’idea compariva già in un passo dello Zibaldone di qualche anno precedente; comunemente si pensa che Leopardi l’abbia derivata dai suoi amati autori antichi: è celebre il detto attribuito a Sileno secondo cui «non essere mai nati è la cosa migliore e la seconda, una volta venuti al mondo, tornare da dove si è venuti» - così nella forma in cui lo riporta Sofocle. Non tutti gli antichi, però, condividevano un simile pessimismo cosmico; i filosofi stoici, ad esempio, non solo ritenevano che la presenza nel mondo di ogni uomo facesse parte di un mirabile disegno provvidenziale, ma addirittura giungevano a sostenere che gli eventi di questo mondo e la vita di ciascuno si sarebbero ripetuti identici nel corso di una infinita successione di ere cosmiche sempre eguali tra loro.
Dal canto loro, i primi cristiani affermavano che nascere era una fortuna, proprio (o solo) perché permetteva di rinascere alla vita eterna; in questo modo, era ribadito il disegno della provvidenza, ma il ciclo degli eterni ritorni veniva definitivamente infranto e il destino dell’uomo posto nell’amore misericordioso di Dio. Anche quando l’attenzione al destino ultraterreno si verrà attenuando, la rottura cristiana della ciclicità del tempo antico lascerà aperto lo spazio della speranza e del fattivo impegno per un futuro migliore già in questo mondo.
È con l’Illuminismo che si opera un decisivo cambio d’orizzonte; nel Dictionnaire historique et critique di Pierre Bayle, pubblicato nel 1697, il rifiuto di rinascere una seconda volta poggia sull’esperienza del singolo, su di un pessimismo personale, non più su una visione cosmica: è nella vicenda di ciascuno che si rivela drammaticamente l’assenza della provvidenza e di un qualsiasi disegno che diriga la vita dell’uomo, ancor prima che il corso della storia. Non il nascere in quanto tale è un male, come voleva Sileno, bensì il concreto andamento dell’esistenza umana che indica, a chi la osserva con ragione, come non valga la pena di riviverla - salvo invidiare quella degli altri, che illusoriamente appare meno infelice.
Il vasto dibattito illuministico su questi temi, ricostruito da Stefano Brogi (Nessuno vorrebbe rinascere. Da Leopardi alla storia di un’idea tra antichi e moderni, Ets, pp. 216, 22), suscitò ovviamente la reazione dei teologi e dei pensatori cristiani in difesa della provvidenza e dell’azione di Dio nella storia; ma persino Leibniz, che pure sosteneva che quello presente fosse il migliore dei mondi possibili, dovette ammettere che, in fondo, chiunque accetterebbe di rinascere solo a condizione di avere una vita diversa da quella vissuta - diversa, non necessariamente migliore.
Questo è il retroterra su cui si innesta il Dialogo di Leopardi: un testo, a sua volta, presente alle riflessioni di Schopenhauer, che riconosce come «lo scherno e lo strazio di questa esistenza... egli (Leopardi) lo dichiara in ogni pagina della sua opera, e però con una tale molteplicità di forme e di giri, con una tale ricchezza di immagini, da non ingenerare mai fastidio, riuscendo anzi sempre dilettoso e stimolante».
È con Nietzsche che l’idea leopardiana subisce una torsione sorprendente e inaspettata: il giudizio sulla vita dell’uomo resta sconfortante e negativo, ma proprio perché non vi è alcuna provvidenza, e in fondo nessun senso nell’esistenza, l’unica speranza che ci è data è la vita che viviamo, a cui occorre dire di sì in tutti i suoi aspetti, compresa la sua identica riproposizione. Tale si rivela il significato ultimo della dottrina dell’eterno ritorno proclamato dallo Zarathustra nietzschiano: una prova sovrumana, alla quale potrà rispondere solamente l’Übermensch, il superuomo, colui che è «il vero senso della terra». Il mito stoico dell’eterno ritorno non risulta più legato all’azione della provvidenza o alla promessa di Dio, ma diviene trasparente metafora della condizione umana, condannata a consumarsi nel fallimento di questa vita.
A ben vedere, questo esito risulta insostenibile. Lo riconosce un altro insospettabile pessimista incontrato sui banchi di scuola, Pirandello. Nel racconto Notizie dal mondo, Tommaso tiene un monologo sulla tomba dell’amico morto, Momino; interrogandosi proprio sull’origine del mito dell’eterno ritorno, conclude che solo due amici felici - o due innamorati - potevano aver sognato una cosa simile: «Quanto mi piacerebbe, se ci facessero tornare tutti e due assieme! Sono sicuro che, pur non avendo memoria della nostra vita anteriore, noi ci cercheremmo sulla terra e saremmo amici come prima». Siamo ormai consapevoli che non ci è dato scegliere se rinascere o no; né ci è facile cogliere quale sia la direzione in cui l’umanità si muove; proprio questo, però, ci rende liberi di dare un senso al nostro nascere e rinascere ogni giorno, alzando lo sguardo da noi stessi e cercando quello degli altri.
Il sovvertimento del Natale
di Bernard Ginisty
in “www.garriguesetsentiers.org” del 21 dicembre 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Una delle tentazioni più forti della mente umana consiste nel fare di tutto perché l’irrompere del nuovo si riduca alla ripetizione del vecchio. La volontà di controllo dell’esistenza cerca di colonizzare il tempo che viene, a rischio di impedirsi la sorpresa dell’imprevisto. Tendiamo a banalizzare l’evento quando sconvolge le nostre tranquillità intellettuali e sociali.
Il senso profondo della liturgia che ci invita ogni anno a rivivere il Natale sta nell’accogliere la rottura provocata da un avvenimento di grande portata qual è una nascita. Una breccia viene aperta dall’irruzione del Verbo fatto carne nella storia degli uomini. La festa che, secondo la liturgia del giorno di Natale, annuncia: “Oggi la luce è discesa sulla terra. Popoli dell’universo, entrate nella luce di Dio” è talmente sconvolgente, che abbiamo tentato di neutralizzarla per farne un grazioso scenario per la celebrazione del consumismo, diventato la pratica “religiosa” indispensabile ad un mondo gestito dall’idolo della finanza.
Questi tentativi di neutralizzazione sono cominciati molto presto. Appena conosciuto l’avvenimento della nascita di Gesù, i poteri, attraverso la figura di Erode, si sono sforzati di uccidere l’avvenimento e di massacrare l’innocenza. Questo scontro tra l’infanzia di Dio e il potere dei Cesari che fa di noi degli schiavi della violenza, del denaro, della produttività e delle immagini sociali, costituisce una linea di continuità nella storia.
L’avvenimento del Natale, quello in cui la Parola si fa carne, introduce un virus radicale nei programmi di coloro che pretendono di avere il potere di controllare l’esistenza umana. L’infanzia degli inizi diventa il luogo fondamentale dell’umano. È la sorgente in cui ciascuno, quale che sia la sua tragedia, può ritrovare una dignità e una speranza. Ecco perché, grazie al Natale, sono i più deboli, gli esclusi, che aprono la via verso il futuro. Non in nome di chissà quale lacrimevole umanitarismo, ma perché coloro che possiedono meno ci invitano a rimanere negli inizi dell’umano. È il senso del versetto evangelico: “la pietra scartata dai costruttori è diventata pietra d’angolo”.
È a tempi di rinascita che ci invita tutti la festa del Natale. Non in un domani incantato, ma nel concreto dell’oggi. Lo stupore del Natale ha la forza delle origini. Ormai, “il Verbo che viene nel mondo illumina ogni uomo”, e nessun potere può più nascondere questa luce. A Natale, cantiamo l’invito ad inventare ogni giorno la fraternità umana, l’unica che può, da quel momento, dare senso alla storia.
di Michele Ciliberto (l’Unità 24.12.12
Per quale motivo i laici, e anche i non credenti, festeggiano il Natale? Quale è il significato che essi assegnano a questa festività che ricorda, e celebra, l’Incarnazione (insieme alla Resurrezione il centro costitutivo della religione cristiana)?
Vorrei cercare di rispondere a queste domande da storico della filosofia, sostenendo queste tesi: l’Incarnazione è una base essenziale della concezione della storia umana come storia della libertà; è il fondamento di una visione dell’uomo quale principio di libertà e di responsabilità; con essa inizia a svolgersi, in termini nuovi, il principio dell’eguaglianza e di un comune destino come predicato originario dell’umanità.
Alla base di questa visione che fonda una concezione integralmente nuova della storia e dei fini che in essa l’uomo si propone stanno due motivi essenziali: la «conciliazione» di umano e di divino, che si realizza nella figura di Cristo; il mutamento radicale, rispetto alla filosofia greca, nel rapporto tra Dio e uomo e, di conseguenza, tra uomo e Dio. Vediamoli entrambi cominciando dal primo.
«La certezza dell’unità di Dio e dell’uomo è il concetto di Cristo, dell’Uomo-Dio. Cristo è apparso,un uomo che è Dio e un Dio che è uomo; da ciò il mondo ha avuto pace e conciliazione». Così scrive Hegel nelle Lezioni di storia della filosofia, illuminando il significato della Incarnazione e della figura di Cristo nella storia del pensiero e in quella del mondo.
Questa posizione è il punto di approdo di un lungo travaglio che attraversa fin dalle origini anche la filosofia moderna. Esso concerne precisamente la possibilità della «conciliazione» fra umano e divino di cui parla Hegel: come è possibile che finito e infinito, uomo e Dio, possano «conciliarsi» nella figura di Cristo? Se è incommensurabile la distanza tra l’uno e l’altro, la figura di Cristo si rivela come una sorta di creatura mostruosa una specie di centauro senza alcun fondamento filosofico e teologico. Infatti il rapporto tra divinità e umanità potrebbe darsi solo in termini di «assistenza» della prima alla seconda; non di «inerenza», inconcepibile sia dal punto di vista filosofico che teologico.
Queste sono posizioni di pensatori radicalmente estranei al cristianesimo; ma anche un grande cristiano e un profondo pensatore come Pascal esclude, da un punto di vista filosofico, la «conciliazione» di umano e di divino: solo la verità del Vangelo, osserva, «concilia la contrarietà con un’arte affatto divina e ne fa una saggezza veramente celeste in cui si conciliano quegli opposti, incompatibili in quelle dottrine umane». Come egli stesso precisa subito dopo, questa è però teologia, non filosofia.
La forza e la grandezza della posizione di Hegel sta precisamente nel porre in termini filosofici la «conciliazione» di umano e di divino, interpretando a questa luce la figura di Cristo e l’Incarnazione. Lo fa perché elabora una nuova teoria degli «opposti» risolvendo il problema di fronte al quale Pascal si era fermato, abbandonando il campo filosofico per quello teologico.
A differenza di Pascal il quale aveva respinto drasticamente la possibilità che gli «opposti» fossero «nel medesimo soggetto» Hegel «concilia» umano e divino nella figura di Cristo, stabilendo le basi della concezione della storia come storia della libertà. E strappando, con Lutero, Cristo alla tomba in cui l’avevano cercato i crociati, lo pone nella interiorità dell’uomo, nella spiritualità che si «acquista solo nella conciliazione con Dio, nella fede e nella partecipazione». Quella cristiana è perciò una «dottrina della libertà» individuale, fondamento di una nuova concezione dell’uomo e della storia, di cui l’Incarnazione e la figura di Cristo sono fondamento essenziale.
È un’acquisizione filosofica decisiva dalla quale non sarà più possibile tornare indietro, e che il pensiero laico farà sua nei suoi esponenti più alti e significativi. Si potrà discutere dei caratteri della libertà, ma che essa sia il principio della storia umana e che il cristianesimo abbia svolto una funzione essenziale questo è ormai un dato acquisito.
E veniamo ora al secondo elemento. L’Incarnazione e la figura di Cristo generano un altro «principio» filosofico essenziale anche per un laico, consistente nel mutamento radicale, rispetto al pensiero greco, del rapporto tra Dio e l’uomo.
Lo ha detto in pagine molto belle Max Scheler: mentre la concezione greca presenta un uomo che si sforza di salire verso Dio, il cristianesimo con la figura di Cristo rovescia questo punto di vista, presentando un Dio che discendendo verso tutti gli uomini, accoglie con un gesto di amore totale l’intera umanità. Nella concezione cristiana si attua perciò un vero e proprio «rivolgimento dell’amore»: «il nobile si abbassa all’ignobile, il sano all’ammalato, il messia ai pubblicani ai peccatori e questo senza la paura antica di diventare meno nobili ma nella più strana convinzione di guadagnare l’eccelso, di divenire simili a Dio».
Un motivo assai intenso, svolto con efficacia anche da Barth: «L’uomo può dirsi senza Dio, può sentirsi ateo, ma Dio non può dirsi senza l’uomo perché Dio non è più senza l’uomo, rimane abbracciato, così coinvolto con l’umanità da appartenere ad essa». Quello cristiano è un Dio che, coprendo ogni persona con la sua luce e il suo calore, pone le basi di quel principio di solidarietà e di eguaglianza tra tutte le creature che diventerà poi un principio essenziale della filosofia e del pensiero politico moderni.
In conclusione: libertà, responsabilità, eguaglianza sono tutti concetti che hanno a che fare con l’esperienza cristiana e con la dottrina della Incarnazione, e perciò con il Natale. Sarebbe stolto negarlo o occultarlo; come sarebbe sciocco trascurare l’originalità e la creatività con cui il pensiero laico ha ripensato e sviluppato queste radici. La nostra comune civiltà nasce e fiorisce da semi differenti: ieri come oggi il nostro compito è riconoscerli e riaffermarli nella loro autonomia e specificità.
La fede cristiana si sviluppa intorno a un’idea di salvezza che è pienezza di umanità, nel mondo e col mondo.
La storia del Logos ne è paradigma
Un bimbo il Dio che rischia non è solo spirito
Il Natale è una memoria coinvolgente e pericolosa
Il cristianesimo non è una «religione civile»
È la compromissione radicale del divino con la storia dell’umanità che spinge i cristiani alla passione per la giustizia
di Serena Noceti (l’Unità, 24.12.2012)
In principio era il Logos, il Logos era presso Dio e il Lo gos era Dio... E il Logos divenne carne». Con la loro incisiva lapidarietà queste parole del Quarto Vangelo, che vengono proclamate nelle chiese ogni anno nella liturgia del Natale, consegnano a una prospettiva essenziale, davanti al profluvio di parole sulla solidarietà, la condivisione, la bontà con cui si offre la reinterpretazione del Natale in una società ormai secolarizzata e post-cristiana, ma sempre segnata nei tempi del vivere collettivo dalla sua tradizionale storia cattolica.
Sono parole che sintetizzano la coscienza di fede cristiana sulla ineliminabile relazione di Dio con il mondo, sulla sua compromissione radicale con la storia dell’umanità, e insieme vogliono esprimere una parola significativa sull’umano, a partire dalla concreta vicenda di Gesù di Nazareth.
Le parole del Vangelo di Giovanni sono parole che possono raggiungere nella loro paradossalità anche gli uomini e le donne credenti e non abitatori di questa tarda modernità, perché parlano di «divenire» e di «carne», di un definitivo (che non è l’assoluto) nel frammento di un esistenza singolare e limitata; perché hanno la capacità di interpellarci attraverso il tempo a riconsiderare in modo nuovo la nostra stessa storicità, dischiudendone orizzonti di senso e di resistente speranza. Quando la Bibbia ricorre al termine «carne», infatti, esprime l’essere umano integrale visto nella sua fragilità, nella debolezza, nella mortalità, nello stare in una rete di relazioni che qualificano l’identità singolare e nell’essere determinato e «de-finito» dallo spazio e dal tempo.
La fede cristiana si sviluppa intorno a un’idea di salvezza che è pienezza dell’umanità, nel mondo e con il mondo, di cui la storia del Logos incarnato è fondamento e paradigma. La progressiva tecnicizzazione del mondo e della vita, lo sviluppo rapido dei sistemi di comunicazione e di trasporto, l’evoluzione dei sistemi sociali stanno modificando in maniera sostanziale proprio la nostra percezione dello spazio e del tempo. «Com-presenti» al mondo intero e segnati da un egemonico presente che sembra presentarsi a noi già compiuto, pronto per essere consumato e abbandonato per fare spazio non al futuro, ma a nuovi presenti, siamo affascinati da una «possibile onnipotenza» e insieme sperimentiamo un inedito dis-orientamento: abbiamo smarrito il senso del tempo, di una storia collettiva che goda di radici che custodiscono identità in divenire, di una progettualità di futuro capace di una speranza che orienti le prassi dell’oggi.
L’annuncio cristiano ha al centro non una verità a-storica su Dio, ma la paradossale affermazione che mediatore di salvezza per l’umanità intera è l’uomo Gesù Cristo, nella singolarità della sua vicenda umana, data nello spazio e nel tempo: una biografia segnata dalla parzialità come ogni altra esistenza umana (a iniziare da quella di sesso), ma capace di interpretare
il «qui ed ora» nella permanente dinamica trasformativa del futuro. Davanti a quella volontà di potenza che ci fa perdere di vista la nostra condizione di fragilità il cristianesimo proclama non una verità a-storica sul divino e sulla trascendenza, ma il volto di Gesù di Nazareth. Nel Natale ricorda che, se contraddistingue l’umano (e il divino) lottare per ridurre ogni fragilità e vincere ogni alienazione, è proprio della maturità umana la coscienza che individuazione del senso, esercizio di libertà, crescita autentica sono connessi con il limite e il determinato.
Non «semplicemente» il «farsi uomo» di Dio, ma il «farsi carne» (sarx), lo sperimentarsi nella condizione spazio-temporale e nella storicità di un divenire libero e responsabile, per una salvezza che passa dall’impotenza della sarx di Gesù e quindi non impone, non vincola, ma si propone alla libertà di ognuno. È una proposta di fede che chiede di superare ogni concezione di un Dio «a-patico» e immutabile e ogni comprensione della verità che sia a-storicamente pensata, per aprirsi a una rivelazione di Dio nella storia e come storia, che comporta interpretazione e coscienza del relativo. Al di là del pittoresco e dell’aurea di innocente candore veicolata dai nostri presepi, il Natale è una memoria coinvolgente e pericolosa perché costringe ad abbandonare un’idea infantile di salvatore che, quale onnipotente e deresponsabilizzante Deus ex machina sceso nei contesti dolorosi della vita in cui si è sperimentato il limite del nostro possibile, viene a liberarci dalla finitudine dell’umano e dal rischio della libertà.
Fin dall’inizio del cristianesimo si è vigilato per mantenere la verità della «carne» di Gesù davanti alle ricorrenti tentazioni gnostiche, alle riduzioni spiritualizzanti o etiche della fede, al concentrarsi sulla natura divina di Cristo a detrimento della concretezza della sua persona umana. Anche oggi, in un tempo in cui è sempre più evidente la tentazione di risolvere l’esperienza cristiana nell’interiorità o in una spiritualità dedita a un sacro che semplifica e rifugge dalla complessità del mondo, mentre molti tentano di ri-ascrivere il cristianesimo a un destino di civil religion, la memoria del «Natale nella carne» si pone come interruzione necessaria per i cristiani affinché ritornino a declinare un annuncio significativo per tutti, perché ancorato all’effettività corporea di Gesù quale luogo dell’esserci di Dio, capace di ridisegnare il pensiero sull’umano e sul divino.
La fabbrica del bene tra carità e diritti
di Adriano Sofri (la Repubblica, 7 gennaio 2013)
La crisi moltiplica i circoli viziosi, fino a quando non si trovi il modo di spezzarli. In uno, l’impoverimento rende sempre più preziose le attività solidali (“di mutuo soccorso”, ha scritto Gad Lerner) cui però mancano sempre più le risorse materiali e umane. Nessuno saprebbe tenere un vero conto di come una società di tagli e grattaevinci vada avanti attraverso la solidarietà, famigliare prima di tutto, e poi di vicini, volontari, associazioni. Quanto ai conti internazionali più autorevoli sulla filantropia, paiono anch’essi azzardati, misurando denaro e comportamenti, entità di donazioni, tempo dedicato alla buona volontà, cura dello straniero. Un’accreditata classifica sulla beneficenza è redatta dalla britannica Charities Aid Foundation.
Alla vigilia di Natale veniva citata con enfasi la caduta dell’Italia dal 29° posto del 2010 al 104° del 2011. Una degradazione troppo forte, anche considerando l’incidenza della solidarietà col terremoto in Abruzzo. Ora il consuntivo del 2012 ha riportato l’Italia al 57° posto. A parte lo sconcerto per gli alti e bassi, teniamo un posto assai mediocre fra i paesi “avanzati”. Si annuncia dunque come una novità importante per l’Italia la formazione alla “filantropia strategica”, “beneficenza scientifica”.
Si è tentati di sorridere dell’annessione della carità a scienza e strategia, o sentirci odore d’affari, come si irrideva alle brave dame (“pour faire une bonne dame patronnesse, il faut être bonne, mais sans faiblesse...”).
La carità, spiegano gli esperti, è altra cosa dalla filantropia: se non fraintendo, è la famosa differenza fra dare un pesce all’affamato, o insegnargli a pescare. Di più: il passaggio della filantropia dalla spontaneità alla scienza vuole insegnare ai sazi a insegnare a pescare. Ci si potrà vedere un passo verso il superamento del divario enorme fra l’Italia - e l’Europa in genere - e gli Stati Uniti, dove la combinazione fra individuo e comunità produce un ingente investimento nella beneficenza in senso lato. Le donazioni restano una vocazione eminentemente americana e, ai nostri occhi, mirabolante. Nel novembre del 2011 i signori Dorothy e Robert King hanno donato 150 milioni di dollari all’università di Stanford, di cui lui è ex alunno, per un programma destinato ad alleviare la povertà nei paesi in via di sviluppo.
Nell’ottobre 2012 il finanziere John Paulson (hedge fund ecc.) ha donato 100 milioni di dollari all’organizzazione no-profit che cura la manutenzione del Central Park. Decine di personaggi fra i più ricchi del mondo - ma tutti americani - hanno aderito all’impegno promosso da Bill Gates e Warren Buffett a devolvere almeno il 50 per cento della propria ricchezza a scopi di filantropia. Compreso il giovane Zuckerberg, che intanto ha dato 100 milioni alle scuole di Newark da cui proviene.
La vecchia Europa “socialista” può contrapporre una propria idea di “redistribuzione” della ricchezza sociale alla “restituzione” cui si ispira la filantropia americana, affidandosi la prima all’equità del governo, la seconda alla benevolenza dei privati. I risultati però non ci danno ragione, in particolare nella pratica delle successioni ereditarie. Una differenza più particolare riguarda l’Italia, o la Spagna. La nostra carità ha un’impronta più cattolica e castigata, controriformata. La beneficenza è stata essenzialmente affare della Chiesa, cui lo Stato la delegava volentieri, per convenienza e per servilismo. Diversa è anche la gratificazione del riconoscimento pubblico.
Da noi la discrezione, così spesso ipocrita, sta a metà fra modestia evangelica (non sappia la tua mano destra, fa’ il bene e scordalo ecc.) e vergogna di essere ricchi; e la vergogna oscilla anche lei fra l’altruismo e l’imbarazzo sull’origine della ricchezza. Alla discrezione di precetto lo Stato aderisce con entusiasmo, astenendosi dal tassare solo una piccola percentuale della ricchezza devoluta in beneficenza dai singoli. C’è il luogo comune del differente trattamento fiscale della beneficenza. Ne leggo una smentita drastica nel libro di Francesco Antinucci, “Cosa pensano gli americani” (Laterza 2012): “Consiglio la lettura dell’opuscolo dell’Agenzia delle Entrate, sulle Erogazioni liberali... Ci sono differenze tra Italia e Stati Uniti, ma sostanzialmente i due trattamenti si equivalgono.
Anzi, in alcuni casi, quello italiano è addirittura più vantaggioso per il donatore. Per esempio,l’importantissima classe di donazioni alle università e agli enti di ricerca scientifica, in Italia è deducibile dal reddito senza alcuna limitazione, mentre negli Stati Uniti è soggetta alla soglia del 50 per cento del reddito. Invece, in Italia, le persone fisiche possono detrarre soltanto fino al 10 per cento del reddito, le imprese senza alcuna limitazione. In America, resta il 50 per cento del reddito per tutti, persone fisiche e imprese”.
La differenza è rilevante, dal momento che, come informa lo stesso Antinucci, le donazioni personali negli Stati Uniti coprono l’88 per cento del totale. Abbastanza incongruamente, l’Europa applica le norme più disparate, dal 25 per cento di deduzione in Spagna al 100 in Austria. Del resto, benché la facilitazione fiscale incida, non è la causa principale dell’impulso alla donazione, che è piuttosto culturale e, in senso lato, religioso.
Ezio Mauro sottolineava qui nello scorso novembre la distinzione della democrazia dei diritti “dalla ‘democrazia compassionevole’ e anche dalla ‘Big society’ che sostituiscono la benevolenza individuale e dei gruppi sociali all’organizzazione dello Stato sociale, la carità ai diritti. La beneficenza non ha bisogno della democrazia ma in democrazia, la solidarietà sociale ha bisogno di qualcosa di più della beneficenza: i diritti”. Il rischio è che la crisi tagli diritti e carità. Fece allora scalpore in Spagna il gesto di Amancio Ortega Gaona, fondatore e presidente del più grande gruppo tessile, Inditex, produttore fra altri del marchio Zara, terzo uomo più ricco del mondo per la classifica di Bloomberg, nella quale ha spodestato Warren Buffett, quello che vorrebbe pagare più tasse della sua segretaria. Il signor Ortega, leggendariamente alieno da interviste e comparse pubbliche, ha regalato alla Caritas spagnola 20 milioni di euro. La cifra era imponente, ma non ha impedito a molti commentatori di calcolare che corrispondeva allo 0,05 per cento del suo patrimonio, e che un comune cittadino spagnolo con un patrimonio di 10 mila euro, in proporzione avrebbe dato in beneficenza 5 euro. Le monete hanno sempre due facce.
O tre, con quella politica. La “filantropia strategica”, quella attenta all’efficacia delle risorse investite, quella in cui uomini e donne di formidabile successo trasferiscono talento e passione facendone il proprio impegno primario, da Bill Gates in giù, può ottenere risultati magnifici, in particolare nell’istruzione e negli scambi col mondo povero. Possono imparare e insegnare a pescare. Ma resta il vecchio dilemma. Resta quello che ha fame, qui e ora, e bisogna dargli un pesce. (Teniamo la parabola, anche se il problema sta diventando per ricchi e poveri la scomparsa dei pesci). Bisogna che ci siano delle mense con un pasto caldo, delle stanze con una branda e una coperta.
Non è solo un urgente problema sociale, ma diventa un problema politico, esemplificato vistosamente da quel genere di beneficenza selettiva - razzista, per dirla intera - su cui Alba Dorata in Grecia e filiali altrove lucrano il proprio seguito popolare. La parola d’ordine: “I Greci prima di tutto”, o “Gli Italiani”, o “I Padani”, e così via (che vuol dire: “I Greci e basta”, “i Padani e basta”...) fa una presa molto più forte e torbida quando si rivolge agli impoveriti. C’è dunque anche una carità, o una filantropia, che baratta un piccolo bene con un grande male, e rende odiosa se stessa. Chi abbia frequentato i luoghi in cui la carità si esercita all’ingrosso, sa in quale terribile tentazione di iniquità siano indotti i suoi benevoli attori. E poche forme di potere sono rischiose quanto quella di chi ha in mano un pane superfluo davanti alla fila degli affamati.